PER LA CRITICA

NOTE DI LETTURE E VISIONI:

MARCO CAPORALI, BRUNO CONTE,

ENZO MINARELLI,

GHIANNIS RITSOS / ENRICO FRATTAROLI

di Marco Palladini

1. Parto con l'ultimo volume poetico di Marco Caporali che, nella sua (e mia, si licet) generazione, reputo (assieme al compianto Giuliano Mesa) il poeta italiano più significativo di una tendenza lirica contemporanea desoggettivata. Cioè aliena ai palpiti dell'io interiore e agli arabeschi del sentimento autoconsolatorio, laddove essa punta lo sguardo sul mondo circostante (Il mondo all'aperto si intitolava, non casualmente, il primo libro di Caporali del 1991), osservandone in modo sempre dialettico e problematico le intersezioni e le epifanie talora enigmatiche e provando a raccordare, nella paziente trama dei versi, il Logos del soggetto con la Physis e i Tòpoi dell'oggetto.

La vita inoperosa (Roma, Empirìa, 2019, pp. 113, € 12,00) reca nel titolo un richiamo al tema "dell'inoperosità, della prassi inoperosa" sviluppato dal filosofo Giorgio Agamben nei suoi scritti inerenti l'Homo sacer. Però, in verità, mi sembra che la torsione poetico-semantica di Caporali vada da un'altra parte: "Così riecheggiano nell'aria estiva / accordi disattesi / e si dispiega e si ritrae col mantice la vita inoperosa" (p. 35); "... appagati gli amanti assaporano / accanto all'albero rifiorito / della conoscenza, il frutto della vita inoperosa" (p. 77). Qui non c'è, ovviamente, la comune, banale accezione di vita sfaccendata, passiva, oziosa, ma neppure l'idea filosofica di un fare che si smarca dalla biopolitica, di un agire che è in-operoso in quanto decostruzione, critica defunzionale del potere che si appropria del vivere.

A me sembra che Caporali voglia piuttosto dirci che la vita è inoperosa poiché è un'opera in sé, senza il bisogno di ulteriori attributi e significati aggiunti. La vita è inoperosa perché è compiuta in se stessa, è un pieno che attende soltanto di essere scoperto e goduto con stupore e meraviglia costanti. E infatti nei suoi testi questa vita pleromatica risalta nei paesaggi, nelle mappe naturali dove "si decompone e prospera" (p. 29), si riempie di presenze fossili e minerali (pietre, massi, rocce, marmi, sassi, sabbie, conchiglie), segue le tracce degli animali i più diversi, dai pesci ai cani, dagli uccelli ai cinghiali, dalle mucche alle mosche. E poi proliferano gli alberi coi loro rami fittamente intrecciati e i rampicanti parassiti degli alberi medesimi. Il lavoro del poeta sembra immerso nella intensità della parola e nella felicità di decifrare il senso palese e nascosto anche della minima, più umile traccia di vita. Quando volge il suo sguardo altrove Caporali poi incontra, nel solco di Saba e Pasolini, la totale gioia dei ragazzini di correre dietro a un pallone da prendere a calci: "... era la nostra quotidiana pausa / che il tempo sottomette al proprio gioco, senz'altro freno / oltre alle regole che ci eravamo / liberamente dati..." (p. 45); "... corpi disciolti rincorrono / con leggerezza unanime, poco importa se snelli o pesanti / una sfera di cuoio, dal magico potere di donare / a ciascuno il suo posto nel mondo" (p. 46).

Nella sezione finale "Al fuoco delle veglie", titolo che mi ha rammentato uno dei libri migliori di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), Caporali introduce linee di poesia civile ed etico-politica che non gli sono abituali: toccando le tragedie causate dall'umana indole bellicista, fomentate dagli attentati terroristici (un testo si riferisce al cruento attacco islamista al settimanale satirico francese "Charlie Hebdo"), indotte dagli atavici costumi patriarcali africani contro le donne. In una poesia ("Le gai savoir") che rinvia sia alla 'gaia scienza' di Nietzsche, forse come aforismatica filosofia protesa alla ricerca (quanto mai attuale) dell'essere 'buoni europei', e sia all'omonimo film sperimentale del 1969 di Godard, leggiamo "... frammenti di un discorso che si accende / e spegne in un baleno, chiudi gli occhi se vuoi / conoscere il mondo" (p. 91). Apoftegma godardiano-nietzschiano perfetto per dire che la 'mondità' del mondo è dentro di noi, che soltanto l'introspezione ci può dare la misura, l'esatta cognizione dell'habitat caosmico in cui siamo stati 'gettati'. Ecco, i versi di Marco Caporali mi appaiono in forte sintonia con tale positiva chiusura/apertura poetico-gnoseologica.

