
VISTA IMPRENDIBILE
di Michele Branchi

Fabio Tosto: CERCARE 2018
Che cosa mi avesse determinato l'acquisto di quell'immobile sito all'ultimo piano, ma senza vista ( a sud dava su un cortile e a nord est si scontrava con la facciata di un altro palazzo), l'avrei saputo dopo. Ma credo si fosse messo in atto un meccanismo interattivo fra le leggi che governano le coincidenze e le direttive imponderabili dell'inconscio, altrimenti ascritte alle teorie della predestinazione.
Non trattai più del dovuto, riducendo al minimo il tempo riservato alle procedure negoziali. In soli venti giorni divenni proprietario e abitante dell'appartamento. I due precedenti erano defunti. La parte contraente era rappresentata dai sei eredi dell'ultimo proprietario, che non tollerando un regime di comunione infruttifero, anzi moderatamente oneroso, avevano deciso fosse più opportuno disfarsene, onde ricavarne almeno una piccola somma pro capite. Lo stesso era capitato per il primo passaggio di proprietà. Erudito sui precedenti e consapevole dell'arcinoto motto, provvidi ben presto a redigere testamento, non avendo al mondo aventi diritto e non volendo lasciare allo Stato una casa su cui non avevo esitato un istante a dirigere la mia scelta. Dopo la mia dipartita, mi sarebbe subentrato il condomino a mio parere meno antipatico, il cui nome avrei scritto entro due anni e depositato presso il notaio. Qualora fossi deceduto prima di designarlo, i beneficiari sarebbero stati coloro che mi avevano venduto l'immobile. Qualcosa mi suggeriva che se la linea si interrompe, la stessa deve ripartire dal punto da dove aveva ripreso il tracciato.
Mi ero installato da un paio di mesi nella mia nuova dimora. Ogni sera, tornato dal lavoro, cucinata e consumata in fretta la cena, mi appostavo alla finestra del soggiorno a guardare per ore il panorama costituito dalla facciata di fronte. Vi avrei potuto scorgere le luci di qualche desco, una donna o un uomo sporgersi al davanzale o sostare sul balcone il tempo necessario a ritirare il bucato o a innaffiare le piante, se la mia attenzione percettiva fosse stata rivolta a quelle piccole liturgie del quotidiano officiate dallo sguardo. Invece di essere assorbito da un altrove che pur non esistendo neppure nella mente, avvertivo preesistente e prossimo a magnificarmi della sua visione.
La stessa attesa assorta volgevo al panorama a sud della camera da letto e a sud est della camera riservata agli ospiti, ancora immacolata, da cui potevo ammirare lo scorcio del cortile interno, bigio e ristagnante di olezzi.
Una sera aprii la porta al mio dirimpettaio, con il quale dividevo insieme a un altro inquilino l'ultimo pianerottolo del caseggiato. Stava raccogliendo le firme per una petizione condominiale, benché l'obiettivo più pregnante fosse di soddisfare la sua curiosità, pari alla mia di corrisponderla. Lo feci accomodare dentro casa, evitandogli i preamboli della discrezione. Aveva la moglie in ospedale e perciò si sentiva molto solo, abituato com'era stato fino ad allora a essere accudito e blandito dalla sua diuturna presenza.
Senza dubbio aveva mutuato dalla consorte la morbosa curiosità e le strategie per gratificarla, per quanto attingesse al lungo apprendistato con una famiglia di origine composta esclusivamente da donne. Per appurare la mia età, invece di chiedermelo in via diretta, dichiarò di avere cinquant'anni all'incirca come me. Per non deluderlo, mi limitai a rettificare con una approssimazione di un anno, mentre ne avevo dieci di meno e li dimostravo senza infamia né lode. Ma il mio visitatore era discretamente miope, come mi confermò dicendo di aver scordato gli occhiali da qualche parte, nonostante si ostinasse a girare a occhi nudi, e non per dimostrare di vederci bene, ma per convincersi di vederci meglio di quanto la mancanza di diottrie oggettivamente attestasse. Fra uomini che non sono legati da amicizia non si sa mai come comportarsi in simili circostanze, quando non ci sono donne a esercitare il ruolo di amministratrici della buona ospitalità. Tutto sa di stonato, di finto, o meglio gli uomini non sanno gestire la simulazione al pari delle donne, che hanno ricevuto in dote la virtù di porgere e porgersi con la grazia e l'autenticità cristallizzate da secolari convenzioni domestiche
Gli uomini temono di svelare la propria femminilità, di sembrare affettati con chi ancora non conoscono, e in questo loro titubare risultano molto più impacciati e ridicoli. Ma il mio dirimpettaio era talmente curioso che ebbi l'impressione di discorrere con una donna o un suo vicario, per cui non provai quel disagio iniziale. Il simulacro femmineo che mi offriva mi riparava dalle incongruità, rimettendo ogni mia eventuale goffaggine alla comprensione di una donna, consapevole di come un uomo solo fosse poco disinvolto nel fare gli onori di casa.
Nella mezzora che rimase con me volle sapere: se fossi sposato, se avessi amanti, parenti, quanto mi era costato l'appartamento, se soffrissi di lombaggini, artrosi, sciatalgie, se avessi tutti i denti, se portassi slip o boxer, quali programmi televisivi seguissi, se dormissi sopra un materasso morbido od ortopedico, se qualcuno mi aiutasse a tenere in ordine la casa, se avessi intenzione di cambiare l'arredamento, l'auto.
Dovendo fronteggiare il suo querulo profluvio, non mi riuscì di domandargli certe cose che mi premevano, specie riguardo ai miei predecessori. Però, andandosene fra mille raccomandazioni, consigli e sollecitudini, mi disse che dalle mie finestre avrei goduto di una vista imprendibile, a differenza che dalle sue, affacciate su una strada chiusa e priva di attrattive. Non gli opposi il mio sbalordimento. Gli credetti a onta dell'evidenza fenomenica, avvalorando le mie sistematiche sedute serali di fronte al riquadro della finestra. Semmai mi stupii al limite dello sconcerto che lui fosse così documentato sulle mie aspettative.
