PER LA CRITICA

LIBRI ECCEZIONALI:

LE CONTRACRONICHE

DI SANDRO SPROCCATI

di Francesco Muzzioli

Ci sono, a volte, libri eccezionali. E non voglio usare "eccezionale" solo come un superlativo dichiarato ex cathedra senza il supporto di adeguati argomenti. Dico "eccezionali" perché "fanno eccezione"; cioè semplicemente non sono come tutti gli altri. Per prima cosa, sono difficili da classificare, perché eccedono, per l'appunto, i modelli dei generi prestabiliti e sono, perciò, difficili da incontrare perché, prima ancora, sono difficili da pubblicare, stante la rigidità mentale degli editori e delle loro collane che devono corrispondere alle scansie del mercato e quindi sono fatte per accogliere oggetti subito riconoscibili da parte del consumatore. E invece ci sono libri, come le Contracroniche di Sandro Sproccati - il libro di cui mi vado ad occupare qui - che non vogliono saperne di adattarsi ad un settore prestabilito (e sia lode all'editore Robin che lo ha pubblicato lo stesso...).

Si potrebbe parlarne come di una raccolta di saggi; il saggio lo si sa, lo diceva Adorno, è una forma ibrida, è un genere argomentativo, ma anche creativo. Ma qui Sproccati decide fin dalla nota di premessa di liberarsi di qualsiasi limite e quindi anche della «ideologia del rigore filologico», con essa di tutti gli eventuali obblighi accademici (note o altri apparati). Il libro può quindi spaziare, quanto all'argomento dalla letteratura alla pittura, nonché alla musica; dal passato al presente, dai nodi cultural-antropologici come la questione della religione al mito dell'origine e ai grandi temi dell'eros e della morte. Altrettanto sono messe in gioco di volta in volta diverse modalità creative: troviamo la prospettiva quasi-narrativa di Caravaggio in vista delle coste maltesi, addirittura colto nel suo foro interiore («La figura di una immonda decapitazione è intimamente legata a quest'isola... - deve aver pensato Michelangelo Merisi mentre avvistava, dal parapetto della goletta su cui viaggiava da troppe ore, la rossiccia linea delle coste maltesi»), oppure il colloquio "impossibile" con Schubert, dall'andamento onirico che tiene in dubbio le identità di persona e di luogo («Io non so che lui è Schubert, e anzi dapprima non mi sembra affatto sospettabile che possa essere addirittura Schubert, tuttavia so che è un musicista...»). Per finire, non poteva essere diversamente, con la collezione degli aforismi (un Liber veritatis per usare il titolo adottato in un caso simile da Mario Lunetta), dove il pensiero lampeggia e scarta e ribalta ovvietà, facendo della frammentarietà stessa una bandiera di sottrazione rispetto all'andamento di occupazione e amministrazione dello spazio propria della trattatistica.

Si tratta di un discorso portato all'estremo da parte di un autore che si espone sempre in prima persona, rinunciando appunto a coprirsi le spalle con la presupposizione del consensus omnium. Non a caso Sandro Sproccati proviene dalle sperimentazioni letterarie degli anni Ottanta-Novanta del Novecento, ed è stato una figura di spicco del movimento della "Terza Ondata": in quel periodo, l'«afflato sovversivo» (per utilizzare lo spunto di un suo scritto di poetica) veniva tanto più esaltato quanto più costretto nel lessico letterario obsoleto e nel rigore delle forme chiuse (perfino il sonetto: «Sortir sonetti mi soddisfa assai / poi che ogni volta che ho ceduto a farlo / intriso al mio silenzio un raro suono / si propalava nello spazio bianco...»). Mentre allora l'alternativa consisteva nella quasi-cancellazione del contenuto dentro la esibizione della forma, adesso lo stesso pungolo viene affidato alla trasgressione del contenuto, o per meglio dire all'attacco verso le costruzioni ritenute scontate dal senso comune. Per qualunque argomento si passi, una insofferenza assoluta per l'esistente produce scatenamento, entusiasmo («Chiamo entusiasmo la dimensione psicologica capace di rendere la vita degna di essere vissuta») e follia («l'importante è impazzire bene»; e «Cogito ergo insānus sum»). Si eviti però di confondere questa posizione con un irrazionalismo soddisfatto di sé; a preoccupare Sproccati è semmai il razionalismo limitato e quello che, appellandosi a malintesa ragione, copre i propri interessi pratici. Che sia la prassi, la prassi occidentale, il vero problema e la causa dell'incultura dominante, ciò appare in più punti; e se Sproccati, giustamente sottolinea le tare del marxismo che fu («La scelta di una grigia e dogmatica ortodossia è stata - fin dal principio - la pietra tombale sulle pretese liberatorie del movimento politico comunista e sulle ambizioni delle avanguardie che ad esso si richiamavano»); tuttavia non esita a tirar fuori la parola più tabù che oggi ci sia, la rivoluzione con tanto di maiuscola: «Il regime di feroce oppressione culturale che ci domina... è la vera peste dell'epoca del tardo capitalismo, ed è la fonte di ogni singolare e collettiva sciagura. D'altra parte, ribellarsi a tale regime, ovvero riuscire a sconfiggerlo, significherebbe di fatto produrre la Rivoluzione».

Un libro anarchico, che muove dal rifiuto di qualsiasi compromesso o soluzione di comodo in politica come in arte; e anarchico in ogni sua mossa, anche quelle più accoste alla pratica saggistica corrente. Vedi il saggio sul Don Chisciotte e i molteplici livelli del suo narratore, l'arabo autore del manoscritto ritrovato, il traduttore, il narratore di primo livello, nonché infine l'autore. Una serie di "scatole" che genera un grafico che non sarebbe dispiaciuto a Genette:

Senonché, invece di servire a un mero descrittivismo di possibilità consentite dal codice, qui il procedimento diventa emblematico del rifiuto del senso comune oggi fortissimo del racconto come rafforzamento dell'identità; si racconta - dimostra il capolavoro di Cervantes - per allontanarsi e disperdersi. Presa di distanza. «Compresi allora (...) - scrive Sproccati a proposito del successivo dispiegarsi della sua lettura donchisciottina - che proprio l'allontanarsi è il gesto tipico del demiurgo, che proprio nel ritrarsi della materia della narrazione consiste l'atto fondamentale del narrare». E ancora, poco oltre: «Le cornici concentriche a cui dànno vita le mag­giori opere della letteratura sono allora la chiave di intelligenza della legge inesorabile di ogni forma di creazione: in quanto segnali dell'assenza del centro, in quanto rivelatrici dell'allontanamento come atto indispensabile, ci dicono di un desiderio che deve restare inappagato; ci parlano di una passività otta­tiva. Perché è nel ritrarsi che si realizza il miraco­lo».

Il titolo del libro, un composto contrastivo, lo leggerei in tre diverse sfumature: significato 1, contracroniche in opposizione al procedere sul presente e la sua incensazione (opposizione «al fare cronachistico e banalizzatore della così detta critica militante, oggi per lo più decaduta a mera produttività pubblicitaria»); significato 2, contracroniche, cioè "contro il cronico", contro l'idea che i mali sono così inveterati da essere ormai invincibili; significato 3, contracroniche, ossia il contrario della logica della cronaca, un pensiero che solca la durata storica e in ciò si pone in contrasto con il suo proprio tempo. Già Adorno ha scritto che «L'attualità del saggio è l'attualità dell'anacronismo»: ma da questa temporalità frammentata e arbitraria spira un'aria di libertà davvero oggi rara e tonificante.

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