2. Sempre per i tipi di Empirìa è uscita l'ultima raccolta di racconti di Bruno Conte, artista-scrittore di lungo corso (è nato a Roma nel 1939), che ad una prolifica, eccellente carriera di pittore, scultore e disegnatore (c'è stata nel 2018 un'importante mostra antologica dei suoi lavori alla Galleria Nazionale di Arte Moderna della capitale), sin dagli anni '60 ha affiancato una produzione letteraria sia in prosa che in poesia altrettanto copiosa e significativa. Da questo punto di vista esiste, del resto, nel '900 italiano una variegata linea di artisti bifronti che comprende, tra gli altri, i futuristi Benedetta Cappa e Ardengo Soffici, il grande Alberto Savinio con il fratello maggiore Giorgio De Chirico, nonché il figlio Ruggero Savinio, e poi Filippo De Pisis e Fillia, Carlo Levi e Dino Buzzati, Ugo Attardi ed Emilio Tadini, Pietro Consagra e Marcello Gallian, Emilio Isgrò e Nanni Balestrini.

Per quanto concerne Conte direi che i due percorsi espressivi in lui più che intrecciarsi, sono stati e tuttora sono l'uno la rifrazione dell'altro. A riprova di una solida e unitaria inclinazione concettuale e stilistica: sia che produca immagini, sia che elabori testi verbali, l'artista romano mette in azione una macchina segnica e segnaletica di mirabile compattezza e coerenza, sempre sul filo di una visione metafisica delle cose, di un surrealismo abbassato di grado, costantemente venato di ironia, di resezioni sardonicamente stupefatte. È la misura, la misura breve che gli si attaglia, una concisione di linee come di versi e di frasi, in cui cercare di riassumere la magnitudine misteriosa del kaosmos nella prismatica realtà del vivere quotidiano.

Racconti altri (Roma, 2019, pp. 128, € 15,00) è un titolo spoglio, minimale, ma anfibologicamente allusivo alla propria consapevole alterità multi-artistica, laddove i 41 pezzi narrativi del volume sono intervallati da falotici, evanescenti tratti di disegni appena sbozzati, come aperti sul vuoto, sull'abisso della pagina bianca. E non di rado sono i racconti medesimi che si propongono come mise en abîme di sibillina potenza semantica sulle avventure della (propria) differenza (o 'differanza') di artista visuale. In questa prospettiva ho prediletto due racconti: "Il pittore del grigio" che così si conclude: «Una signora in simil pelliccia, accanto al marito in completo classico, osserva una composizione in cui tra i quadrati grigi chiari si affaccia un piccolo quadrato grigio scuro, e sorride, di questa arditezza»; l'altro testo è "Scambiverso", un sublime e paradossale sberleffo dove un pittore scambia la busta con le proprie cartelle cliniche con quella contenente i materiali del proprio percorso artistico e, nonostante ciò, anzi forse proprio perciò, trova sia la direttrice del museo d'arte contemporanea che il primario dell'ospedale imperturbabilmente pronti, la prima ad organizzargli una mostra, il secondo a prescrivergli una adeguata terapia.

Nella sua rigogliosa nota critica in coda al volume Plinio Perilli indica con acume il solco genealogico in cui si inscrive Bruno Conte, il quale «ha insomma portato avanti... tutta una tradizione diremmo novecentesca (... felicemente libera ed eterodossa) che dal Realismo magico di Bontempelli, comprendendo le vie di fuga di Giorgio De Chirico... e dell'altrettanto geniale fratello Alberto Savinio... e prove non trascurabili di "surrealismo" italiano (il Morovich di Miracoli quotidiani, 1938), giganteschi talenti o monoliti isolati come Delfini e Landolfi, s'inturgida poi di sani, briosi empiti emiliani (Zavattini...), dialoga con la sana follia lucida di un Luigi Malerba... di un Tonino Guerra... e poi s'imbarca anch'essa nel calviniano "Mare dell'Oggettività"... Ma per approdare... a ben altre terre, continenti, oceanie, australie del corpo e dello spirito...».

