Per la Critica
LE DONNE DI HOPPER
Ottava indagine per il commissario Capurro
Riflessioni sull'ultimo romanzo di Michele Branchi
Un dipinto che genera la realtà. La realtà che genera un dipinto. Il pittore di un solo quadro replicato all'infinito. L'ossessione della vita come trauma infantile dell'omicidio della madre vissuto e rivissuto di fronte alla riproduzione del famoso quadro di Edward Hopper Automat
Attorno a queste isole tematiche si sviluppano altri argomenti affrontati in chiave romanzesca, ma con l'attenzione alla verosimiglianza storica dei fenomeni trattati, come la prostituzione del secondo dopoguerra alimentata dalla migrazione nelle regioni del nord Italia di donne meridionali, specialmente campane, di bassa estrazione sociale, affamate e immiserite dagli eventi bellici, dalle violenze e dai lutti subiti. Una moltitudine femminile che cercava un riscatto sociale ed economico tramite la vendita del proprio corpo e, in seguito, elevandosi alla gestione imprenditoriale del commercio, come la protagonista del romanzo, di cui parleranno i testimoni, essendo già morta assassinata fin dalle prime pagine. Una donna bellissima e determinata, arricchitasi col meretricio ad alto livello nelle case d'appuntamento di lusso, frequentate da uomini politici, banchieri, diplomatici, prelati, e divenuta col tempo confidente della polizia e informatrice dei servizi di intelligence, sulla falsariga di Madame Claude a Parigi negli anni Cinquanta del Novecento.
Il tema della prostituzione mi ha dato l'opportunità di rievocare i luoghi del centro storico dove a Genova il fenomeno si insediò e ancora adesso sopravvive, benché originato dai flussi migratori provenienti dall'Africa e dai paesi dell'est europeo. Il mio interesse si è focalizzato su Piazza dei Truogoli di Santa Brigida, abitata un tempo da una fauna umana eterogenea, popolare e pittoresca, sulla quale si affacciavano botteghe di artigiani, di commercianti, osterie, trattorie, barberie, immortalata in numerose cartoline d'epoca, col sipario dei panni e delle lenzuola stesi da una facciata all'altra, e dal film del 1949 Le Mura di Malapaga, per la regia di René Clement, interpretato da Jean Gabin e Isa Miranda, premio oscar per il miglior film straniero. Questo film struggente rappresenta anche un documento storico e sociale della Genova del primo dopoguerra, con la gente che affollava i vicoli in una convulsa voglia di vivere, le case devastate dai bombardamenti, le famiglie costrette a condividere alloggi fatiscenti o di fortuna, in un'aura che univa la nostalgia, la speranza e il sentimento della precarietà dell'esistenza e dei suoi valori.
La memoria di quella pellicola viene recuperata nel romanzo alla luce della vicenda che vi si snoda e dei personaggi che abitarono nella piazza dei Truogoli, oggi completamente mutata, a seguito della ristrutturazione edilizia e del riassetto urbano della zona, che l'ha svuotata e privata di identità, rendendola simile a un fondale di teatro patinato dal nulla.
\ Ma è uno scrittore a dare lievito alla storia e alle storie che si intrecciano in un gioco di specchi che non riflettono mai la verità, scomponendola e ricomponendola in un caleidoscopio di passioni aberranti e delittuose. Uno scrittore uscito da sette anni di depressione e assoluta inattività, dopo aver raggiunto l'apice del successo con un libro dalla trama simile a quella che gli capiterà di vivere nel mezzo di una notte di gennaio, quando reduce da una festicciola, invece di usare l'ascensore, salirà le scale del suo caseggiato e al quarto piano si troverà di fronte alla porta non chiusa di un appartamento sconosciuto e a una svolta del destino.
Introdottosi, esplorerà l'immobile e non ne potrà più uscire, poiché qualcuno nel frattempo lo ha chiuso a chiave dall'esterno, innescando un ingranaggio diabolico
...Alle cinque del pomeriggio il fermato fu accompagnato nell'ufficio del commissario capo Giorgio Capurro. Scremato dai subordinati, adesso gli toccava ripetere la deposizione davanti al noto personaggio della cronaca nera cittadina. Ne era incuriosito, benché stremato. Sapeva del suo anticonformismo e del modo del tutto personale di esercitare la professione. Ma era anche consapevole della determinazione maniacale del commissario di perseguire la verità, a ogni costo e contro gli opportunismi che la dialettica dei poteri imponeva. Per non abdicare da questa linea, aveva pagato prezzi elevati e rischiato sulla propria pelle, pur di non cedere a compromessi di comodo. Gli stava di fronte, seduto dietro la sua scrivania, i capelli arruffati ricci neri con riflessi argentati, lo sguardo azzurro da pesce bollito.
