
STEFANO LANUZZA, Caos e bosco, Oèdipus, 2020
PREFAZIONE.
UNA PERSONALISSIMA
‘CRITICA DEL GIUDIZIO’
di Mario Lunetta

Non è facile intervenire su un libro del quale si condivide tutto, e di cui - per buon peso - non si può che ammirare la pregnanza della lingua che esalta l'energia di un pensiero fondato su una griglia di consapevolezza rigida e allo stesso tempo mobilissima. Il libro in questione, di cui è autore Stefano Lanuzza, inalbera un titolo non esplicativo né metaforico, ma piuttosto avaro di promesse non arcane e non enigmatiche; cosicché il lettore è obbligato a penetrarne per quanto può il senso e le declinazioni oblique o esplicite, quando non fulminanti. Scrittore inesausto che continua a organizzare pensieri mai assopiti, mai arresi alla volgarità di questo nostro iniquo presente, e a far pratica filosofica di quanto chiamiamo linguaggio letterario mentre, come artista figurativo (si ricordi una sua Personale, L'arte della notte, tenuta al Museo d'Arte Moderna Gazoldo degli Ippoliti di Mantova, 16 maggio-6 giugno 1999), Lanuzza realizza con la stessa acuminata finezza e la stessa radicale intransigenza stilistica le sue figurazioni: un pittoscrittore, insomma, cui si devono un'infinità di indagini critico-teoriche sul nostro Novecento lontanissime dalla pigra vulgata dei manuali, una messe di traduzioni di grandi autori francesi da Sade a Maupassant, da Huysmans a Gide, da Barbey d'Aurevilly a Musset a Lautréamont a Céline, e prose creative, e almeno una raccolta di versi (Bosco dell'Essere, 2000) decisamente devianti rispetto al riflusso lirico che segnò tristemente di sé gli anni Ottanta e oltre. Ora, con questo suo libro, l'autore lavora fino all'osso il crinale di ciò che lo caratterizza da gran tempo, e che potremmo definire la sua personalissima 'Critica del giudizio' che armonizza ragione e senso (estesa stavolta dalle arti alla vita, alla società, alla politica, all'amore): con la stessa radicale lucidità di sempre, la stessa disposizione a mettere in gioco le proprie responsabilità, senza ambagi né infingimenti. La scelta aforistica e l'adozione di una ratio filosofica concentrata in un breve giro riflessivo lo apparenta a certi pensatori esemplari della modernità più antiaccademica: quella che parte da Nietzsche e si deposita più prossima a noi in Adorno, in Benjamin, in Gramsci. Il centro di questa esplorazione è nella dialettica caos-bosco, né idilliaca né accattivante bensì tragica: in quanto, dopo avere additato il Caos, si presenta sic et simpliciter come Bosco dell'Essere chiuso/aperto nella serrata dinamica dell'Esistere. Quindi, "Nel bosco non per celebrare qualche mito del 'viaggio', ma solo per 'dire' la semplice voglia di 'andare'". Andare non per toccare questa o quella meta, ma per saggiare negli spostamenti la saldezza del proprio io. "Vai finalmente nel bosco, se vuoi essere libero. Coraggio, e vai!... Coraggio, da cuore... Ma il coraggio non salva dall'altrui paura". E ancora: "Vai senza fretta: il bosco è lì e aspetta". Perché poi, alla fine, "Non riparti da zero, ma da un non ingannevole bosco-labirinto dove sei tu Teseo e tu il Minotauro. La lentezza con cui procedi è il rovescio del desiderio d'affrettare lo scontro con l'Altro, il Minotauro del dolore... Scontro di due specchi che si guardano adunchi, di due Chimere esiliate". L'imperativo è: "Addentrarsi nel bosco, allontanarsi, sparire, dileguarsi, stare 'altrove'. Solo per (perdutamente) 'essere'".

Lanuzza S. Quo vadis Covid 2
Questo dell'autore
non è nichilismo da dandies, solipsismo da aristocratici fuori fase: è, alla
fine, semplicemente serietà, rigore nel proprio fare, rispetto dei dati
concreti. Per cui, applicata al continente Poesia, questa strategia non può che
muoversi - magari secondo la lezione etica e creativa di Leopardi - nel solco
di un processo senza ambiguità e senza orpelli: "Una vanificazione
dell'ideologia d'una poesia spettacolarizzata si ha, insomma, col constatare
come sia impossibile apprezzare una qualunque forma d'arte se non ci si mette
in condizioni di solitudine e silenzio: lontani, insomma, come ora nel bosco,
da tutto ciò che vuol avere a che fare col sistema dello spettacolo". Il
celebre pamphlet del 1967 di Guy Debord non è passato invano. Quella che si può
fare seriamente nel bosco non è certo poesia boschereccia. Quindi: "Se vuoi
sapere cosa sono i serragli della poesia, guarda pure le antologie; ma se cerchi
i poeti dimentica certi cataloghi e schemi bizantini, i senhals surrettizi, le
caselle esegetiche, l'infestante sottobosco; e cerca nel bosco. Loro, quelli
che non hanno 'intenzione' di essere o non essere poeti, che non vogliono
'appartenere' a nessuna storiografia, stanno in margini negletti, come ricordi
sommersi che stentano ad affiorare, ombre sbiettanti e talora impudiche,
uccelli migratori senza quiete né ricetto, esiliati principi straccioni... Non
sono troppo belli da vedere: non vestono panni da showman, curiale accademico,
incompreso genio, gran sacerdote, e nemmeno da bohémien. Alcuni di loro,
debitamente defunti, adesso, inopinatamente, riposano tra loculi antologici
come i suicidi subito dimenticati. Fatti non per il tempo e la vita, concimano
invisibili, con le loro fragili ossa, un bosco sempreverde". Tenuto conto del
caos e uscendo dal bosco, la lingua-pensiero dello scrittore non perde nulla
della sua ricchezza; e scopre che "La libertà... non è tanto un diritto
'naturale' quanto un 'dovere' soggettivo": così, all'uopo, vengono utili, anzi
indispensabili, certi autori molto suoi che sono anche straordinari "mitografi
moderni dell'infanzia" (Lautréamont, Benjamin, Savinio, Sarraute, Salinger).