Ne dedussi che anche i vecchi proprietari fossero stati privilegiati di una simile vista. Mi venne da postulare se questa possibilità non fosse soggettiva, ma insita nella proprietà dell'immobile e che lo seguisse a ogni trasferimento, al pari di un diritto reale di garanzia, quale l'ipoteca.
Presentii che il mio vicino sarebbe tornato spesso a farmi visita, col pretesto della solitudine. Non mi sarebbe affatto dispiaciuto, a condizione che le sue visite non implicassero un sottinteso o manifesto scambio di ospitalità. Avrei perso tempo prezioso per rimanere in casa, da cui già il lavoro mi teneva distante l'intera giornata. In quanto agli amici, preferivo che venissero da me, disponendo di una camera degli ospiti nel caso qualcuno di loro vi volesse pernottare. .A forza di eludere gli inviti degli amici, una di loro, forse presa alla sprovvista, d'impulso, senza una apparente ragione se non quella di rispondermi affermativamente, mi disse che mi sarebbe venuta a trovare il sabato seguente.
Si chiamava Roselaide, 35 anni, parecchie relazioni passate al setaccio, che le avevano smorzato il desiderio di piacere e di piacersi, nonostante la sua giovane età. Con ciò non aveva smesso di curare la propria persona, ma più in ottemperanza alle esigenze del decoro e agli imperativi dell'abitudine, piuttosto che per un surplus di vanità e di civetteria. La sua figura attuale risultava come il prodotto di piccole ma reiterate sottrazioni. Un albero natalizio sfrondato di ornamenti, che pur non annulla il simbolo, rendendolo assai meno sfavillante; un profumo sventato che ancora intride la pelle, non suscitando più né voluttà né ricordi; un libro privato di segni identificativi, di cui bisogna indagare l'ordito delle parole per poter risalire all'autore. Infatti restava la parola a testimoniare l'essenza femminea di Roselaide.
I carattere del suo sesso li aveva, insomma, smaltiti a poco a poco, stemperandoli in una sintesi espunta dei segni più appariscenti. Talvolta, però, non riusciva a controllare quelle improvvise intermittenze dell'umore o del pensiero, quei lampi emotivi, che molto più accentuati nelle donne sono tutt'altro che riprovevoli, a coronamento dell'intuizione, una delle loro più rilevanti capacità cognitive. Fu grazie a uno slancio improvviso che Roselaide espresse la volontà ( o la rinuncia a non volere) di visitare la mia nuova casa. Ricordo che eravamo in strada, attorniati da amici comuni. Ognuno parlava sopra l'altro, non dicendo nulla di significativo.
- Sabato vengo a cena da te - proruppe, fuori dai termini di un discorso propedeutico alla sua intenzione. Mi parve una svista verbale, a cui risposi altrettanto meccanicamente, quasi mi avesse chiesto scusa e io le avessi ribattuto: - Prego.
Non appena mise piede nell'appartamento, commentò favorevolmente il mio acquisto ancor prima di prenderne visione. Era chiaro che ci fosse già stata, come poi mi confessò, mentre servivo la cena preconfezionata in rosticceria. Non mi spiegò in quale circostanza, e io non volli saperlo, tuttavia da certi furtivi sguardi, su cui aleggiavano reminiscenze nostalgiche, di rimpianti, di vissuti sentimentali, mi fu facile
comprendere che l'assenso al mio invito, se era apparso fortuito e impulsivo a livello di coscienza, aveva radici nel suo inconscio, dal momento che ignorava dove abitassi prima di aver varcato la soglia del palazzo. O forse no, si era ricordata del civico e quel suo casuale Vengo a cena da te non era che il traboccare di una lunga disamina interiore, intessuta da dubbi, ripensamenti, esitazioni; infine, sull'onda di una pulsione, il suo vero desiderio aveva intrapreso per lei una risoluzione: ritornare sul luogo dove il dolore o l'estasi o una mediocre passione usurata dal tempo, si erano consumati, allo scopo di ricostituire con la memoria una storia con un altro uomo, tramite la complicità e a un tempo l'alibi di rivivere, piuttosto che instaurare un nuovo rapporto. Era venuta per riconsiderare a posteriori un percorso antico, di cui io rappresentavo soltanto l'elemento contingente.
Fu una serata parca di parole, quasi afasica. Roselaide era più interessata a scrutare, a ispezionare la sua memoria, che a farla dialogare con la mia. Occupata nel suo silenzio ricognitivo nello spazio del tempo, avevo l'impressione che mi avesse abolito dal suo campo visivo, se ogni tanto non mi avesse ritagliato dei sorrisi smunti e straniti, a cui era presente solo con un residuo del suo io.
A un certo punto, molto tempo dopo aver terminato di cenare, si alzò e si mise a girare per le stanze, con una espressione di vigile torpore, come se auscultasse le penombre e i recessi bui dell'appartamento.
Mi soffermai in cucina, a sovrintendere a quel vagheggiare di rimembranze disperso fra quelle stanze che credevo mie dal giorno in cui le avevo occupate, illudendomi che bastassero i miei per dissolvere i vissuti che vi si erano insediati. L'alternanza dei passi di Roselaide svanì in un silenzio cupo e inverosimile, reso inospitale proprio dai comuni rumori domestici come il ronzio del frigorifero e gli echi lontani della strada. Pensai che il comportamento più desueto fosse il mio e che lei in quel momento avrebbe desiderato la mia compagnia nel ruolo di agente catalizzatore.
Mi mossi, dunque, seguendo il filo contemplativo e nostalgico di quell'amica così estranea, e io a lei, temendo quasi di apparirle un intruso a casa mia. A grado a grado che spenta la luce mi distanziavo dalla cucina, per procedere a tentoni nel buio appena scheggiato dai fiochi barlumi infiltratisi dalle serrande, l'appartamento perdeva le connotazioni familiari modellate sull'abitudine, rappresentandosi alla mia mente come il santuario di memorie altrui che violavo o servivo, da buon diacono dei sentimenti.
