Le Parole fra Noi
ELEGIE FIANESI
SESTA ELEGIA DI FIANO
ἐπάμεροι· τί δέ τις; τί δ' οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ
ἄνθρωπος. Ἀλλ' ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθη,
λαμπρὸν φέγγος ἔκεστιν ἀνδρῶν
καὶ μείλιχος αἰών.
Πινδάρου Πυθιονίκαις , Η', Ϟεʹ - Ϟζʹ [1]
[1] Pindaro, Pitica VIII, 95-97a: Creature d'un giorno: che cosa qualcuno? che cosa nessuno? Ombra di un sogno / l'uomo. Ma quando un bagliore donato dal dio arriva, / fulgida luce splende sugli uomini / e dolce è la vita.
Chi sa se qui si udirono le grida
delle donne rapite dai Romani,e se salisse su queste colline,
che oggi l'inverno imbianca, l'ululato
che implorava un aiuto, mentre tutta
la campagna, tra il fiume e questi monti,
taceva o ne serbava quasi un cupo
e turbato rimorso. O se il Soratte,
che innevato fu visto da un poeta ,
tra la vetta e le falde degli olivi,
ne udisse come vento giù dal piano
voci di guerra e d'odio sconquassare
le cime dei faggi e delle querce. Forse
d'amore trasformate ormai le voci
nelle case: di mogli, che la pace
impetravano dai fratelli, ai padri
implorando per quei predoni giusta
benedizione, e la consacrazione
di un matrimonio; generi, cognati,
presto diventeranno, quei pastori,
ora selvaggi, padri di nipoti.Ma solo tra le antiche forre, gli alti
bastioni di città murate, il sangue
fu moneta di scambio e di possesso?
Ma con la spada legittimazione
solo tra Volsci, Etruschi e tra Sabini,
si otteneva nei patti? senza legge
le contese per un confine certo,
soltanto tra quest'orde di briganti?
Tempi di stupri e di saccheggi, tempi
di stragi e di rapine, solo queste
antiche storie, quando le pregresse
inimicizie, le saldano i lacci
di un oggi turbolento? Guardo il verde
delle colline, il cielo azzurro sopra
il Soratte. E mi chiedo: siamo tanto
diversi, noi che nuovi ci vantiamo,
solo perché la spada s'è mutata
in un fucile? Due millenni e sette
secoli da quel ratto, ci hanno fatto
migliori? O siamo sempre quegli stessi?
La nostra mano uccide chi resiste
al nostro predominio, si ribella
alla violenza del più forte, nega
sigillo di diritto all'angheria
del più ricco, al sopruso del potente:
ma che dolcezza cambierà la faccia
di chi fa sua la maschera di un ghigno?
Basta sfogliare pagine di storia,
o leggere i poeti, riascoltare
i racconti dei nonni, l'ingiustizia
è la regola, rara la clemenza,
e quasi inesistente, la giustizia.
La vecchia storia si confonde sempre
con la nuova, versato non riscatta
nessuna nefandezza, né dei vinti
né di chi vince, il sangue dei sommersi.
Anche i perdenti compiono misfatti.
Sulla terrazza del Palazzo, a Susa,
capitale di un regno che si estende
dall'Africa all'Eufrate, di un impero
di popoli diversi - ma la scena
fu vista sugli spalti del teatro
di Dióniso, ad Atene - una Regina,
Atossa, trema, in ansia per la vita
del figlio Serse, aspetta il Messaggero
che le rechi notizie dall'Egeo,
dove navi persiane e navi greche
combattono davanti a Salamina,
gli uni per un dominio, gli altri, prima
sempre divisi, questa volta uniti,
perché a tutti sembrava minacciata
la propria libertà, la propria terra.
Il sogno del nemico è sempre un sogno
di rovina: del vinto, com'è giusto,
ma pure di chi vince. La miseria
è la stessa per tutti e due. Si gioca,
dopo il saccheggio, dentro casa, tutta
la spartizione del bottino. Quasi
niente ottiene il soldato del guadagno
che spetta al comandante. I patti
sono patti. Nessuno può cambiarli.
