NEWS OF LIFE - NOTIZIE DI VITA
a cura di Vincenzo Vita
FREEDOM DAY
Si è tenuta martedì 8 maggio al Campidoglio la giornata dedicata alla libertà di comunicazione (World Press Freedom Day 2018), promossa da "Ossigeno per l'informazione" insieme all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Erano presenti interlocutori internazionali: da Mehdi Benchelah dell'Unesco, a Ricardo Gutiérrez segretario generale della federazione europea dei giornalisti; ad Antonio Guterres dell'Onu e a Dunja Mijatovic commissaria per i diritti umani del consiglio d'Europa, con videomessaggi. E sono intervenuti alcuni dei protagonisti della lotta concreta per un diritto sempre più vilipeso e compresso (a parte le inquietanti posizioni nelle classifiche di settore dell'Italia, oggi alla casella 46). Federica Angeli e Paolo Borrometi, testimoni di quanto è rischioso raccontare la verità tenendo la schiena dritta, a Ostia come in Sicilia e come in tutte le zone ad alta densità criminale, hanno portato la loro testimonianza lucida e mai doma. Così Corinne Vella, direttrice della rivista Taste&Flair e sorella della blogger assassinata a Malta Daphne Caruana Galizia. Esempi di vita vissuta, rappresentanti di una categoria professionale travolta dalla crisi e dalla precarietà, esposta alla violenza dei grumi incontrollati di poteri lasciati colpevolmente proliferare. E giungeva la notizia, durante il dibattito, dell'ennesima aggressione alla borgata Romanina di Roma verso i cronisti della trasmissione della Rai "Nemo". Ancora una volta. La discussione, coordinata da Mario Morcellini, è stata conclusa dal segretario nazionale dell'Ordine dei giornalisti Carlo Verna. Numeri drammatici: nel 2017 -ha ricordato in apertura la sindaca Raggi- 3603 professionisti hanno ricevuto minacce e Gutiérrez ha ricordato che ben 160 sono i cronisti detenuti nelle carceri turche. Del resto, Alberto Spampinato -ideatore con Giuseppe Mennella di "Ossigeno"- ha sottolineato la questione cruciale. Censure, ammazzamenti, minacce, querele temerarie da tempo non sono un'emergenza, bensì la fisiologia di un universo considerato ormai scomodo. Il divorzio tra una politica debole e poteri al contrario forti e baldanzosi ha leso le fondamenta dello Stato di diritto, di cui la libera informazione è il perno cruciale. Le minacce rimangono impunite per il 99%, ancorché con puntualità abbia preso posizione il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma Giovanni Salvi.
CONSIGLIERAI
Il consiglio di amministrazione della Rai ha avviato l'iter preliminare della procedura prevista dalla legge n.220 del dicembre 2015 per la nomina del consigliere di amministrazione espresso dai dipendenti. L'articolo 2 della (contro)riforma prevede, infatti, che entro sessanta giorni dalla scadenza dell'organismo l'iter deve prendere avvio attraverso la pubblicazione dell'avviso sui siti: della Rai medesima, di Camera e Senato. Le fonti decisionali.
Il periodo inizia a fine mese, visto che l'attuale consiglio scadrà il prossimo 30 giugno con l'approvazione del bilancio. All'annuncio seguiranno i curricula delle persone che suppongono di candidarsi. La scelta dell'"interno" è delicata, perché il buon senso vorrebbe che il futuro presidente venga magari dai ranghi aziendali, per controbilanciare il resto della governance eventualmente espresso dall'esterno. E' probabile che gli amministratori uscenti si rimettano al ministro competente e ai presidenti delle due assemblee parlamentari. Il quadro generale non offre certezze, come è evidente. E il servizio pubblico non vive su Marte. Tuttavia, è bene che si riaccendano i riflettori sull'azienda di viale Mazzini, al di là del rinnovo del consiglio. La Rai, infatti, sembra uscita di scena, quasi cacciata ai margini del villaggio globale. Il rimescolamento delle carte avviato dall'alleanza tra Sky e Mediaset, nonché dalla filiera che amplia la platea delle alleanze di Murdoch da Netflix a Disney con la prospettiva dell'integrazione cross-mediale con la rete, vede il servizio pubblico spettatore passivo. E' l'effetto nefasto della suggestione dirigista sottesa alla legge del Natale 2015, volta a conquistare da parte del governo la plancia di comando. Di linee industriali e di strategie di sistema neanche a parlarne. Dopo l'interminabile chiacchiera sulla natura della Rai, il risultato concreto è stato tanto mediocre quanto devastante. Un uomo solo al comando volle l'allora presidente del consiglio, sbagliando pure la prima scelta. Grazie a simili tattiche di potere, ora attorno a quella che fu la principale azienda editoriale italiana si è fatto il vuoto. Se non ci fossero l'informazione e le fiction, per di più senza il calcio, i palinsesti sarebbero assai fragili. Lo stesso patrimonio straordinario della diffusione sul territorio e della capillarità degli impianti tecnici non è valorizzato.