Paradossalmente, smarrii le coordinate topografiche. Non mi rendevo conto se mi trovassi nel soggiorno o in una delle due camere da letto. D'un tratto fremetti, trattenendo un singulto. Le sue mani mi lambivano la schiena, si spostavano sul collo, sfioravano il volto, lo avvicinava al suo, le mie labbra alle sue. Quando se ne distaccò, contraddicendo i miei propositi, le mormorai:
- E'stato col primo o col secondo proprietario?
Roselaide aderì alla mia guancia e a fior di labbra sospirò voluttuosamente:
- Col terzo.
Mi accorsi, mentre eravamo abbracciati, di essere non da qualche parte di quel luogo disconosciuto, ma nello sgabuzzino. Era insolito e bizzarro scambiarsi effusioni lì dentro, in mezzo ai riposti semiarchiviati, dove peraltro soltanto la ricerca di un ricordo indurrebbe a soffermarsi. Pensai che fosse un passaggio temporaneo, invece Roselaide mi fece capire che vi voleva amoreggiare, fino a che la ricognizione mnestica non fosse completata. Anche scopando seguiva un tracciato mentale, o per lo meno lo supposi. Si conformava a un sancito erotico che una volta sarà pur stato spontaneo e sincero, e che ora mancava di autentico ardore, venendole a mancare (con un supplente occasionale) i fervori della passione di essere posseduta nel possesso. Godé o si sforzò di godere con l'amico strumentale l'altra donna che aveva goduto con quell'altro. Io gradii non di più del soddisfacimento di un bisogno fisiologico frustrato da una prolungata astinenza.
Ci ritrovammo in cucina, tali e quali, anzi non proprio. Lei aveva tutta l'intenzione di ricominciare daccapo, alludendo alla cena e alla visita all'appartamento. Parlava come colta da amnesia riguardo a quanto accaduto poco prima, ed era così convincente che anch'io mi stavo persuadendo di aver rimosso ogni cosa, cena compresa. La sua simulazione o vera amnesia si spinse al punto da voler consumare ciò che aveva già consumato in stato di semitrance . Avevo un bel dire per cercare di smentirla.
- Benedetto uomini, invitate a cena le signore e non preparate niente. Persino i piatti sporchi sul lavello ci fate trovare.
Come spiegarle che erano i piatti su cui avevo servito le portate precucinate in rosticceria, motivo pure dell'assenza di tegami e pentole sui fornelli, se io stesso stentavo a crederci, se non per quel senso di pienezza allo stomaco?
- Mostrami l'appartamento, almeno. Mi accontenterò di un drink, tanto non ho molta fame stasera.
L'assecondai. Giunti di fronte alla porta del ripostiglio, credo di aver assunto un'espressione ebete.
- Embé, che ti prende? C'è qualche segreto lì dentro?
- Non più, ora - risposi laconico, conducendola verso la camera da letto.
- Grande, fin troppo. Letto matrimoniale. Vuoi starci comodo quando ti diverti.
Mi guardò con un'aria così programmaticamente allusiva da togliermi ogni voglia residua che ancora poteva suscitarmi il recentissimo ricordo del suo corpo, di cui serbavo una percezione solo tattile e olfattiva.
- Su, dammi da bere, tenebroso e timido maschione.
- Non metti un po' di musica? - mi invitò Roselaide, mentre sorseggiava il suo drink seduta su una poltrona del soggiorno in una positura stereotipata da donna che sa quello che vuole, mutuata da un manuale d'altri tempi sull'arte di sedurre un uomo.
Mi pareva di vivere all'interno della seconda parte di un film, completamente diversa dalla prima, o meglio un secondo film in cui gli stessi attori interpretavano la stessa storia in ruoli differenti. Ci si recitava addosso, infatti, come forse era accaduto nel corso della primo tempo, quantunque permanesse una sorta di nota stonata, una ritrosia a entrare nella battuta, una costante discordanza fra ciò che si pensava e ciò che si voleva apparire l'una agli occhi dell'altro. In questo modo si aveva la sensazione che la serata dovesse sempre ricominciare, troncando ogni volta un possibile sviluppo, per dare adito a un nuovo inizio.
Contrariamente alla fase di apertura, Roselaide parlava molto, ed io ascoltavo le mie parole, stentate e mai sintonizzate sulle sue. Parlava di uomini, di donne, di colleghi, di argomenti di ufficio, e di tant'altro, con la sicurezza dell'uomo di affari e e la consapevolezza della giustizia di un giudice. Il suo eloquio era privo di venature donnesche, di affettazioni, tali da restituirmi la parvenza di un uomo maggiorato delle migliori peculiarità femminili. Si riproduceva all'inverso lo stesso effetto suscitatomi dal mio dirimpettaio, apparendomi per il suo atteggiamento sotto l'effigie di una donna.
Mi chiedevo se anche Roselaide ravvisasse un me un fatuo cambiamento psicologico di sesso, essendo stato, di volta in volta: l'uomo strumentale dei suoi vissuti amorosi, lo sprovveduto padrone di casa incapace di iniziative, il ricettacolo passivo del suo profluvio verbale. Da uomo, da ragazzino, da scolara intimidita e plagiata dall'insegnante, ora forse mi ero tramutato ai suoi occhi in un automa asessuato, regolato sulle circostanze da lei determinate. Neppure, neppure. A forza di rivestire un ruolo di progressiva e inarrestabile subalternità, mi ero così rimpicciolito da diventare insignificante, privo di spessore, di contorni, da distanziarmi da lei, imprendibile alla sua vista.
In effetti mi guardò per l'ultima volta come si scruta un orizzonte su cui cala la notte. Poi ripiegò sui suoi pensieri, ponendo fine ai discorsi. La vidi alzarsi dalla poltrona, rimanere incerta sul da farsi, quindi orientarsi verso la finestra. Vi sostò per qualche minuto, guardando fuori, dopo aver sollevato apposta la serranda. Conoscevo bene la facciata del palazzo di fronte, da cui, data l'ora tarda, lumeggiavano pochissimi interni. Eppure lei si soffermò a guardare con crescente intensità. Scorsi di lato che aveva gli occhi lustri. Lo intuii, a dire il vero, ricevendone convalida quando estrasse il fazzoletto dalla borsetta per tamponarseli in fretta.