Tutto giusto e tutto vero, pur se quello che connota più di tutto Conte è, secondo me, la sua lodevole e singolare economia di mezzi. In tal senso, se un nome d'artista, tra i vari che cita Perilli, più gli assomiglia è quello di Fausto Melotti, a cui aggiungerei il Lucio Fontana dei buchi e dei tagli sulla tela: quelli, per capirci, che con "il meno" cercano di dire "il più". Esattamente quello che cerca di fare Conte, basta leggersi due pezzi di tersa scrittura come "Uriano" e "Il racconto scomparso", quasi dichiarativi di una poetica irresistibilmente attratta dal mondo dei morti e dal vuoto al quadrato. Sul piano letterario azzarderei per lui il nome di Giorgio Manganelli all'altezza di Centuria (1979): certo il virtuosismo e la vertiginosa erudizione iperletteraria dello scrittore milanese sono un'altra cosa, ma in quel volume di "cento piccoli romanzi fiume" c'è l'ambizione anamorfica di interfacciare micro e macrocosmo, discoprendo gli infiniti, sorprendenti fili narrativi che tengono assieme le due dimensioni. Ecco se Conte con il suo rimuginare sornione fosse un personaggio letterario lo si potrebbe forse ritrarre così, con le parole di Manganelli: «Egli si sveglia nel mezzo della notte, con la chiara, subitanea coscienza di non aver mai capito nulla delle Allegorie della propria vita. Tutta la vita è un tessuto di Allegorie e, ora, al buio per la prima volta cerca di decifrarne alcune».

3. Assai attivo su vari fronti è il polipoeta Enzo Minarelli (1951), uno dei protagonisti della poesia sonora italiana degli ultimi quarant'anni che ha da poco pubblicato un longplaying in vinile Live in San Francisco (Slowscan - vol. 42, 2019) che raccoglie una delle sue più recenti performance in terra californiana. Ma Minarelli è anche un prolifico autore di poesia lineare di intonazione sperimentale e su questo versante è appena uscito il nuovo libro Distici distanti - poesie 2004-2018 (Firenze, Le Lettere, 2019, pp. 179, € 16,50). Giusto un esperimento quasi efferato da poetimbanco privo di inibizioni che assomma oltre mille distici (1089, se non ho contato male) suddivisi in quattro sezioni, tutti rigorosamente in rima baciata come per una contrainte maniacale stile Georges Perec, o meglio stile Oulipo, opera di letteratura potenziale (o, volendo, 'poetenziale') che alla lunga sembra autodivorarsi e, forse, divorare pure il soggetto emittente e scrivente. Minarelli in questo libro mette in moto una macchina celibe ed ossessiva disposta in martellanti distici, distanti perché giustapposti e mai conseguenti, ma forse al fondo tutti coincidenti nell'erigere un virtuale monumento a una 'disticolandia' effettualmente infinita che, volendo, potrebbe continuare per migliaia e migliaia di pagine senza terminare mai come la borgesiana Biblioteca di Babele.

Afferma Minarelli nella nota in coda al libro che "In ogni distico la scintilla ispirante viene provocata da quella inesauribile musa che appare sotto forma di parola ad hoc, tale parola resta la guida e il fine del distico stesso". Dunque è una singola parola-scintilla che genera l'apparato poetico disticomorfico, ovvero è quella che io chiamo la 'linguavirus' che prolifera secondo un impulso endogeno, incontinente ed inarrestabile. È un input che è anche un grande gioco, ma il Ludus è, lo sappiamo, la cosa più seria del Logos, perché è la sua vera anima, ossia è ciò che basicamente lo anima.