Eppure, un servizio pubblico di nuova generazione potrebbe svolgere una funzione essenziale, per condurre una nuova alfabetizzazione degli italiani nell'era digitale, far vivere la memoria audiovisiva e sonora nel presente, contribuire al rilancio del cinema. Così, nella stagione delle fake la comunicazione di qualità è cruciale. Non solo. La vicenda dell'uso improprio dei dati scoppiato con il caso di Facebook interpella proprio la sfera pubblica, cui spetta il compito di porsi come interlocuzione autorevole rispetto agli oligarchi degli algoritmi, ai potenti mercanti delle identità personali. Insomma, ci sarebbe materia per riaprire la strada in Italia e in Europa (si voterà il prossimo anno) alla ri-costruzione di servizi spesso ingialliti.
Proprio per questo la scelta del prossimo consiglio di amministrazione si carica di valori simbolici. Che la rottura della vecchia dipendenza dai poteri, politici e non solo, si appalesi con l'entrata in scena di una compagine di eccellenza, in grado di rappresentare già in sé una novità e una rottura con il passato. La Rai è sempre un banco di prova. E anticipa i tempi.
MEDIA STELLATI
Tanto i media vecchi e nuovi sono oggetto di conversazione e di chiacchiera, quanto vaghe risultano le proposte politiche che toccano la società dell'informazione. In vista della formazione del governo, sarebbe utile se non doveroso esplicitare le intenzioni. Dei due protagonisti del voto del 4 marzo l'uno - la Lega di Salvini- dice poco al riguardo, l'altro - il Mov5Stelle - ne parla per "editti" piuttosto che per propositi concreti. Limitiamoci ai vincitori. Dei limiti del partito democratico e delle sinistre si è scritto fin troppo, con ben magri esiti.
Se si vuole davvero aprire un'altra stagione è fondamentale cominciare dalla rete, ovvero il fulcro dell'infosfera, utilizzando la felice terminologia di Luciano Floridi. Ora più che mai è inevitabile sancire con una norma chiara e netta alcuni principi essenziali per declinare la categoria generale di "bene comune" così come descritta da Stefano Rodotà. Il primo è quello della "neutralità della rete", vale a dire l'eguaglianza nelle opportunità di accesso; il secondo tocca il punto chiave della banda larga e di Internet, da intendere come diritti di cittadinanza e non luoghi di mera accumulazione di mercato. Sullo sfondo l'ancoraggio degli Over The Top alla trasparenza dei loro algoritmi. Facebook racconti la verità, per cominciare. Inoltre, il tema è di stretta attualità, essendo in discussione le modalità di copertura dell'Italia, dalle fibre ottiche alle tecniche 5G. Lo stesso ritorno di fiamma dello scorporo della rete di Tim-Telecom (accidenti, vent'anni dopo e senza mai un'autocritica) impone una visione strategica. Che oggi non c'è, a parte il Risiko societario tra Bolloré e il fondo americano Elliott in cui non è chiaro chi sia la padella e chi la brace.
E poi. E' finalmente tempo di abrogazioni. Chissà se Luigi Di Maio tra le 400 leggi da eliminare subito ha considerato il Testo unico della radiodiffusione del 2005, la (contro)riforma della Rai del dicembre del 2015 e la presunta disciplina sul conflitto di interessi del 2004 dell'allora ministro Frattini. Il decreto legislativo n.177 fu il bignamino voluto dall'ex ministro Gasparri a compendio delle varie disposizioni in campo radiotelevisivo, a partire dalla nefasta legge a sua firma dell'anno precedente che santificò l'impero berlusconiano. Lo strapotere di Mediaset, figlio anche delle incongruenze del centrosinistra al governo, ha pesato molto nel limitare lo sviluppo. Anzi. Il surreale "spezzatino" tra le regioni nel passaggio dall'analogico al digitale imposto dal successore Romani ha accentuato il ritardo italiano e si è rivelato una gogna per l'emittenza locale. L'intero quadro va ridisegnato con coraggio e fantasia, proprio con il criterio del "bene comune" e dei vincoli antitrust. Si richiedono principi saldi e regolamenti di rapido aggiornamento a cura delle autorità di settore, che a loro volta meritano un "tagliando" di verifica.