Si era commossa per ciò che vedeva o ricordava di aver veduto dalla mia finestra un tempo in cui non lo era ancora. O, molto più verosimilmente, per ciò che avrebbe desiderato vedere. In quello scorcio finale di serata, escluso il sottoscritto dal suo campo percettivo, non essendo mai entrato nel campo delle sue emozioni, Roselaide non ebbe rapporti che con la casa. Si riappropriò dello stato interiore iniziale, con la differenza che io non c'ero nemmeno più in qualità di enzima umano nella reazione retrospettiva.
Uscì, infine, dal suo appartamento, senza curarsi di salutare chi lo abitava.
- Povera donna - commentai ad alta voce. Però, come avrei potuto dire: - Povero me- o - Povero Tizio. - Per stanchezza di pensiero.
Non avevo sonno. Mi piazzai davanti alla finestra, che spalancai. Tutte le luci della cortina di cemento armato erano spente. Suonarono alla porta. Non mi passò neppure per la mente: - E' lei che ritorna. Si scusa, magari mi dà nun bacio, rimane a dormire con me.
Roselaide era scorsa via, come l'acqua della doccia
Non mi domandai neppure chi potesse essere a quell'ora. I miei gesti, le mie reazioni, erano come dovuti a una specie di necessità trascendente.
Il mio vicino di pianerottolo stava sulla soglia, simile a uno stuoino slabbrato e zuppo. Mi spiegò che aveva vegliato sua moglie all'obitorio, deceduta la sera antecedente dopo una lunga malattia. Il dolore non gli aveva attenuato la querula curiosità, resa ancor più morbosa e perinecrofila. Si installò nel soggiorno, rincantucciato nella poltrona, avviluppato dalle sue parole, dentro le quali si invischiava onde trarne ottundimento emotivo.
Mi propose una specie di questionario sulle cause mortis dei miei parenti, per allargarsi su quelle degli amici, dei colleghi, di persone di pubblica conoscenza. Me la cavai con risposte evasive, indulgendo sui "non ricordo" e "mi pare". Non gli bastava. Dirottò la tematica sui condomini trapassati e le loro agonie, sugli abitanti del quartiere defunti o morituri. Non cercava commiserazione, ma obnubilamento. Si rese conto col trascorrere delle ore che io non potevo fornirglielo. Doveva stordirsi da sé. Gli servivo, se non altro, da ascoltatore neutrale, auspicando inconsciamente di appellarsi alla mia memoria, nel timore che mi dimenticassi della sua afflizione quando ci saremmo incontrati di nuovo, tanto da fargliene perdere il diritto di prelazione rispetto a chi sarebbe venuto da me dopo di lui a perorare la causa della disperazione e della paura di vivere da solo.
- Vorrei poterla consolare - gli dissi, profittando di un momento in cui un empito di commozione lo costrinse a deglutire e a tirare su col naso. - Ma vede, io parlo più facilmente con i miei pensieri.
Forse non avendo ben inteso il senso della mia battuta o per eluderne la valenza dissacrante nei confronti della sua pena, e per dimostrarmi di non esserne stato toccato, deviò la conversazione sulla donna ricevuta in casa mia. Prostrato dal dolore com'era, non aveva potuto esentarsi dal rilevarne la presenza. Gli lasciai l'onere (o il piacere) di valutare i termini della questione, astenendomi sia dal dissentire sia dal correggere la sua logorroica supponenza.
- Fa bene a sposarsi - argomentò, a seguito di una serie incalzante di induzioni e deduzioni spicciole. - Guardi me, che sono rimasto solo. Non si sta bene, mi creda - aggiunse con la compresa rassegnazione di chi vive solo da lustri, invece che da 24 ore. - E fate figli, anche se lei non è più un giovincello. E si curi. Non trascuri nessun sintomo. La morte può aspettare, se ci tiene alla vita. Non si lasci andare, come un cane che ha perduto il padrone.
Dialogava col suo alter ego trasferito su di me, per difendersi meglio dalle insidie della disperazione, di cui si rendeva sempre più consapevole, a amano a mano che diventava impellente l'esigenza di dissociarsene.
Mi reclinai sul divano e immediatamente mi addormentai. Destandomi, intravidi il suo volto estenuato.
- Lei è sveglio - esclamò, come se dicesse: - Lei non è morto.
Era rimasto a vegliarmi, immaginai con la stessa accorata compunzione con la quale aveva vegliato sul cadavere della moglie.
- Se ha bisogno di me, non ha che da bussarmi alla porta - dichiarò, finalmente congedandosi. L'ultima raccomandazione, benché indirizzata a me, andava letta all'incontrario.
Un mattino domenicale stempiato del buio, sfatto di luci opache, accigliato e sciroccoso, si alzò insieme alle serrande. Abluzionatomi alla svelta, ingollato un caffè riscaldato, vestitomi di festa, mi piazzai davanti alla finestra del soggiorno. Disponevo di una intera giornata per attendere. Invece, fui interrotto dal campanello.
