
UN BLASFEMO
di Alessandra Vitali
A mio padre per Natale ho regalato una cassa da morto. C'è poco da storcere il naso, fare le corna, toccarsi là sotto. Vorrei vedere voi, con vostro padre che vi muore alle 6 del mattino del 24 dicembre. Pacchetti e fiocchetti, luci sull'albero, ghirlanda sulla porta. Mio padre è stato male all'alba del 23 ed è morto all'alba del 24. Tempismo straordinario e inconsapevole. Giorni di panettoni torroni noci e fichi secchi.
Poi dice che uno non digerisce.
C'è da comprare la bara. Le ditte produttrici la chiamano "cofano". Per me il cofano è quello dell'auto. Meglio cassa da morto. Come in un film di Sergio Leone.
Ma questo è solo il necessario presupposto.
L'ultimo viaggio si snoda lungo un itinerario preciso: la A1 Roma-Firenze, uscita Magliano Sabina. Da quelle parti ho una casa, in campagna. Mio padre sarà seppellito nel cimitero di Magliano Sabina. In quel cimitero c'è la tomba, ci sono nonna Palmira e nonno Angelo. E' un luogo di piccoli spazi, lapidi vetuste e foto ovali con le facce di una volta. Tipo uno giovane che é morto "offrendo il fianco al nemico". Un vialetto centrale che ci batte il sole. Le donne lustrano i marmi e si scambiano dritte sul ragù. I cimiteri di Roma sono banlieue. Questo è un cimitero sostenibile. Un camposanto a impatto zero. Aria pulita, sai dove devi andare, ritrovi la strada per uscire. E uscire da un camposanto, per giunta in posizione verticale, è un bel privilegio.
E questo è un altro necessario presupposto.
Da quelle parti, quando muore qualcuno chiami Pagani&Maurizi. Onoranze funebri Pagani&Maurizi, Calvi dell'Umbria, provincia di Terni, frazione Piloni. Mio padre è morto a Roma, ma Pagani&Maurizi si occuparono di mia nonna e ci piacque come andò. Maurizi, non so chi sia. Pagani è Vittorio. Non gli dai un'età, a occhio sta fra i quaranta e i cinquanta. Fa il becchino di mestiere ma non lo dà a vedere, sorride e ostenta un garbo irritante. Abito scuro gessato con panciotto, capelli impomatati. Un becchino, insomma. La postura da cappone, la bassa statura e il marcato accento umbro lo rendono vagamente macchiettistico. Un bassetto.
Ed era l'ultimo, necessario presupposto.
Venticinque dicembre. Pranzo di Natale. Mia madre, zia Lella, io. Sono le tre. Nelle case scatta la tombolata, padri di famiglia tumefatti dal cibo estraggono i numeri con le dita appiccicose di mandarino. Nelle vie del centro, orde di tartari con le otturazioni divelte dal torrone muovono alla conquista di Piazza Navona. Noi saliamo in macchina, direzione Calvi dell'Umbria, frazione Piloni. Si va a scegliere la cassa da morto, Vittorio ci aspetta.
Arriviamo che è buio.
Guido lungo i tornanti che da Otricoli salgono verso Calvi. La Frazione Piloni è lungo la strada ma non si vede. Chiamo Vittorio al cellulare, dice "come vedete uno slargo co' un gruppo de case, ve fermate. C'è scritto Piloni, Pi-lo-ni". Procedo nelle tenebre. Mi interrogo: quante case fanno "gruppo de' case"? Ne supero un paio, no, avrebbe detto "un paio de' case". Tre insieme, no, sarebbe stato "tre case e ve fermate". Lo richiamo. "Ho superato due case, tre case...". Lui spiega: "c'è un Suv nero sul bordo della strada". Un Suv nero sul bordo di una strada buia di campagna è come il mastino dei Baskerville. Puoi sentirne il respiro, intuirne la presenza, prenderlo in pieno. Vederlo, no.
Continuo.