L'incrinatura del palazzo Atossa
la vede spalancarsi e fa crollare
un muro, e crolla insieme, con il muro,
tutto il Palazzo. Il Messaggero arriva,
e Atossa sa che la rovina è certa.
I sogni dei dominatori spesso
si confondono con gli stessi sogni
dei vinti. Gli uni e gli altri, smisurati.
E sempre tra i dominatori, come
tra i vinti, gli sconfitti dalla vita
sono la maggioranza. Tutti quelli
che non hanno più sogni, o che del sogno
hanno in bocca l'amaro del risveglio.
Perché più smisurato, più deluso
sarà sempre del vincitore il sogno.
Ma chi perde, poi smette di sognare.
Penso a me stesso. Penso ai miei ricordi.
Non sono un'eccezione. Né diverso
è il computo dei giorni, giunto ormai
come sono alla soglia del commiato.
Un sogno uguale mi tormenta e, mesto,
mi dissolvo. Mi fosse tutto il mondo,
un sogno che ripeto. O se ripeto
può darsi, non so più se mio o d'altri,
felicità, sventura, un solo sogno:
dal mito, dalla storia, conficcato
nella mia carne, sciolto e diluito
nel mio sangue. Ogni padre un Laio. Edipo,
ogni figlio. L'interprete potrebbe
figurarlo un poeta, un drammaturgo.
Ogni volta è diversa anche la propria
storia, diverso anche il proprio ricordo.
Ciascuno, nei racconti di un poeta,
legge di sé ciò che conosce, e chiama
l'immagine riconosciuta Edipo,
Amleto, Filottete, Ulisse, Werther.
Ma Sokurov, in Padre e figlio, fissa,
di questo interminabile mio sogno,
più che i nebbiosi bordi, l'invernale
congedo. Ripercorro dell'antico
drammaturgo l' intrigo, guardo sopra
le gradinate il pubblico che ascolta:
una Regina aspetta, sugli spalti
del suo Palazzo, ansiosa, sola, insieme
al Coro dei suoi vecchi Consiglieri,
l' esito della guerra che i Persiani
hanno mosso alla Grecia. Sulla scena
d'Atene lo ricordo. E questa notte
un dio selvaggio visita il giardino.
Sento tacere tra le fronde i corvi,
il ticchettio dell'orologio sopra
la porta batte l'ora. Ed io sprofondo
in un'antica lingua, mi ripeto
una per una tutte le parole
che udivo da bambino nella culla.
Quasi da un'altra terra ripescassi
la lingua ch'era mia, l'ombra d'un sogno.
E dunque intanto, come per Atossa,
se una premonizione fu la posta
di una sconfitta, l'oltraggiata sponda
di un sopruso, non fu premonizione
il sogno che mi angoscia, ma violenza
del tempo, anzi certezza del ricordo,
di questa mia memoria che persiste
a enumerare uno per uno tutti
i distacchi, di me, e di tutti gli altri,
da me, l'uno dall'altro, e io da loro.
Ne aspetto, come Atossa, la condanna.
Se guardo a me di fronte la montagna
innevata, ricordo il disincanto,
la nostalgia di Orazio, dell'antico
poeta non avverto, tuttavia,
la stessa quiete, non mi riconosco
la sua serena ma mesta pazienza.
Noi attendiamo, ancora, da molte altre
sponde, altre, più indelebili, rovine.
Il tempo non risparmia per nessuno
dei tanti, forse ormai troppi animali
che calpestano il fondo accidentato
della terra o che nuotano nei fiumi,
s'inabissano in acque senza luce,
o volano tra vette di montagne
solitarie, s'annidano tra i rami
di selve impenetrabili, la vita
non condona, non evita a nessuno
la sua dose di sofferenza, il tempo
per nessuna di queste creature
fa il passo di una sosta, di un perdono.
A tutte, se non altro, è destinata
senz'appello certezza di una fine.