Un uomo sui cinquantacinque anni, che profumava di dopobarba dozzinale, dall'abito elegante ma un po' afflosciato, robusto, media statura, allargò un sorriso benevolo e rassicurante. Lo feci entrare ancor prima che si qualificasse e dichiarasse lo scopo della sua visita. Il maresciallo Agresti, della stazione dei carabinieri di zona, era venuto in via informale per accertarsi, malgrado fosse sicuro che non ve ne sarebbe stato bisogno, che io stessi bene, a seguito di una singolare autodenuncia a opera di una donna di nome Roselaide Betti avente come oggetto l'omicidio del sottoscritto
- Mi sono accorto subito - disse il maresciallo - che avevo di fronte una mitomane, non so...una specie di psicopatica. Anche se non ne aveva l'aria. Anzi, mi sembrava molto ben educata e sicura del fatto suo. Però, cosa vuole, dopo trent'anni di servizio, uno le cose le fiuta, le capta. Ho capito che non aveva ucciso nessuno. Parlava a raffica su svariati argomenti. Quando si trattava di stringere, di spiegare in che modo avesse commesso l'omicidio, cadeva in una contraddizione dopo l'altra. Si confondeva, si arrampicava sugli specchi. L'ho lasciata andare, però penso che abbia bisogno di assistenza medica, più che della nostra. Potrei agire d'ufficio, controllare i suoi movimenti, ma credo sia una perdita di tempo. Sempre che lei non abbia fondati motivi per ritenersi offeso o peggio minacciato da questa signora che, mi pare, conosce bene.
Visto che non mostravo propositi di ribattergli, il maresciallo proseguì a perfezionare le linee del caso, sulla base della sua esperienza e del suo fiuto trentennali.
- Se me lo permette, io avanzerei l'ipotesi che la signora Betti, attualmente sofferente di crisi depressive, abbia voluto vendicarsi contro di lei per dei supposti torti subiti.
Effettuò una breve pausa di riscontro sul mio volto, che evidentemente gli diede l'autorizzazione di addentrarsi oltre i limiti dovuti da una visita informale.
- Immagino che ieri sera ci siano stati degli screzi fra voi due. Parole pesanti, magari ingiurie, violenze...morali, che la signora, nelle condizioni patologiche in cui versa, ha senz'altro esagerato, fino a deformarle. Il delitto, naturalmente, si è compiuto nella sua mente. Un delitto per vendetta suggeritole dall'immaginazione, che ha preso il sopravvento sulla realtà. Ma forse le è bastato denunciarlo alle autorità per trarne soddisfazione, per compensare le sue frustrazioni. La spinta alla confessione le è nata non per un bisogno di espiare, di ricevere il castigo, ma per rendere più verosimile il delitto di fronte alla propria coscienza, per conferirgli maggiore credibilità.
La mia espressione dovette rivelargli un moto di stupefazione per quel suo modo di discettare intorno all'animus di una sedicente rea confessa, dal momento che avvertì la necessità di giustificarsi.
- Le parrà strano che un semplice maresciallo si interessi di psicologia. Qualche anno fa frequentammo dei corsi in psicopatologia criminale. Mi ci sono appassionato. Quando posso, continuo ad aggiornarmi. Mi piace studiare le persone. Dal delinquente a chi sporge denuncia contro il vicino per molestie e disturbo della quiete condominiale. La realtà di ogni giorno è un campo inesauribile di conoscenze, a condizione che si sappia leggere nell'intimo della gente. L'importante, vede, è volere e saper guardare. Sennò, si finisce per essere guardati dalla realtà, che comprende pure noi. La realtà ci sfugge, poiché siamo noi che le neghiamo lo sguardo. Ma volere non è sufficiente. Occorre saper guardare. Vale a dire conoscere fino a che punto vorremmo che la realtà soggiaccia al nostro sguardo. E per sguardo intendo non solo percezione sensoriale unita al ragionamento, ma soprattutto desiderio, passione, volontà di creare ciò che lo sguardo vuole vedere. Insomma, è quasi un'arte. Un'arte che si deve controllare, altrimenti ci scappa di mano, e può capitare quello capitato alla sua amica. Bé, se non ha nulla di dirmi in proposito, tolgo il disturbo. Spero, e ne sono convinto, che la faccenda non abbia sviluppi. Tuttavia, stia in guardia con quella donna. Non sarebbe la prima volta che qualcuno concretizzi nella realtà quanto commesso nella sfera psichica. Le consiglio di tenersene lontano per un po'. E se la rivede, finga di ignorare l'accaduto.
Aveva posato un piede sul pianerottolo, quando si voltò, mormorando:
- Gli stessi consigli avrei dato alla signora Betti. Ma lei non è uno di quelli che viene a confessarci i delitti, vero?
Provai a rimettermi alla finestra, ma la vicenda esposta dal maresciallo distanziava lo sguardo dal fuori e lo spingeva all'interno, nei recessi ipotetici ed evocativi.
Mi chiedevo se Roselaide non avesse che perfezionato la sua rivisitazione scritta la sera prima in casa mia, aggiungendovi una postilla esegetica.
- Col primo o col secondo proprietario? - mi inquisii per ore su questo dilemma. Di quale dei due aveva desiderato la morte, fino a denunciare l'omicidio della persona con la quale aveva replicato la dinamica della trascorsa relazione, allo scopo di anelare a una punizione tardiva? Esclusi che avesse ucciso realmente il suo ex amante, altrimenti sarebbe stata capace di replicarlo con me, integrando con l'ultimo atto il flusso dei ricordi. E se invece fossi stato io il bersaglio delle sue fantasie omicide? Io con la mia personalità unica e irripetibile, non come surrogato di altri. Io degno del suo odio, non più veicolo succube, ma fonte reattiva dei suoi sentimenti.
La mia ostinazione a giudicarmi un sottoccupato dell'esistenza altrui era così macroscopica da non rendermi conto dell'importanza (del resto ben occultata) attribuitami da Roselaide nel gioco arabescato delle pulsioni. Per quanto mi piacesse, l'argomentazione non trovava fatti nel corso della serata precedente che la sostenessero. Vi avevo svolto un ruolo troppo secondario per convincermi di essere stato compartecipe di un rapporto che non cessava di apparirmi ambiguo e unilaterale. D'altro canto, mi riaffiorava quella sua risposta sibillina, nel buio dello sgabuzzino: - Col terzo.
L'intreccio fra me e l'altro, che lei mi aveva fatto rappresentare, non si sarebbe dipanato neppure se le avessi chiesto di offrirmi delle delucidazioni. Con quale donna, infatti, mi sarei dovuto rincontrare? Con quella che brancicava nelle stanze del tempo o con la seconda, che mi rimpiccoliva con la forza dell'eloquenza, o forse con la terza, che dopo un malinconico intrattenimento presso la finestra del soggiorno si era dileguata dall'appartamento. Oppure con la donna che aveva denunciato il mio assassinio, suggellando le precedenti sotto una luce enigmatica. O, magari, con l'amica anonima che credevo tale, prima di sapere che ne avrei conosciuto molte altre.