La leggina sulla Rai, peraltro di dubbia costituzionalità, è stato un vero scandalo, figlio di un'accecante bramosia di potere. Fu attribuito tutto il comando ad un uomo solo, sbagliando pure la persona. Il servizio pubblico merita sul serio un rilancio, come luogo di riferimento - un software intelligente- dell'intero universo comunicativo, togliendo di mezzo la subalternità al governo e rendendo possibile una reale indipendenza.
Un bel ritocco, infine, per la legge sull'editoria dell'ottobre del 2016, colpevole per le omissioni (futuro delle testate e delle professioni), più che per un articolato così contingente. E, magari, una legge per la radio.
Al lavoro e alla lotta. Ma con chi?
ARRIVANO GLI AMERICANI
Il fondo "speculativo" Elliott ha vinto la partita nell'assemblea di Tim per il controllo della maggioranza azionaria. Sconfitti i francesi di Vivendi, anche a causa dei problemi giudiziari di Bolloré. E questo non ha certamente contribuito all'immagine del finanziere bretone. Tuttavia, da soli gli americani, che sono quelli -per capirci- che diedero una mano a fine anni novanta ai "capitani coraggiosi" di Colaninno per accaparrarsi l'ex monopolio telefonico e recentemente ai cinesi che hanno rilevato la squadra del Milan, non ce l'avrebbero mai fatta. Insomma, in tale vicenda non ci sono buoni e cattivi: come in un film di Tarantino sono tutti cattivissimi. E' bene sottolineare tali evidenti novità, in quanto da qualche parte si è voluto caricare la vicenda di significati impropri, quasi fosse una rivincita dello stato sul mercato. Nient'affatto. Dopo anni di spoliazione dell'azienda e di avventurismi di un capitalismo debole, pronto a offrire un gioiello di famiglia agli spagnoli, ai francesi e ora alle scorribande d'oltre oceano, siamo arrivati ad un punto limite. Così, il denaro pubblico, attraverso la Cassa depositi e prestiti, è intervenuto duramente (800 milioni di euro per racimolare il 4,8%) per spostare gli equilibri. Curiosa storia. Perché il governo non ha utilizzato lo strumento del golden power per piantare una bandiera autorevole e ha delegato all'ente che raccoglie il deposito dei risparmiatori postali di supportare uno dei contendenti? I francesi, al netto di ogni giudizio, sono in lotta con Mediaset e -si sa- il patto del Nazareno è una metafora permanente. Tra l'altro, non è credibile, a proposito di conflitti di interesse, che Cdp stia in Tim con un peso determinante e nella società concorrente costituita con Enel, Open Fiber. In verità, la concorrenza nel liberismo all'italiana è una formalità piuttosto che una tutela dei diritti dei consumatori. Infatti, il sottotesto dell'intera vicenda è lo scorporo della rete, in cui confluirebbero le strutture dei due operatori, e forse non solo. Anche qui, chiarezza. L'ipotesi della rete pubblica fu la proposta -sconfitta- della linea alternativa alla privatizzazione dura e pura che travolse dubbi e resistenze nel lontano 1996. Ma allora rientrava in un progetto di "stato sociale" nelle e delle comunicazioni. Adesso pare un po' un residuo -vent'anni dopo- ovvero una modalità per costringere la cosa pubblica a ripianare crisi e buchi di bilancio. Con l'incognita dei livelli occupazionali, sui quali nessuno dei contendenti si pronuncia, neppure rispondendo alle istanze dei sindacati e dei piccoli azionisti. Per di più, l'intero parterre dei belligeranti si è dichiarato d'accordo sui piani designati dall'amministratore delegato Genish. Quindi, non c'è un'effettiva divergenza? E' solo gestione del potere?