Nient'altro si discerne nel quaderno
della nostra materia. Né si scruta
la contingenza dentro cui si vive,
per altro che per misurarne il cerchio
di ciò che si conosce: aperto e vuoto
spazio, via via più ampio, il territorio
dell'ignoto. Si fa perciò più dura
l'inesistenza dei perduti, e tanto
più crudele l'abbraccio che s'attacca
a un'ombra che non parla. Desiderio
perfino il sogno di udirne la voce,
immaginario il volo degli sguardi
Tirana, 26 febbraio - Fiano Romano, 9 marzo 2018SETTIMA ELEGIA DI FIANO
Petrarca
una notte, un minuto che tuttora
s'attarda nel ricordo, come fosse
invece l'esperienza di un diretto
contatto, il sorridente mai vissuto
ritorno di chi s'ama: Eccomi! Vedi?
Non sono uno scomparso. Sulla riva
di Martha's Vineyard, sul tramonto, cupo
sotto di noi l'Oceano, parlavi
già del nostro commiato, l'imminente
ritorno alla mia casa ch'io vivevo,
in silenzio, come allontanamento
più che da te, da questo tuo parlarmi.
La cameretta in cui tu m'accogliesti
in Via Gallia una notte, era la prima,
e in cui parlammo a lungo di poesia,
la riconobbi poi nell'altra, forse
più nuda, che abitavi nell'estrema
sponda dell'Ovest, quando l'avventura
sembrò per un momento diventare
un progetto di vita. Non sapevo
che saresti fuggito anche dal Golden
Gate Bridge per ritornare all'Est, da solo.
Berkeley non ti bastava. Boston, dove
eri nato, ti fu di nuovo stretta.
E t'era stata stretta Roma, Tutto il mondo,
può darsi, ti sembrava una prigione,
da cui scappare. Senza mai trovare
l'angolo senza sbarre in cui sicuro
finalmente accucciarti. Se qualcuno
fosse stato il tuo angolo, rifugio
t'avrebbero donato le sue braccia.
Ma chi poteva offrirti le sue braccia,
se nemmeno le mie le trattenesti?
L'ultima cosa che di te ho saputo,
è che ti rinchiudesti nell'armadio,
per paura che in quella spoglia stanza
di ospedale qualcuno entrasse a farti
del male. Poi non seppi più nient'altro.
E mi ritorni ormai solo nei sogni,
dai quali non vorrei svegliarmi. Vedo
la tua figura, ascolto la tua voce:
Non dire niente, guarda, invece, questo
giardino dove parlano le pietre.
E tacqui. San Francisco alle tue spalle,
i sentieri di sassi, la visione
fantasticata che sentimmo entrambi
attraversare come una cometa
la nostra mente. Quasi fosse un bacio.
Da quella volta mi fu caro l'ermo
giardino, e cerco la sua traccia in ogni
altro giardino. Il mare in cui m'immersi,
ritornando, sarebbe dolce solo
se naufragando mi riconoscessi
un'altra volta, insieme a te, scomparso.
Ma lo spazio si affolla, e la memoria
s'infittisce: so bene che le pietre
di questi monti, tutt'intorno, i rami
di questi olivi hanno un linguaggio, e vedo
come l'erba bagnata mi sussurri
d'un suo più lento ma costante passo
l'invernale stupore della vita.
Penso che anche laggiù, nel tuo giardino,
cresca un'erba che parla, riconosci
nella sua voce la mia voce, come
io m'immagino qua che tu mi parli.
T'ascolto anche oggi in ogni filo d'erba
che al raggelato soffio del grecale
tenue si piega e penso che del vento
sia tuo respiro l'aria che si muove.