Dopo cena, avrei avuto intenzionato di pormi davanti alla finestra, trascurata per tutto il giorno, se non fossi stato distolto da un crescente trambusto proveniente dal ballatoio. Dischiusi la porta e notai un assembramento sempre più consistente nei pressi del mio dirimpettaio, da cui fluiva un andirivieni legale e concitato. Il condominio era scosso da frementi petulanze. Per le scale una viavai di inquilini, di porte che si aprivano e rinchiudevano. Il diagramma sonoro risultava fortemente irregolare. Registrava brusche e improvvise impennate e discese, corrispondenti a densi clamori e a fitti brusii, assestandosi per brevi tratti su un rumorio sordo e indistinto, che riecheggiava l'inquietudine propagatasi all'interno del palazzo.
L'ascensore si fermo al mio piano. Ne uscì il maresciallo Agresti accompagnato da un carabiniere in divisa. Scorgendomi sulla soglia, si affrettò a domandarmi: - Sta bene, lei? - quasi nutrendo il sospetto che versassi in costante pericolo di morte. Non gli risposi. La mia incolumità era testimoniata dalla presenza. E poi lui si era già infilato nell'abitazione del vedovo. Ebbi il presentimento che vedova fosse ormai la casa. Un odore acre e pungente mi investì le narici. Pensai che la curiosità di vivere senza la moglie avesse ceduto alla paura di sperimentarla.
Mi ritrassi dentro. Mezzora dopo suonò il campanello..
- Ho fretta, devo tornare in caserma - disse il maresciallo. - Ma ci rivedremo. Domani sera, se me lo permette.
Alla mia risposta affermativa aggiunse: - Lei conosceva il suo vicino, il signor Marbetti, non è vero?
- Sì. Giusto ieri sera si è fermato a casa mia. Era prostrato per la morte della moglie.
- Già. L'ora coincide con lo stato del cadavere e la confessione del Marbetti.
Lo guardai perplesso. Il maresciallo capì che non sapevo ancora nulla. Il cadavere non era del Marbetti, ma della moglie. Mentre io stavo con Roselaide, il mio vicino strangolava la moglie, morta per presunta, lunga malattia. L'Agresti mi salutò, rimandando al prossimo incontro un colloquio più approfondito. Ora più che mai non ero in condizioni di affrontare una serena attesa davanti alla finestra.
Due confessioni di omicidio, una ideale e l'altra vera, ingombravano i miei pensieri. Entrambi gli artefici avevano intersecato la mia vita nella stessa sera, manifestando la verità sfaccettata del loro darsi alla credulità o incredulità altrui.
Come non riuscivo a spiegarmi i moventi psichici che avevano indotto Roselaide a imbastire il falso, così faticavo a discernere i motivi per cui il mio dirimpettaio mi aveva fatto carico di un altro falso. Che gli importava tacermi dell'uccisione della moglie, dal momento che sarei stato disposto a sentirgli raccontare qualsiasi cosa? Appunto per questo, probabilmente: non investendomi di alcuna responsabilità o di sensibilità, si credeva sgravato del peso della simulazione. Ma in realtà non intendeva, almeno scientemente, simulare con nessuno, tranne che con se stesso. Voleva rimuovere l'idea che la moglie continuasse a vivergli accanto, dopo che la prolungata malattia l'aveva persuaso del contrario. Si era già adattato a rimanere solo, indossando i panni del vedovo e del correlato stato mentale. Avrebbe preferito identificarsi con l'immagine della propria e altrui commiserazione, piuttosto che assisterla fino alla fine, in compagnia della propria impotente responsabilità, per la prima volta, dopo essere stato abituato a ricevere cure, attenzioni e amorevoli blandizie. Però, non aveva resistito di fronte alla prospettiva di vivere accanto all'ombra del rimorso per un delitto commesso con la premeditazione non tanto della volontà, quanto di un destino ritenuto ineluttabile.
D'ora in avanti non si sarebbe sentito più tanto solo. Vezzeggiato dal castigo, gratificato dall'espiazione, in carcere avrebbe potuto dare ampio sfogo alla sua curiosità finché i compagni di cella glielo avrebbero permesso.
Il maresciallo Agresti mi fece visita due sere dopo. Si vedeva che era a suo agio in casa mia, quasi più di me. Arrivò persino a preparare il caffè, col pretesto che essendo vedovo da tempo si era abituato a sbrigarsela da solo con le faccende domestiche, e che qualche cortesia in cambio della mia me la doveva, dato che avrebbe potuto convocarmi in ufficio con tutti i crismi dell'ufficialità, affinché contribuissi a titolo informativo a una indagine, ad ogni buon conto non necessaria, avendo il Marbetti sottoscritto la propria colpevolezza.
- L'unica incertezza - disse versandomi il caffè come se fossi stato invalido - riguarda il movente. Sulle prime immaginavo che la moglie, appena dimessa, avesse da patire un calvario prima di porre fine alle sue sofferenze. Il primario invece mi ha assicurato che la donna si stava riprendendo molto bene e che sarebbe vissuta in modo normale, seguendo le cure prescritte. Il marito ne era stato ragguagliato. Quindi escludo qualsiasi ipotesi di eutanasia. Finora ci risulta che il loro matrimonio non fosse mai stato turbato da gravi problemi. Insomma, una coppia tranquilla. La signora amava il marito e ne era contraccambiata. E se non fosse stato amore, si sarebbe trattato certo di profondo affetto.