Si tratta di una storia mediocre e prevalentemente finanziaria, ben lontana dalle coordinate strategiche di cui l'era digitale avrebbe bisogno. E molto c'è da comprendere. Non sarà un caso se la richiesta, reiterata, di Stefano Fassina di convocare in audizione nella speciale commissione parlamentare il ministro Calenda e i vertici di Cdp sia finora rimasta lettera morta. Già, Calenda sembra proprio contento e soddisfatto. Ha rilanciato l'idea di una public company. Però, caro ministro, ci deve spiegare come e dove.
LA POLITICA SENZA SPETTACOLO
Prima fu la "società dello spettacolo" immortalata alla fine degli anni sessanta dal filosofo francese Guy Debord. Poi venne lo "spettacolo politico" descritto dal politologo statunitense Murray Edelman già nel 1988. Ora siamo nella stagione della crisi della forma stessa della politica. La vecchia televisione, al di là del suo peso reale nella formazione delle opinioni, ci offre un'idea piuttosto chiara della parabola in corso: la rappresentanza è scesa molto nella classifica dei desideri del consumo. Infatti, i talk di qualche successo tendono da tempo a ibridare gli ospiti: la lunghezza infernale delle trasmissioni dipende anche dalla dilatazione del contenitore, riempito di protagonisti di ogni tipo (dalle diete, al cibo, alle cure estetiche), per offrire la politica in porzioni omeopatiche. Da "Porta a porta" in poi. Il relativo riequilibrio risponde alle suggestioni premonitrici sulla spettacolarizzazione del "politico". La società del'informazione ha fatto il resto. Il successo dei social amplia a dismisura l'ordine degli addendi, ma non lo contraddice. Il risultato, comunque, c'è, oscillando l'agognato share tra il 5 e il 15 per cento.
Se passiamo, invece, alla Rai e al girone della politica-politica che nel servizio pubblico ha modalità canoniche, vale a dire la costruzione "pura" delle tribune, il quadro cambia sensibilmente. In peggio, per i 20 soggetti aventi diritto nella fase finale delle ultime elezioni politiche (17 nelle due settimane che vanno dall'indizione dei "comizi elettorali" alla presentazione delle liste). Se si prendono in esame, infatti, i dati di ascolto di conferenze stampa, confronti e messaggi autogestiti, si va dallo 0,5 al 3 per cento, con un po' di aumento per gli spazi rivolti agli italiani all'estero e per i messaggi autogestiti : si arriva al 4 per cento. Più su le trasmissioni per le elezioni regionali, con una punta del 7 per cento per la conferenza stampa del governatore del Lazio Nicola Zingaretti del 21 febbraio scorso. Il presidente riconfermato vanta, dunque, il record assoluto: meno delle percentuali normalmente raggiunte dal celeberrimo fratello Luca, ma niente male. Tuttavia, salvo l'evocata eccezione, il panorama è davvero modesto, al di là degli sforzi dello specifico servizio della Rai che se ne occupa. Tralasciamo qui le buone performance de La7, la rete che più ha creduto nell'informazione ma in modo diverso. Il discorso riguarda il meccanismo classico del racconto della politica, che pare ormai non funzionare.
Non si possono resuscitare le gloriose tribune, pur senza pretendere di farle somigliare oggi a una storia iniziata nel 1961 con la voce inconfondibile di Jader Jacobelli e terminata -con quelle sembianze- lungo gli anni settanta? Non sembri un paradosso, ma proprio le leggi della politica-spettacolo hanno in sé anche la formula del loro rovesciamento. Che spettacolo sia pure, dunque, ma curato con l'attenzione e gli investimenti che si dedicano ai format di successo.
Insomma, la narrazione politica divenga un genere vero e proprio, costruito con la voglia di far conoscere la cosa pubblica, il suo funzionamento, i peccati e le virtù. E potrebbe essere scelta una fascia oraria prossima ai telegiornali, preferibilmente nelle edizioni meridiane con repliche nella seconda serata. Adesso che la politica sta spiazzando,
PS: il contratto di servizio tra stato-rai è in gazzetta dal 7 marzo. Un'anonima manina ha cambiato la vocale finale dell'amministratore delegato, da una o a una i (Orfei). Che sia un qualche messaggio?