Così, la macchinazione iper-rimica e imperturbabile prodotta da Minarelli, come se lui si fosse tramutato in un algoritmo umano o, meglio, trans-umano, può macinare qualsiasi casuale spunto, qualsivoglia tema - dalla quotidianità al taglio civile-politico, dal gastronomico al socio-relazionale, dall'erotico al corporale, sino alle svisature sul linguaggio medesimo. È pressoché un autodopaggio poetico-semantico che dimostra la perversa/sublime plasticità e capacità del linguaggio di metamorfosarsi in qualsiasi cosa e pure nel suo esatto contrario, attraverso una sovrapproduzione di rime, rimalmezzo, rime interne, allitterazioni e assonanze a cascata e a go-go. Schidionate su schidionate di versi doppi che configurano un diluvio palabratico che non lascia scampo al lettore.

Appena qualche esempio, a partire dalle neologizzazioni: "la cortàzarità una rarità pregiata merce / lungimirante zarina a batteria con torce"; "figliola mia ti penso magrittizzata / mi vedrai picassato tu europeizzata"; "«capomastro ironico» lui mastroiannizza / «so di filosofia» lei sophialorenizza". I giochi funambolici anche mistilingui e demenziali: "Rousseau tutta nòt fumò taBach finì per s'amMolière / l'André inGide Jean-Jacques per Fantômas il fu Robespierre"; "Assiria siero Osiris l'asfissia dell'Isis / sognò l'iride irride la Lisa di De Pisis"; "mamma mamma vero che le donne son mummie a letto? / no! no! no! c'è da lavorare a far figli figlioletto!"; "ti sei mai gelato con la gelatina in lattina? / ipotizza che Scarlatti soffrisse di scarlattina"; "la foglia palmata zigzaga in chiesa una pomata presa in giro sul tedium / con questi sintomi è delirium tremens puoi intonare continuum il te deum". Talora si arriva all'epigramma: "dir troppo di cose di nessuna importanza / dir troppo poco di cose di gran importanza". O si strizza l'occhio a Vasco Rossi: "adottai un dotto look per attaccar bottone al bar Roxy / violacea s'aggregò nevrotico fard fucsia s'agganciò sexy". O si fanno trasparenti allusioni politiche: "ohibò gl'idioti iddio non li creò patrioti / che tuguri malauguri stagnanti i beoti!". O si richiama con ironia il titolo del volume: "smagliature storture subdoli irti tornanti / la lampante costante sta nei distici distanti"; "tranquillo cavillo eppur distillo distico su distici / li addomestico l'imbastisco distanti eppur ostici".

Ma non è vero, non è ostica l'imbastitura di questi mille e rotti distici, è anzi piacevole e spesso assai divertente, così come si deve essere assai divertito il suo autore a 'fabbricarla-addomesticarla'. E di fronte all'inesausto fare polipoetico di Minarelli viene giusto in mente l'infaticabile contino Leopardi: "Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale".

4. Chiudo con una lettura di altra natura, quella teatrale fatta da Enrico Frattaroli del poemetto Agamemnon incluso nella raccolta "Quarta dimensione" (Crocetti Editore) che Ghiannis Ritsos (1909-1990) scrisse alla fine degli anni Sessanta. Il testo del poeta greco è, a sua volta, una rivisitazione della figura mitopoietica del re di Micene, capo dell'armata achea che distrusse la città di Troia per riprendersi la bella cognata Elena, in una chiave di smitizzazione antieroica e modernistica, laddove Agamennone appare un sovrano borghesemente stanco e persino disgustato della guerra: «Ordina loro di tacere, ti prego. Che cos'hanno ancora da gridare?/ Chi applaudono? Che cosa acclamano? I loro boia, forse? I loro morti?/ O vogliono accertarsi di avere le mani e di poterle battere? / Di avere voce e di poter gridare e ascoltare la propria voce?».

Il testo si dispone come un fiume impetuoso di pensieri e di parole squisitamente e nobilmente letterarie in cui il regnante miceneo mescola ricordi, immagini e visioni in un flusso di coscienza pronunciato davanti alla figura muta della moglie Clitennestra, silente testimone della decantazione spirituale dell'uomo, ma soprattutto prossima vindice assassina - il marito, messo sull'avviso da Cassandra, certamente sa: «Come sono strani i tuoi occhi; anche la voce era strana quando hai detto:/ "Schiave, perché ve ne state lì? Avete dimenticato il mio ordine? / Ho detto: stendete i tappeti dal carro fino a casa, perché diventi tutta rossa / la strada e vi passi su il mio signore". / ... Un brivido / mi corse giù per la schiena. Perciò ti ho chiesto di prepararmi / un bagno caldo. Quel brivido - di vetro, di vetro - lo sai, / nessuno vuol morire, per quanto stanco».