La rivelazione che la signora Marbetti non era affetta da male incurabile mi causò una cocente delusione. Stavo collaudando le mie ipotesi sul delitto ed ecco che la realtà subito le smentiva. Mi pareva che la gente pensasse e agisse al di fuori delle categorie concettuali in cui la maggior parte, me compreso, si riconosce e per mezzo delle quali elabora i ragionamenti. Ciò poteva ascriversi, beninteso, sulle mie scarse doti di psicologo e alla mia arroganza di pretendere che la verità si conformasse ai contenuti del mio intelletto. Ma non mi reputavo così deficiente da non imbroccarne una. Eppure, per due volte di fila, quasi simultaneamente, avevano pensato e agito fuori da qualsiasi ragionevole previsione, benché una logica interna o una compulsione avesse pur determinato le loro azioni.
Mi accorgevo che il mio pensiero non si agganciava alla realtà cognitiva. Assumevo il mio mondo desiderativo come realtà primaria. Le deduzioni non si basavano sui dei dati, ma sui miei desideri, mossi da una vis immaginativa che fuorviandomi da istanze di apprendimento beneficiava soltanto il lato creativo dell'io, che solo a posteriori ne razionalizzava i prodotti. Ma questa riflessione non assumeva lo stesso discorso tenutomi dal maresciallo la sera del nostro primo incontro, quando mi parlava dell'arte di saper guardare il creato dalla nostra volontà? Aveva aggiunto, tuttavia, che occorreva dominare quest'arte, altrimenti rischiava di coinvolgere noi e gli altri in operazioni assai pericolose. Il giudice condanna l'innocente, il medico certifica guarito o morituro il paziente, una donna si inventa un omicidio, un uomo uccide la moglie senza un motivo apparente, un altro acquista un appartamento senza vista aspettando di vedere un panorama imprendibile. Ci doveva essere un limite, un punto su cui convergevano la realtà oggettiva e l'arte della volontà, definendo ciò che si suole nominare la verità. Un punto di incontro, dove la realtà risultava il prodotto di volontà creative diverse in misura ed energia.
Le più deboli soccombono, sottostando ai codici redatti dai più forti. Quella del maresciallo non era più forte della mia, sebbene la mia fosse passiva e soggetta a sfuggire dal potere di controllo, mentre la sua era al contempo armonicamente attiva e super controllata, entro i margini della legalità.
- Dopo che la signora Betti uscì - diceva l'Agresti - ricevette la visita di Marbetti, il quale si soffermò tutta la notte., se ho ben capito.
Annuii,
- Lei sostiene che il Marbetti trascorse la notte qui a discorrere, col cadavere della moglie riverso sul letto di casa sua.
Gli risposi che per quanto parlasse, nulla mi aveva fatto sospettare che avesse appena ucciso la moglie.
- Non ha colto neppure qualche particolare insolito. Non so...una forzatura nel tono della voce, che avesse potuto tradirlo.
Gli dissi che avevo colto soltanto quanto lui voleva farmi credere e che era molto credibile: aveva vegliato presso il cadavere della moglie defunta in ospedale. La morte era stato il suo unico argomento.
- Non è strano che lei sia stato tutta la notte ad ascoltare un vicino che conosceva da poco tempo?
Gli spiegai che mi ero addormentato e che al risveglio lui stava sempre lì. Il maresciallo sorrise.
- Mi piacerebbe conoscerla meglio. Non ho mai incontrato un tipo acquiescente come lei. No, no. Acquiescente non è il termine più appropriato. Direi una specie di evaso. Evade di continuo. Dalla parola, dalla gente, dalla vita, dalla morte. Potrei starle accanto due anni, che non la conoscerei meglio di quanto non la conosca adesso. Vede, nel corso della mia carriera ho fatto parlare tanta di quella gente. In certi casi ho parlato io per loro. Con lei mi sforzo di tradurre i suoi pensieri, ma ho l'impressione, una strana impressione, di perdere le consonanti, mentre le vocali vanno a cozzare le une contro le altre senza provocare alcun rumore. Nemmeno un sussurro. Sa che cosa penso? Che lei è un evaso detenuto dai suoi pensieri, dalla sua dialettica interiore. Il mondo non sarà mai abbastanza idoneo al suo cervello per spingerla a entrarci.
Poiché non rispondevo, lui si arrogò il diritto di proseguire nell'enunciazione del verdetto.
- Né la morte altrui né la propria potrà liberarla. Non ci troverebbe consonanza con i significati elaborati dalla sua mente. Dovrebbe smettere di funzionare qui dentro - e indicò la testa - per essere davvero libero. Ma questo è impossibile. Sarebbe un controsenso.
Non accennando a replicargli, rimasto a corto di argomentazioni, ritenne opportuno ricondurre il discorso sul mio dirimpettaio.
- Questo Marbetti non sarà una cima. E'piuttosto noioso con tutte quelle sue domande idiote. Su ogni risposta ne infilava almeno altre cinque. Nessuna che fosse pertinente con l'omicidio da lui commesso. E'una cosa scontata per lui. Preferisce sapere se ho la panciera o la dentiera, piuttosto che informarsi sulla sua sorte. Però non è un pazzo né un esaltato. Magari, da qualche giorno ha la mente distorta. Una mente labile, facile alle suggestioni. Qualcuno avrebbe potuto plagiarlo, operando dentro di lui come un chirurgo, estraendone organi, mali, desideri inconfessati e trapiantandogli i suoi, fino a trasformarli in un progetto. Qualcuno che lo ha costretto con l'arte della maieutica a essere ciò che gli ristagnava nelle paludi della subcoscienza. Insomma, un mandante dell'intelletto. Non servivano molte parole. Bastava ascoltare. E saper guardare. Una intesa profonda. Un incoraggiamento spirituale. Un assenso alle regioni inconsce dell'altro, emerse fra le righe, le reticenze, da una locuzione maldestra, un aggettivo di troppo.
- Un maresciallo - mi chiedevo - non può esprimersi in questo modo, anche se ha studiato psicologia.
Forse le parole erano enucleate del mio io, estrapolate dai miei pensieri.