LA SCOMPARSA DI FABRIZIO FRIZZI
La scomparsa di Fabrizio Frizzi è umanamente dolorosa e, in un certo senso, aumenta la nostalgia per una televisione che non c'è più. O c'è sempre di meno. Parliamo dell'intrattenimento di consumo, ma di qualità. Quel genere che ha popolato il sabato sera con leggerezza e stile, ancora alieno dal ricorso massivo alla baraonda del corpo a corpo degli ascolti. E sì, perché anche nelle componenti pop dell'offerta c'è un prima e un dopo. I palinsesti preserali o l'ora x del sabato sera erano in competizione -certamente- tra pubblico e privato, ma non con le sciabolate trash dei Grandi Fratelli, delle Isole dei Famosi. E neppure con la guerra guerreggiata tra la lista dei programmi di Maria De Filippi e il luccichio imperioso di "Ballando sotto le stelle". Laddove il glorioso varietà viene decostruito e riplasmato come micidiale macchina di ascolti e di pubblicità.
Ecco, "I fatti vostri" o "Scommettiamo che" assomigliamo e tuttavia rimangono dentro i limiti di una televisione ancora in grado di proporsi come flusso normale; e non evento, forzato e artificioso.
Frizzi va ricordato così: preparato e gentile nella forma come nei contenuti. Spesso parlare di una persona nota e stimata che scompare costringe a fare due conti, in particolare con ciò che simbolicamente rievoca, persino al di là delle intenzioni soggettive. E non per caso, forse, Frizzi si era costruito partendo dalla tv per ragazzi, vera scuola di sensibilità e di generi. Fino al cimento nel format dei quiz, luogo di confine tra i programmi diurni e pomeridiani, e quelli della sera. "I soliti ignoti", "Luna Park" o "L'eredità" hanno una tenuta "immortale". Sono sempre stati per Rai1, e per i dirimpettai di Canale5 e i loro omologhi, la gara all'ultimo punto di share, onde trainare in prima fila il telegiornale che segue. Come i tempi delle prove nella Formula1, che definiscono la griglia di partenza della gara.
La storia artistica di uno dei conduttori più seguiti del video nella lunga stagione del predominio "generalista" è stata assai ricca e variegata. Con alti e bassi, e comunque di livello, ivi compresa la conduzione di "Domenica in", che per la geopolitica dell'offerta assomiglia all'esame di maturità.
L'AUDITEL, TRENT'ANNI DOPO
E' stata presentata nei giorni passati la nuova strategia del vecchio istituto di rilevazione dei dati dell'ascolto televisivo. L'autoriforma è considerevole, come si evince dall'interessante relazione tenuta alla camera dei deputati dal presidente Andrea Imperiali. All'inizio, infatti, erano seguite le reti del "duopolio" Rai-Mediaset, con qualche attenzione residuale al cosiddetto terzo polo, che allora aveva le sembianze di Telemontecarlo. Il resto del mondo era di fatto classificato nelle "altre". Ora sono circa 440 le emittenti rilevate sul digitale terrestre e 209 i soggetti free e pay distribuiti sul satellite. Ed è in corso d'opera l'apertura alla SmartTv, al PC, a smartphone e tablet: i device digitali. Non solo. Il dato di immediato rilievo è costituito -a partire dal 30 luglio- dall'introduzione di un "SuperPanel" di 16.100 famiglie, il triplo delle attuali 5.700.
Tuttavia, a monte rimane attualissima (anzi) la riflessione critica della sociologa Ien Ang nel suo cristallino volume "Cercasi audience disperatamente" (1991), laddove si mette in causa il punto di vista istituzionale (inteso come quello dei soggetti implicati commercialmente), che ha colonizzato le pratiche reali e la loro percezione. "L'audience è considerata nulla più che un'entità data per scontata, formata da un insieme di persone sconosciute, ma non per questo non conoscibili..." Per quanto apparentemente perfezionati, i dati non ci raccontano la verità: non solo quanto, bensì come come si ascolta, pure tenendo acceso il video senza seguirlo davvero. Già nell'ottobre del 2015 scoppiò lo scandalo dei "bachi" nella mailing del campione, tali da vanificare ogni segretezza. Per non dire dei casi clamorosi del monoscopio seguito come il programma malgrado l'interruzione tecnica, o della curiosa omologazione in basso di taluni programmi (vedi l'opera o la lirica) scarsamente appetibili sotto il profilo pubblicitario. E' utile rileggere l' istruttiva intervista che fece ad una famiglia-meter nel dicembre del 2011 Alessandra Comazzi, giustamente celebrata dal suo giornale -La Stampa- dopo ventotto anni di critica televisiva.