Ribadendo, al contempo, che ogni consolazione contro il dolore del mondo è
illusoria, dal momento che "Non sappiamo niente. Di nessuno"; di conseguenza
"Non solo non è necessario capire gli altri, ma non è nemmeno giusto". E quanto
al braccio teso della poesia? "Non me ne faccio niente d'una poesia che fa solo
domande invece di dare risposte", perché "Il plesso della poesia si tratta di
centrarlo con la silente scrittura. Pensare la poesia come esperienza
alternativa alla realtà. Esperienza in nessun caso consolatoria rispetto ai
corsi storici e alla stessa vita. Si parla tanto di cosa la poesia possa essere
e nessuno dice che essa è, infine, edonistico piacere della parola". Il gioco
drammatico di Stefano Lanuzza si fonda sulla contraddizione e il paradosso.
"Vorresti l'uguaglianza fra gli uomini, la fine della povertà, la nonviolenza,
la giustizia... Mica sarai comunista?". Quella che si chiama Italia e a Leopardi
sembrava un paese privo di "società stretta", cioè di borghesia responsabile, è
oggi - dico io - una dissocietà basata unicamente sull'interesse di un singolo
o di un gruppo. Con parole diverse Maestro Stefano, sìculo giustamente
ammiratore di Gorgia da Lentini, esprime lo stesso concetto, con amarezza senza
speranza: "Famiglie. Chiuse in se stesse, dèdite a occuparsi solo di sé, con
soggetti che si telefonano continuamente più e più volte al giorno ed anche a
pochi metri di distanza, parlando di banalità. Quanto esercitano e si scambiano
in permanenza è il 'controllo', ansioso, costante, assoluto: si controllano
affinché nessuno possa sottrarsi al conformismo solidaristico che le distingue
e le rende ignobili. Mai, soprattutto, un briciolo di libertà nella loro
esistenza quotidiana che fa della famiglia un luogo di pazzia". "La fede? Un
partito preso. La fede: il contrario dell'onestà intellettuale". Per cui: ogni
credo religioso è l'esatto contrario della libertà interiore, primo stadio
della libertà civile. Gli eserciti di 'credenti' che vediamo ogni giorno
compiere in tutto il mondo i loro rituali distruttivi hanno in testa,
paranoicamente, l'obbedienza e la violenza contro il diverso. Ricordiamo il
mussoliniano Credere, obbedire, combattere? Eppure, colui che Gadda, in Eros e
Priapo, chiama "il Buce" proveniva da un giovanile ateismo militante... Ancora
sulla poesia, questo lavoro che ai nostri giorni conta meno di una vacanza
stracciona, e che tuttavia, oscuramente, continua a esercitare su chi cerca di
agguantarla o di goderla una febbre di ossessione che non si spegne: "La
poesia, quella vera, dovrebbe spaventare il lettore". Considerazione preceduta da
questo rilievo: "Contrariamente alla svalutazione platonica e, da parte dei
'recitanti versi', alla definitiva liquidazione dei poeti, lo statuto
epistemologico della poesia - questo mestiere del silenzio e del deserto -
resta il più completo, ben più di quello storico: visto che, come afferma
Aristotele, "la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante
della storia; perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i
particolari". Ci si immagini, se si vuole, l'adesione entusiasta di chi scrive,
antiplatonico da sempre e da sempre filoaristotelico. Ha ragione l'autore a
dire che la Commedia di Dante non è solo un poema di suprema grandezza, ma
anche "una grande opera critica dove l'istituzione della critica rivela la
propria origine nella poesia". Non affermava forse Baudelaire, poeta grande
epperciò di grande crudeltà anche contro se stesso, che ogni poeta degno del
nome contiene in sé un critico? Nella grande e raffinatissima quantità di
citazioni letterarie, filosofiche, artistiche del presente libro, c'è, con le
'storie del Caos', una zona riservata agli aneddoti ("Nella disposizione del
Sant'Uffizio, emanata il I luglio 1949, la Chiesa cattolica scomunica i
cattolici iscritti al Partito comunista e anche quelli soltanto lettori della
stampa comunista"), alle constatazioni di costume ("Finita la critica, resta la
...pubblicità"), ai motti di spirito di classe elevata ("Platone non credeva
nell'amore... platonico"): e, pur nella varietà apparentemente casual,
capricciosa e disorganica di questi eterocliti elementi, il discorso assume una
valenza unitaria fortissima, una coerenza dialettica di formidabile tenuta. È
il risultato di un'incessante indagine sul mondo della cosiddetta realtà e sul
mondo della cosiddetta irrealtà che Stefano Lanuzza conduce da un tempo lungo e
troppe volte di colpo accorciato da eventi traumatici, con un'intelligenza, una
responsabilità e un'onestà ormai troppo rare in chi ancora in questo paese si
occupa di cultura... E tanto basta, sono portato a credere.
Mario Lunetta (Roma, 1934-2017)