- Nessuno potrebbe provarlo - proseguì il maresciallo. - Non esistono indizi. Se si partisse dall'esame dei possibili moventi, non si verrebbe a capo di nulla. La signora Marbetti non era ricca. Non aveva ereditato. Fra i coniugi vigeva la comunione dei beni. Nessuna infedeltà. Nessuna gelosia. Nessuna ossessione di natura psichica, religiosa o maniacale. Nessun contrasto. Nulla di nulla. Delitto gratuito? Può darsi.
Ma questo genere di omicidi cela sempre un sottofondo ideologico, filosofico, psicanalitico, diciamo pure metafisico, o una loro parvenza. Un uomo come il Marbetti, modesto, superficiale, qualunquista, non ne sarebbe stato all'altezza. Le sue curiosità sono solo prosaiche, scontate, tautologiche. Mancano di riflessione. Un altro non si sarebbe comportato in modo così infantile. Come un bambino che rompe un giocattolo a cui era affezionato. Lo piange, ma sa che se dirà la verità non saranno troppo cattivi con lui. Mi pare quindi logico che dietro a un uomo così debba esserci qualcuno che lo ponga di fronte allo specchio della sua anima, affinché possa scorgere ciò che paventava al punto da disconoscerne l'appartenenza. Qualcuno...
- Qualcuno come lei, maresciallo - ribattei finalmente a quel me stesso in veste di poliziotto.
La battuta lo freddò per qualche secondo. La sua arte della volontà l'aveva già brillantemente applicata su Marbetti, facendogli confessare il movente confacente ai suoi desideri. Mancava solo quel qualcuno pronto a sostituirlo e ad assumersi i diritti d'autore sull'opera maieutica da lui compiuta.
- Io, già - rispose. - Ma io non abito nell'appartamento di fronte a quello di Marbetti. Non ho parlato con lui tutta la notte e chissà per quante altre notti precedenti, quando la moglie era ricoverata. Lei potrebbe obiettare che la morte risale alle dieci, undici di sera, e che a quell'ora si stava intrattenendo con la signora Betti. Ma chi lo potrebbe testimoniare? La sua amica? Poveretta, l'hanno ricoverata alla neuro stamattina mentre era in preda a un attacco di isteria paranoide. La sua denuncia è stata cestinata non appena lei uscì dalla caserma. Infondata. Come lo sarebbe qualsiasi deposizione che la Betti potrebbe versare in futuro, caso mai si riprendesse.
- Perché dovrei accusarmi di aver istigato il mio vicino a eliminare la moglie? - ribattei, senza ombra di livore, anzi, con una certa arrendevolezza.
Il maresciallo posò la mano sulla mia spalla col paternalismo d'ufficio del curato che rimette l'anima del condannato a morte alla misericordia divina.
- E'l'unico modo per liberarsi dalla prigione in cui sconta l'ergastolo. Le ci vuole un fatto concreto, dopo tante speculazioni astratte. La sua arte della volontà le si ritorce contro. Non ha sbocco nella realtà. Non crea nulla. A lungo andare, non avrà più nulla da spartire col mondo e con la gente. E' un reietto. Un rinnegato dell'esistenza. Lei è già morto. La sua amica lo ha ucciso, ufficializzandone il cadavere. E'nelle mani di tutti e di nessuno. Ad attenderla non sarà la detenzione, non molto lunga d'altronde. Vedremo di impostare il processo sulla seminfermità mentale. L'attende l'opportunità di riscattarsi di fronte alla sua coscienza, bruciando a poco a poco i pensieri nel fuoco della pena e della redenzione. Si ricordi, potrebbe essere l'unica occasione.
- E la casa?
- La venderemo. Col ricavato potrà godersela in carcere. Anzi, perché non la vende a me? Fra un anno avrò lo sfratto. Se mi verrà incontro col prezzo, domani stesso stipuleremo l'atto. Conosco un notaio che dall'oggi al domani ci fisserà un appuntamento. Poi, con calma, fra qualche giorno, anche una settimana, si costituirà.
- Ma la casa è già stata assegnata per testamento.
- Che importa. Annullerà il testamento. Dei suoi beni finché è vivo può disporre come le pare. La successione non vincola la libertà del testatore, ma il suo patrimonio dopo che è defunto. Se lei si spende tutto, gli eredi non godranno di un bel nulla.
- Ma uscito di prigione, dove andrò?
- Qui. La casa è grande. Per due uomini soli andrà benissimo. Io sarò in pensione. Passeremo delle belle serate, insieme. Converseremo sui massimi e minimi sistemi. Lei sarà un altro uomo, ci scommetto. Mi disprezzerà o mi sarà riconoscente per l'eternità.
- Se lei, nel frattempo, dovesse morire?
- Non ci sono problemi. Redigerò un testamento a suo favore. La casa tornerà di sua proprietà.
- Prima devo vedere ciò per cui l'ho acquistata.
- Quanto tempo le occorre?
- Non saprei. Tutta la vita, probabilmente.
- Posso aiutarla a vedere questa cosa?
- Non credo. Lei potrebbe soltanto aumentare il mio rimpianto.
- Quando parla è più indecifrabile di quando tace. Bé, peccato. Se cambia idea, me lo faccia sapere.
- Arrivederci, maresciallo, sarà per il prossimo omicidio.
- Ha intenzione di commetterne un secondo?
- Non ci casco. Addio.
Guardai fuori dalla finestra del soggiorno. La facciata buia del palazzo dirimpetto era scomparsa. Vidi di spalle un uomo che guardava dalla finestra del mio appartamento un altro che guardava dalla stessa finestra me stesso che guardavo i primi due uomini. In questa successione, i soggetti si moltiplicarono all'infinito per la mia vista imprendibile.
Roselaide è stata dimessa dalla clinica psichiatrica. Abita da me. Non rammenta nulla del passato. Vive attimo per attimo. Domani ci sposiamo. L'ucciderò. E'l'unico pensiero rimastomi. Il maresciallo non aspetta altro. Ma non mi denuncerò. Occulterò il cadavere. Venderò la casa e prenderò il largo.
Fin da piccolo sognavo di naufragare in mezzo all'oceano. Di aggrapparmi a un relitto. E galleggiare, galleggiare A perdita di sguardo..