L'apparenza non dava molto affidamento. Non aveva nulla del poliziotto, malgrado lo fosse più visceralmente dei suoi colleghi. Gli stereotipi aiutano, talvolta. Rassicurano, nonostante si rivelino spesso ingannevoli. Per sussistere, devono essere sostenuti e avvalorati dall'esperienza reale e accreditati dall'opinione pubblica. Sennò, vacillano, fino a scomparire nella promiscuità dell'omologazione sociale e dei costumi. Capurro si sottraeva a ogni stereotipo. La sua personalità si compenetrava col suo lavoro. Non si riusciva mai a capire dove finisse il poliziotto e incominciasse l'uomo. Ne conseguiva che con la mente era sempre in servizio. Ma ciò non implicava deformazioni professionali. Semmai il contrario: la sua sostanza umana contaminava la gestione delle indagini, causandogli frustrazioni e disillusioni, che alla lunga gli avevano fatto perdere la voglia di sognare, tipica della sua natura di introverso.
Il commissario Capurro non è un deus ex machina, ma piuttosto il propulsore e ricettore di confessioni, necessarie per potersi affrancare dalla prigione mentale e spirituale che segrega nella solitudine egotica e anaffettiva il colpevole, incapace di sostenere fino in fondo la lucida applicazione delle proprie teorie superumane. Le passioni sono molto più forti delle ideologie create dall'uomo per erigersi al di sopra delle convenzioni morali e affermare l'etica utilitaristica derivante dalla realizzazione della volontà di potenza. Dall'appartamento lo scrittore non uscirà psicologicamente mai più, nonostante la polizia lo liberi dalla trappola e Capurro lo scagioni dall'accusa di omicidio, trasformandolo da principale indiziato a testimone di un delitto avvenuto prima che potesse vederlo. Insieme a lui non ne usciranno le tre donne che nell'appartamento ogni settimana in giorni diversi s'incontravano con i rispettivi amanti, succube di un ricatto infame imposto loro per ragioni imperscrutabili dall'anziana e ricchissima ex tenutaria, ritrovata cadavere sotto uno di quei letti su cui consumavano i rapporti sessuali.
Le donne sono il motore e le protagoniste della vicenda. E tutte ruotano intorno al delirio di un pittore di Mantova, Eolo Brandi, trasferitosi a Genova da giovane, bellissimo e gelido, famelico di sesso e concupito dalle puttane dei vicoli, che lo mantengono e lo amano, avendone in cambio il loro ritratto. Ma il pittore non può che ritrarle alla sua maniera, facendole impersonare la donna che il famoso pittore americano Edward Hopper dipinse al tavolino di un locale, mentre è intenta a sorseggiare una tazza di caffè, sullo sfondo di uno specchio nero. Eolo Brandi opera di continuo il remake del quadro di Hopper, cambiandone soltanto il volto della donna.
Iolanda Tonelli, compagna del commissario Capurro, docente di storia dell'arte e psicologa, si approccia così a una di queste variazioni monotematiche, subendone le malefiche suggestioni.:
Solo in quel momento Iolanda si rese conto che il quadro incarnava un'angoscia indefinibile. La donna intenta sulla tazzina di caffè e ombreggiata dalle falde del cappello sarebbe stata uccisa molti anni dopo. L'artista ne aveva prefigurato la morte, cogliendola da giovane nella solitudine dell'ultimo istante. L'arte sfida il tempo, ricreandolo ogni volta e per sempre nello spazio dell'opera. Esiste solo la visione di chi guarda e di chi si lascia guardare in un presente che si rinnova e perpetua senza soluzione di continuità. Eolo Brandi, attraverso Edward Hopper, aveva immortalato la vita e la morte di Morena Greco, facendone una solitaria agonia senza tempo. Quella casa enorme, di cui Iolanda aveva intravisto le ombre buie percorrendola fino alla camera da letto, diventò per lei il sudario della donna del quadro. Il sudario del cadavere che sarebbe stata, aspettando la sua ora, qui e laggiù nella tavola calda di Hopper, fissando una tazzina di caffè che non avrebbe mai bevuto.
Le donne di Hopper sono le ex prostitute che Eolo Brandi ha amato, ritratto e forse ucciso, prima di scomparire nell'ignoto di un mistero senza fine. Figure che incarnano la figura della madre, assassinata mentre il figlio bambino osservava l'immagine di una riproduzione fotografica del dipinto di Hopper, udendone le urla e i rantoli che lo imprigioneranno per sempre a quella visione. Dovrà imparare l'arte della pittura per ripetere quel quadro ed esorcizzare le paure legate al trauma infantile..
...L'immagine di Automat invase la sua psiche ancora fragile e rimase associata all'idea della perdita dell'oggetto d'amore primario. Ne conseguì il senso di solitudine incolmabile che trovò espressione e riscontro nelle opere di Hopper. La sedia vuota all'altro capo del tavolino esprime l'incapacità di relazionarsi con qualcuno che non sia il fantasma materno. La pittura non fu una vera vocazione per Eolo Brandi. Gli offrì la strumentazione tecnica e creativa più idonea ad allestire l'iconografia delle proprie lacerazioni interiori, che gli impedivano di avere una sessualità equilibrata. Fare l'amore con le prostitute era un atto compulsivo e coatto, e s'accompagnava sempre con l'esecuzione del ritratto della partner di turno secondo il solito modulo.