E sì, perché in fondo il calcolo degli ascoltatori risponde all'esigenza dell'accumulazione primaria dei media: vendere il pubblico alla pubblicità. E, malgrado lo spirito innovatore, l'Auditel non pare cambiare granché rispetto alle origini.
Inoltre, va ben compresa la nuova età cross-mediale. Le attitudini del e nel consumo non riguardano solo la variazione della fruizione. Un programma, magari di nicchia (Cattelan?), raggiunge anche quattro milioni di visualizzazioni sui social e fa opinione a differenza di un programma di palinsesto forte per il traino inerziale della rete generalista. Proprio l'era numerica richiede approcci complessi per capire sul serio i numeri.
E veniamo alla questione delicata. Per quanto perfezionata, la società raccoglie i dati in esclusiva. Sarebbe stato assai meglio, in ottemperanza allo spirito della legge 249 del 1997, che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni mettesse a gara la ricerca, attribuendo la commessa ad almeno due soggetti in concorrenza. Neppure convince la logica sbandierata del Joint Industry Committee, vale a dire il modello di gestione attribuito ai diretti interessati: emittenti e associazioni della pubblicità o del settore. Insomma, i beneficiari della suddivisione dell'advertising siedono nella stanza dei bottoni. E il "Gattopardo" vince sempre: cambiare un po' per non cambiare.
LA TV NON È ELETTA
E' stato detto e scritto con solennità che la televisione generalista è stata nuovamente la protagonista assoluta del red carpet mediatico dell'ultima campagna elettorale. Sarà, ma simile certezza è messa in discussione da due elementi rilevanti.
Innanzitutto, proprio la televisione si è rivelata -negli atteggiamenti dominanti- piuttosto distante dal nuovo senso comune, essendo stati chiaramente sospinti nel flusso delle notizie Partito democratico insieme al governo e Forza Italia ben al di là della forza effettiva. A fare da polarità dialettica negativa è stato scelto il Mov5Stelle, tanto abbondante nel tempo di notizia quanto citato in modo critico o sarcastico. Insomma, Rai e Mediaset hanno votato per un rinnovato "Patto del Nazareno" e hanno perso. Un incrocio tra i dati forniti dall'Osservatorio di Pavia (per la commissione parlamentare di vigilanza) e quelli di Geca Italia (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ci fornisce un complesso di indicazioni, a cominciare dalla sottovalutazione pesante della Lega e dalla cancellazione di una lista come Potere al popolo. Altro che par condicio. La legge 28 del 2000 è stata rivista di fatto, fuori da ogni procedura democratica. Infatti, le pari opportunità tra i diversi soggetti in campo -che nell'ultimo mese prima del voto dovrebbero essere rigorose ed egualitarie- hanno riguardato prioritariamente le forze ritenute importanti. La par condicio ha categorie differenti, a seconda del peso post-voto supposto o desiderato. Pure Liberi e Uguali ha sofferto l'emarginazione, come si evince dal puntuale monitoraggio svolto da un gruppo di ricerca del dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della Sapienza di Roma diretto da Christian Ruggiero.
I successi di Di Maio e Salvini ci fanno capire come la vecchia televisione sia inguaribilmente conservatrice e troppo abituata a ruotare attorno al potere politico conosciuto. Raramente (qualche eccezione nel servizio pubblico e La7) si coglie il coraggio rabdomantico di leggere la realtà sotto la superficie dei segni, offrendo agli utenti-cittadini una lente di ingrandimento. E poi arriva il voto vero a smentire. Chissà ora che accadrà, perché il "duopolio" starà certamente stretto ai due vincenti, per motivi forse opposti.
Un'altra osservazione è d'obbligo. Al di là dei minuti concessi ai contendenti (calcolati a prescindere dal rapporto con l'ascolto effettivo, come invece conduceva le rilevazioni il Centro d'ascolto radicale, di cui abbiamo nostalgia) è essenziale guardare all'agenda delle priorità artificiosamente imposta. E, allora, si capisce che la campagna elettorale nei media classici conta fino a un certo punto. Infatti, se si scruta l'andamento della e nella rete prima della campagna elettorale canonica , si coglie il vento che tira. Migranti e xenofobia, odio razziale e urla pauperiste, riabilitazioni dei fascismi e richiami all'odio sono stati componenti forti e pervasive. Naturalmente, va osservata la crescente quota dark dedicata selettivamente ai profili immagazzinati negli abnormi archivi digitali posseduti dagli Over The Top. A cominciare da Facebook. Il clima di opinione costruito con il contributo essenziale delle ciniche sequenze degli algoritmi è ben più rilevante della prevedibile grancassa del piccolo schermo.