Agamennone sa, ma non si oppone, va incontro al suo destino continuando a rimuginare, a riflettere, a rimasticare memorie, forse perché è già morto dentro, come è morta Elena, la quale sulla nave che la riporta in patria si ostina come una diva a truccarsi per ore davanti ad uno specchio, ma «... il suo viso / non è più quello per cui partimmo, quello per cui combattemmo / disseminando di remi spezzati, ruote ed elmi, mari e pianure. / Ha un altro viso ormai - forse più suo - e tuttavia diverso. / Sotto le splendide tinte dell'arte femminile / è come se nascondesse o addormentasse amaramente la sua morte. E lo sa. / Un giorno, giù sulla spiaggia, al banchetto per la vittoria, / dopo che avemmo seppellito i morti, e la città, da un capo all'altro / fumava ancora nel tranquillo crepuscolo autunnale, Elena, / col bicchiere davanti alle labbra, gridò: / "Sentite come tintinnano i miei braccialetti; io sono morta"... ».

Qui è come se Ritsos volesse dirci che dopo dieci anni di guerra vincitori e vinti sono in verità tutti sconfitti, uomini e donne sono i fantasmi di ciò che erano e, forse, la fine terrena viene da loro agognata come una liberazione. Così, in explicit il vecchio, esacerbato sovrano pronuncia frasi scolpite nella sua terminale consapevolezza tanto quanto nella pietas di sé e della propria killer: «Mi sembra che non mi ascolti; - come se avessi fretta. Ma sì, tutti abbiamo fretta / che l'altro taccia per parlare noi. E ciascuno / ascolta soltanto le sue parole. Che importanza hanno le parole? Solo le azioni / contano e si contano - come sottolineavi sempre. / ... Al bagno, al bagno, / l'acqua si fredderà, si sarà freddata. Vado. Tu resta pure; - non c'è bisogno. Insisti? - / Vieni». Sì, vieni, vieni ad uccidermi, dice in pratica alla moglie, vieni a liberarmi, come nella precognizione di Cassandra, a cui nessuno credeva, ma lui invece sì, forse perché la previsione coincideva di fatto con il desiderio postremo del suo animo.

L'allestimento di Frattaroli (all'Off / Off Theatre di Roma) sottotitolato "Lachesis per solo, eco, icona" è una ulteriore tappa della sua pluridecennale, rigorosa e raffinata ricerca poetico-musicale. Essenziale è la scena con sette leggii messi a cuneo su cui sono deposti i fogli neri e bianchi scompigliati e accartocciati dei suoi libri d'artista (ne possiedo uno lavorato sul mio volume poetico Autopia), mentre sul fondale c'è uno schermo ritagliato sulla maschera d'oro mortuaria di Agamennone, in cui scorre un fluxus randomico di immagini ora enigmatiche, ora stranite e straniate, tra cui mi hanno colpito quegli elicotteri in volo come in un Vietnam della mente da post-Apocalypse Now. La colonna sonora che opera in rifrazione del recitato combina (o scombina) Byrd, Karaindrou, Ligeti e Kkoshi, con le voci liriche del soprano Patrizia Polia e del tenore Diego Procoli a evocare la figure di Cassandra e Achille. Ma ovviamente chi domina dall'inizio alla fine lo spettacolo è la voce profonda e autorevole di Franco Mazzi, quarantennale compagno di arte e di vita del regista, accostumato con una tunica aperta sul nudo petto, che modula il dettato di Ritsos, facendone una partitura di pura musica verbale eseguita secondo un pacato (e quasi placato epperò implacabile) ritmo interiore/esteriore che mi ha fatto pensare alla risacca del mare, ad un liquido soliloquio osservato forse, più che ascoltato da Clitennestra. La donna (Mariateresa Pascale con toupettone rossotizianesco) è qui palesemente l'incarnazione di Lachesi, la figlia della Notte: la Moira che svolge il filo della vita e che, in apertura e in chiusura, si ritaglia la scena come fosse la sfingea sacerdotessa di una cerimonia funebre celebrata con il soggetto ancora (per poco) in vita.   

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