Tommaso Meozzi, Inquieta alleanza, Massa, transeuropa, 2017
di Simone Rebora
Precisamente sei anni fa, su "Le Reti di Dedalus", pubblicai una rassegna su quattro poeti esordienti a Firenze. L'idea era quella di dare avvio a una "cartografia poetica" di quel territorio, ma un po' la mia deriva verso altri lidi (sia geografici che professionali), un po' - e soprattutto - la chiusura di quella rivista-aggregatore di pensieri polifonici e di voci multi-cordi, mi costrinsero a interrompere l'impresa già al secondo appuntamento. Lo scorso anno, però, due tra quei poeti hanno pubblicato la loro seconda raccolta. Ed ecco finalmente il momento (e il luogo) adatto per dare almeno un seguito a quell'impegno: partendo dalla poesia di Tommaso Meozzi.
Perché uno degli argomenti "caldi" nel dibattito sulle sorti della poesia contemporanea (ravvivato da un recente saggio di Guido Mazzoni) è quello della presunta "fine" del lirismo. Con poche - ma luminose - eccezioni, la poesia established di questi ultimi decenni ha dato sempre più spazio a ironie e artifici, lasciando contemporaneamente ai margini (o ai social media) la ricerca del sublime attraverso l'esperienza dell'io. La prima raccolta di Meozzi, La superficie del giorno (Le Cáriti, 2010), si poneva in netta controtendenza, opponendo all'incipiente dominio tecnologico un dolce trionfo della corporalità. Con Inquieta alleanza (transeuropa, 2017), il poeta conferma il suo originale impegno, mostrandone però anche tutte le difficoltà, attraverso una voce che si fa più posata, meglio distillata e, sotto molti aspetti, più matura. Come nota giustamente Stefania Sefanelli nella breve Postfazione, il titolo rivela già la dinamica che sta al cuore della raccolta, in un contraddittorio e inesausto oscillare tra pienezza e frattura, tra armonia raggiunta e perpetua ricerca. Primo interlocutore è un "tu" che non si identifica mai pienamente, ma che si confonde senza sosta con un contesto naturale avvolgente, dai confini instabili, entro cui il poeta stesso cerca incessantemente un'impossibile fusione panica. Ed è proprio dal continuo insuccesso di questa perpetua protensione verso l'altro da sé, che la sua voce si fa canto e quindi poesia.
"non ho pace quando riposo" è l'attacco schiettamente paradossale della breve raccolta (32 componimenti, che di rado superano la metà della pagina), dominata da un'irrequietezza tanto inestirpabile quanto pacata, quasi sottovoce. L'io poetante si descrive quasi sempre in una condizione di immobilità ("Sto, tra queste povere cose, / sono l'acqua, che goccia dopo goccia / cade sui resti del pasto") o di passività sopraffatta ("l'anima ondeggia come un tronco / d'acero [...] / Tengo stretto il timone, poi lascio"), teso verso un movimento che è spesso solo in potenza ("Voi siete i canti che non ho intonato, / il bianco spartito, in cui mi ritrovo"). Alla fallimentare fusione col creato, alla disattesa speranza di un pur breve momento di grazia, corrisponde una fiducia strenua e costante, che si spoglia di ogni naïveté nel momento stesso in cui accoglie l'auto-contraddizione come suo momento costitutivo. Quando il poeta si propone di "far[s]i fondo del creato / dove dio si confonde / nel germoglio non nato", l'immodesto allineamento al divino è anestetizzato dalla coscienza che quel germoglio, se (ancora) non nato, è forse pure destinato a restare privo di vita per l'eternità. E, non a caso, il termine della raccolta non ci disvela alcuna presunta (e presuntuosa) essenza distillata, perché al contrario "si rivela / l'assenza dell'ultima parola -. / Ecco ciò che s'imprime negli occhi del bimbo / e poi si scorda lungo tutta una vita". Una non-conoscenza, un momento di assenza da opporre alla saturazione comunicativa del nostro presente, dove il germoglio (non nato) di un afflato lirico può ancora trovare respiro, richiedendo però un atto di fede più esteso della vita stessa, che spinge il pensiero verso regioni dove la parola si perde - ma non la poesia.
Una simile sublimità di obiettivi è approcciata da Meozzi tramite un vocabolario scarno, volutamente ridotto all'essenziale, dove anche il bagaglio immaginativo rinuncia a ogni scenografia o effetto speciale, privilegiando piuttosto l'indistinzione dei contorni. I protagonisti sono l'io poetante, un "tu" proteiforme (con tratti a lieve dominanza femminile, ma mai del tutto denotato sessualmente), un "lui" proto-divino e innumerevoli "Voi", ma mai un nome o una chiara identificazione. Allo stesso modo, la natura è abitata da alberi, fiori e animali, con rarissime distinzioni di specie, quasi a descrivere un mondo di ideali platonici, piuttosto che un Eden o un giardino botanico. Lungo la raccolta, poi, molte parole si rivelano leitmotiv insistenti (dalla "luce" alla "notte", dal "seme" fino agli stessi "nome" e "parola"), che scorrono tra poesia e poesia a esaltare nel lettore un senso leggero ma costante di disorientamento, cui contribuisce anche la mancanza di titoli e la tendenza a iniziare i componimenti con la lettera minuscola. Sul piano formale, la quasi totale assenza di rime e di regolari strutture metriche è supplita da un complesso sistema anaforico, a rasentare ma infine evitare una deriva nel registro prosastico. Anche riguardo alle scelte lessicali, le poche parole che sfuggono alla generale indistinzione dei contorni, si caratterizzano soprattutto per la loro diffusa "bassezza" (come "bicicletta", "sputo", "stupido", "ridicola"), innalzandosi però al contempo oltre i confini della prosa tramite una qualità quasi epifanica: dalla "bicicletta, nell'acqua, che evapora", fino allo "sputo, nell'aria che rinasce".
A voler sintetizzare la poesia di Meozzi in una singola immagine - pratica spesso non raccomandabile, ma quanto mai efficace nel cortocircuitare complessità e leggerezza - si potrebbero leggere gli ultimi versi di un componimento collocato al centro della raccolta, aperto forse dalle immagini più cupe ("Ci sono abissi piatti come lapidi / che si dannano / senza profondità, mari / senza più fauna, / in cui ogni vita è fatta fondale"), ma chiuso da una nota di speranza ("Tu respiri, anche in quei luoghi / in me affini / l'arte di emergere"). Perché è proprio questa "arte di emergere" che pare al cuore dell'esercizio poetico di Meozzi. Un atto tra l'attivo e il passivo, tra la non-vita e la vita, che richiede intuito ma anche abilità, e che non può essere praticato senza prima aver abbandonato il timone, essere stati interamente sommersi, e aver scoperto che anche nel buio e nell'asfissia esiste una spinta verso l'aria e la luce. Se poi questa sarà sufficiente per riportarci a galla, non sarà forse nemmeno la poesia a dirlo, ma la nostra voglia di stare ancora ad ascoltarla.