Eolo Brandi aveva bisogno delle donne, la sua sfrenata libido si traduceva in atti compulsivi in cui l'amore e la morte, il desiderio e la repulsione si fondevano in un groviglio inestricabile, che solo la pittura riusciva a dominare nella coazione a ripetere lo stesso modello. Anche Capurro ha bisogno delle sue donne nei momenti di debolezza e di smarrimento. Del conforto della loro intelligenza razionale e sensitiva, e dei preziosi contributi professionali e sentimentali che gli sanno offrire. Oltre a Iolanda, le due figure cardini della sua vita sono Colomba e Liliana, le zie paterne che lo hanno allevato e con le quali convive dalla nascita nello stessa dimora, incastonata in un palazzo signorile di fine Ottocento, alcova dell'essere e del suo sognare a oltranza la vita e i ruoli che vi recitano gli uomini, al pari di attori inconsapevoli. Capurro sa di impersonare il ruolo del commissario. Per questo lo adempie con molta serietà e si cala nei ruoli altrui, rilevandone i reperti dell'anima, ovvero le impronte che le persone rilasciano della propria personalità, le voci che il silenzio raccoglie dopo la morte. ... Il ricorso alle donne a lui più care rivelava un cedimento infantile. Come un bambino che elemosina fiducia e sicurezza nelle figura materna, quando avverte di essere incompreso e isolato dal consorzio sociale.La componente materna innalza la donna allo stato di dea, dispensatrice di grazia, salvezza e protezione. Nel suo seno custodisce il segreto della vita e per questo l'uomo chiede dalle sue labbra il nutrimento della parola, che diviene pane di luce per la mente e il cuore, viatico sentimentale lungo il quale ritrova le ragioni del proprio riscatto. Ma la divinità possiede tutte le facce. Insieme alla madre coesiste la Gorgone,che perverte e impaurisce; l'Erinni, che inocula il germe della vendetta e del rimorso; la puttana, che seduce e tradisce. Tutte queste sfaccettature in una sola donna, replicata quattro volte e dipinta seduta al tavolino di una tavola calda, intenta a fissare una tazzina di caffè nell'enigmatica solitudine dei suoi pensieri.
Le indagini giudiziarie che si dipanano fra ex prostitute assassinate, pittori scomparsi, coppie di amanti clandestini appartenenti all'alta borghesia, adozioni e figli illegittimi, riesumazioni di delitti risalenti all'ultima guerra, sono come trascritte in ombra dallo scrittore che le ha provocate penetrando in quell'appartamento in apparenza deserto. E il romanzo a cui ha messo mano risvegliandosi dalle tenebre del dolore e della depressione porta lo stesso titolo, Le donne di Hopper, mentre lui lo svolge nella finzione letteraria con la parte che gli ho assegnato. Si scopre così il doppiofondo che rivela il trucco del mestiere dello scrittore, equiparabile a un illusionista disposto a spiegare fra le righe e solo a chi ne ha la voglia e l'acume i segreti del suo lavoro. I libri sono figli dei libri e non hanno nulla a che vedere con la realtà, che non esiste di per sé, essendo sempre ed esclusivamente la rappresentazione di chi la percepisce o la crea nell'elaborazione creativa dell'arte.
- Allora a quale scopo mi interroga, se ho già raccontato tutto ai suoi colleghi?
- Lei mi aiuterà a identificare l'assassino di quella donna.
- In che modo? Le mie indagini si risolvono sulla carta e sulla tastiera del PC.
- Chi scrive, affina l'abitudine a osservare e a riflettere. Lei si è introdotto nel luogo del crimine prima di noi, benché ne fosse inconsapevole, e lo ha visitato per ben due volte. Avrà notato senza dubbio qualche particolare che poi ha rimosso.
- Non saprei, può darsi. Mi sforzerò di riportarlo alla luce della coscienza.
- Certo, ma non le chiedo solo questo impegno mnemonico. Non servirebbe. Le cose cadute in oblio di solito riemergono spontaneamente, senza sforzi di volontà. Come scrittore dovrebbe convenirne.
- Chi lo sa, forse ha ragione. Almeno in astratto. Sa, commissario, gli scrittori non sanno granché dell'animo umano. Fanno il loro mestiere come gli viene meglio. Non da meno dei pittori, dei compositori e degli artisti in genere. Può capitare che ne imbrocchino qualcuna giusta e allora si chiamano Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij, Proust, Joyce, Virginia Woolf. E gli altri? Si barcamenano fra artigianato e catena di montaggio.