Le querce del tuo bosco, là lontano,
ti portano più forte il mio respiro:
tu lo udrai come vento che le squassa,
vedrai la loro cima tentennare
e ti parrà che un tremito selvaggio
assuma suono di parola, quella
che nessuno di noi apertamente
osava pronunciare nell'orecchio
dell'altro. Ora darei la vita, tutta
la mia vita, per dirtela, e gridarla,
più della vita, per sentirla dire
da te. Ma penso, a volte, se ti sogno,
che non tanto ti dà figura questo
sogno, quanto che mi ritorni solo
perché l'immaginario e inattuato
desiderio di un sogno ti richiama.
Ma non è di quest'ombra che, la notte
in cui mi lasci, chiedo di te qualche
frammento. Il tempo, adesso, mi si stringe
tutto in un solo istante di congedo.
Ogni distacco è una mutilazione.
Non importa se imposto o se subito.
Senza di te, non vivo che una vita
incompiuta. Perché già so ch'è vana
- e lo fu sempre, anche quando sembrava
possibile - qualunque convergenza.
Allora i miei giardini, da qualunque
parte, si fanno un angolo d'incontri.
E sfilano, una dietro l'altra, le ombre
degl'incontrati. Ombra ciascuno, persa
nel paradiso di un irrevocato,
ma ormai irreversibile ricordo.
In disparte, tu solo, a ricordarmi
l'inattinta felicità del giorno,
che fu da tutti e due desiderato,
ma che nessuno volle penetrare.
Fiano Romano, 5 - 9 marzo 2018OTTAVA ELEGIA DI FIANO
in altro modo.
Rosa Luxemburg
nel migrante si specchia la miseria
che crediamo alle spalle, e che costoro,
spudorati, ci sbattono sul muso.
Ma che pensate? Anche voi eravate
come noi siamo adesso, e un'altra volta,
anche voi, come noi, precipitare
potreste in questa nostra inascoltata
miseria! Ricordarla fa soffrire,
e per questo l'avete cancellata
dal libro dei ricordi.Le valigie
di cartone, legate con lo spago,
le borse colme di formaggio e frutta,
i treni in movimento, dopo il fischio,
presi d'assalto, i corridoi zeppi
di stracci, le parlate sconosciute,
il tanfo di sudore e di sporcizia.
Stracariche le navi, come balle
di paglia, tutti gli uomini e le donne
stipati nelle stive, l'occhio perso
del doganiere che non sa capire
nemmeno un nome. Tutto questo, tutta
questa miseria che credete adesso
solo nostra, l'avete cancellata
dalla vostra coscienza? O non funziona,
anche per voi, che il rancido sussulto
della pancia? Non ricordate, come
diverso salga in bocca da una pancia
ch'è piena e come da una pancia vuota?
Vi riempite il cervello della vostra
e nostra differenza, proclamate
per le strade del mondo e per le piazze,
ne attaccate sui muri i manifesti,
la vostra vera identità cristiana,
per voi non negoziabile valore.
Ci ricacciate indietro perciò noi
musulmani. Pagani, primitivi.
E' comodo, però, non farci caso
che nei comandamenti ce n'è uno,
il primo, il più importante, che comanda
l'amore per il prossimo. Lo stesso
che amare Dio, vi dice. Non sapere,
di che comandamento l'obbedienza
vi fa cristiani non è dunque quasi
non essere cristiani?
La campana
batte l'ora per tutti, il minareto
convoca tutti all'ora di preghiera.
Sta qui l'ammanco. E' questa parte dentro
la vostra testa, che vi manca: sotto
la calotta frontale, la Ragione
e l'Emozione sono in voi divise:
è lì che ritrovate la parola
"tutti". V'immaginate, invece, usciti
dalla schiera. Speciali.
Non esiste
"tutti": esistiamo "noi", e tutto il resto
sono gli "altri". Ma dentro questo "noi",
non c'è posto, sappiatelo, per gli "altri".
Fiano Romano, 9 marzo 2018
1 Pindaro, Pitica VIII, 95-97a: Creature d'un giorno: che cosa qualcuno? che cosa nessuno? Ombra di un sogno / l'uomo. Ma quando un bagliore donato dal dio arriva, / fulgida luce splende sugli uomini / e dolce è la vita.