Le Parola fra Noi
DELLA MATERIA AZZURRA
Silvana Baroni, Salvatore Giunta
S'apre l'alveo pigro dell'alba.
Nel biancore a sentinella il silenzio è poggiato a riposo,
un abbandono ai palpiti dell'ombra.
In affaccio sulle dighe del colore, lo spazio si dipana, l'aria è cangiante,
si screpola l'ordine della notte.
Ne resta un bisbiglio nudo nel letto, una brezza di perle sull'inchiostro
delle ciglia.
Dalla materia dei sogni, profili in transito chiedono allo specchio l'odierna conferma.
Un raggio briga tra federe e lenzuola, dà chiarore alla stanza,
sbiadisce una veste china in azzurro.
Volano lancette e impronte digitali via dalla poderosa esperienza.
S'apre il giorno alla materia del viaggio.
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Si scende al porto ch'è l'alba.
Sul molo i primi cenni di convivenza, brandelli di un niente che saluta.
Non altro che onde, lacrime a mistura d'una certezza fonica.
Un rimorchiatore evita gli scogli, aggancia una barca, la spinge al largo
in lento sciabordio d'onde.
Sul molo frenetici fanciulli sollevano polvere.
L'orizzonte è in attesa. Una nuvola di madreperla sbianca le dune di sabbia
e i battelli in riassetto.
Il colpo d'occhio è notevole, si è nell'interfaccia di più mondi.
Tutto grandioso e ineffabile.
Una scala nera di pietra scende a pelo d'acqua, diviene grigia
con pennellate d'improvviso indaco.
Ci si inoltra su un tratto di banchina sommersa a rischio di scivolare
su vortici di piombo, ruggine incrostata, ancore in attesa di ripartire.
Affacciati sull'abisso si torna al rompicapo della diffidenza, al solito
enigma da dipanare.
Un vuoto dinamico, un proliferare d'intuizioni s'inzuppa di memorie,
le alghe ondeggiano nella luce tangente.
Ai primi sobbalzi s'avvitano le pagine di un diario, un cappello plana
sulla trincea di sacchi di sabbia.
Le parole tremano, volteggiano, macerano nell'acqua, divengono linee
di un suono in fuga dal vizio di stesura.
Un gabbiano apre ali pompose al vapore dell'immensità delle acque.
A prua è impagabile essere soli, avere la chiarezza d'essere senza scopo.
Ogni passeggero scopre la sua giara d'olio nell'acqua.
L'orizzonte si avvicina, un mozzo dà secchiate d'acqua sul ponte.
Un lampeggio sul molo fa strada al rientro.
I soliti bevitori salutano come rane,
due vecchi parlano come non esistesse la morte.
Sulla pietra smangiata dalle onde s'inalbera un aquilone,
si scattano foto sorprendenti del suo virare in ologrammi d'aria.
Sulla riva s'accovaccia aria fredda.
All'approdo i corpi aprono le ante, le riaccostano come fossero pagine
a cui tornare.
Il sole è un tuorlo al cappio di una cordicella tesa che lenta si sfilaccia.
E' il rosso naufragio nel gorgo sfrontato del nulla, nel perimetro
di uno sbadiglio.
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E' marzo. Le ali riprendono il volo.
L'aereo rolla friabile oltre il valico delle nubi.
S'allontana il profilo nitido di un'isola.
Più si tace, più si ascolta.
Capricci di fiume sono filmati da un viso scuro dietro i vetri di un oblò.
Rispondono da terra segnali di rastrello, braccia a scuotere frutti,
a ramazzare le foglie.
Sul tavolino si rovescia il bicchiere del gin.
La ragazza chiede alla hostess dove si trova, vuol scendere, è preda
del panico.
Gli aneddoti raccontati in varie lingue tornano a cruciverba in lingua madre.
L'arrivo è una cerniera aperta da mani di ferro.
Si atterra sullo zinco in ponderosa luminosità.
A sinistra s'affannano i decolli, a destra è il ribollire dell'oceano.
L'ultima visione è un bacio temerario sulla sabbia stinta,
avanti allo scroscio del mare.
All'arrivo, un viola uniforme saluta i corpi allineati oltre il plumbeo steccato.
Rassicurati d'aver tutto, si percorre un tratto di tagliente ghiaino,
prima in salita, poi in discesa, per scale.
L'ultimo raggio trema nel vuoto implacabile della clessidra.
L'ora sprofonda nell'incanto di perdita.
L'azzurro è perfetto, chiede al buio di essere colmato.