La televisione generalista conta ancora molto nella rassicurazione propagandistica dei bacini elettorali già convinti, piuttosto che nell'espansione creativa e dinamica delle aree di consenso. La "terza repubblica" dei media è cominciata.
ALGORITMI DI LIBERTÀ
Della storia "Facebook-Cambridge Analytica" si parla da un po'. In verità, il caso covava da tempo, ma pochi furono a occuparsene. Tra questi ultimi il giornalista e docente universitario Michele Mezza, che ora ci ha scritto su un notevole volume ("Algoritmi di libertà", 2018, Roma, Donzelli editore).
E' utile leggere un testo così preciso e documentato, per capire che non siamo di fronte ad un complotto noir o ad una occasionale messa in scena, bensì all'ulteriore maturazione delle classificazioni fatte da Manuel Castells sui media digitali. Qualcosa di più e di diverso. Adesso: "...sono gli algoritmi, in quanto tali, senza nessun'altra mediazione linguistica, che costituiscono lo spazio dove si costruisce il potere...". In breve, dunque, lo scandalo dei profili ceduti dalla società di Zuckerberg alla compagine britannica rappresenta la normalità eversiva di una macchina ormai incontrollata, un Frankestein costruito in laboratorio dagli stessi che si meravigliano o chiedono scusa. Siamo in quella zona di confine tra tecniche moderne di guerra, utilizzo delle ipertrofie dell'intelligenza artificiale, invasione dello sfruttamento -contro ogni tutela della privacy- nella nuova catena sociale del valore. Muta la grammatica del conflitto. Mezza ha un ottimo consigliere, citato spesso in modi espliciti o sottesi, vale a dire il Marx prefigurante dei Grundrisse, del terzo libro del Capitale, dei Manoscritti o delle opere giovanili come gli scritti sulla Gazzetta renana. E non è retorica erudita. Corre l'anniversario dei 200 anni dalla nascita del pensatore geniale, persino capace di fornirci chiavi di lettura rabdomantiche sul "capitalismo delle piattaforme".
Il bandolo della matassa sta nella negoziazione degli algoritmi. Il crescente potere oligarchico dei cosiddetti Over The Top va contrastato creando un contropotere che, non sfuggendo ai territori veri (bando alle nostalgie, a meno che non si tratti della "retrotopia" -l'utopia sana del passato- di Bauman) del conflitto. "Ribellismi molecolari", che sfidino la rete disvelandone sintassi e linguaggi, fino a creare un altro senso comune. Con un utilizzo libero della potenza di calcolo, che ha da essere conoscibile e trasparente. Fin dalla scuola, momento cruciale per costruire una coscienza critica di massa del e nel tempo digitale. E poi nei terreni concreti, a partire dalle città.
Quanto contano gli algoritmi che conducono per mano le migliaia di profili digitali di cui dispongono nel voto? Moltissimo. E' nota l'iniziativa degli "hacker" russi nel successo di Trump, e pure è esplicita -al contrario- la linea difesa di un "algoritmo-nazione" come la Cina, che ha pensato di risolvere il problema edificando la sua muraglia digitale. In Italia?
Il voto del 4 marzo scorso sicuramente è stato influenzato. Mezza, giustamente, non misura le proporzioni quantitative. Tuttavia, ricorda che nel documento redatto sulle aporie delle elezioni americane dal superprocuratore Robert Mueller ben 37 pagine sono dedicate all'Italia. Certamente non è un caso che tanto Di Maio quanto Salvini abbiano subito ringraziato la rete, dentro cui navigavano massicce dosi di esasperate micce antielitarie e crociate nazionaliste o persino xenofobe. L'ex uomo forte di Trump Steve Bannon ha svelato l'esistenza di clienti italiani. Chissà. Lega e Mov5Stelle hanno vinto le elezioni a prescindere, sia chiaro. E le sinistre non hanno neppure considerato l'argomento. Comunque, se gli algoritmi non si coniugano con la libertà, la democrazie decade. Un brivido.