Ecco il cartello, frazione Pi-lo-ni. Sulla destra un "gruppo de' case". Le conto, tanto per farmi un'idea. Due bifamiliari (vale doppio?), un rustico, un'altra costruzione in cemento, un capannone industriale. Il Suv, bho. Lascio la macchina al centro di questa specie di corte illuminata da un unico lampione. Tira una tramontana che ti sposta. Vittorio il bassetto ci viene incontro, strette di mano, buonasera buonasera, ha un mazzo di chiavi, vira verso il capanno.
Apre la porta.
Ora. Se vai a comprare, per dire, un lavandino, un box doccia, una libreria, non è che nel negozio ci trovi tutti i lavandini possibili, tutti i box doccia, tutte le librerie. Si fa che tu gli dici che cosa vuoi, loro ti mostrano un catalogo, sfogli scegli ordini, tempo di consegna un tot. Vittorio apre quella porta. Accende una luce.
Zia Lella guarda dentro e si pietrifica. Anche se già da un po', è vedova pure lei. Nella mia famiglia il tasso di mortalità maschile è del 95%. Quei pochi rimasti, si fanno un sacco di analisi. E, constatato il seppur transeunte buono stato di salute, vengono utilizzati come gli elefanti a Giakarta: rimuovono scatoloni dai soppalchi, caricano valigie nei portabagagli, trasportano scorte di acqua oligominerale a basso contenuto di sodio. Ma anche tengono i contatti con meccanici, carrozzieri e idraulici o accompagnano le orfane all'altare, irretiti da quel "ormai sei tu l'uomo di casa" che ciclicamente si abbatte sull'uno o sull'altro sopravvissuto quando non, per distrazione, su cugini-figli-nipoti neanche adolescenti e ignari della predestinazione.
Dicevamo. Mia madre varca la soglia del capanno. Io la seguo. Zia Lella butta l'occhio dentro e rifiuta l'ostacolo come il cavallo: "Io aspetto qui". Fa freddo, almeno sali in macchina. Non sente. Non più. Stretta nel cappotto bouclé grigio, si allontana nel buio e nel vento come fra l'erica in cerca di Heathcliff.
Madamina, il catalogo è questo. Ma non funziona come per il box doccia, la libreria, il lavandino. Le casse da morto stanno lì, nel capanno, in carne e ossa, tutte in fila. Phuket dopo lo tsunami. La luce al neon conferisce all'insieme la nuance tipica delle labbra degli affogati.
"Allora, qui ci sono varie possibilità", dice il bassetto con ampi gesti delle braccia. "Le differenze sono nella forma, negli accessori, nell'essenza di legno". Essenza di legno? "Dipende dalla spesa, poi ci sono gli accessori, a piacimento". A piacimento di chi?
Frassino, noce, rovere, radica, faggio. Vittorio aspetta un gesto un segno una parola. E sorride, come se fosse il posto giusto per sorridere.
Sento l'esigenza di un criterio in base al quale orientare la scelta. Imploro la ragione affinché me ne fornisca uno qualunque. Il primo che capita. Seguire il gusto personale: ma perché avrei mai dovuto sviluppare un gusto per le casse da morto? Pensare a quale sarebbe stata la scelta di mio padre. E' verosimile che, a parlarne da vivo, fra un gesto apotropaico e un vaffanculo, avrebbe immaginato per sé una cerimonia di commiato dal sapore ancestrale, tinto di ocra e inumato in posizione fetale, adagiato su una zattera in balìa delle onde, lasciato come un capo indiano a decomporsi su una piattaforma.
"Vorrei una cosa essenziale, senza troppi fronz...". La parola fron-zo-li si frantuma fra i denti. Tutte le casse da morto portano segni contrari. Dal barocco al decò, dall'astrattismo al fauve, dal manierismo al bauhaus, ogni tentativo di conferire al feretro dignità artistica degenera nel kitsch, divenendone sciagurata sublimazione.
C'è il modello "Calvario", il fianco della cassa intarsiato con Cristo deposto, il capo devastato dalla corona di spine. Mia madre: "Per carità". C'è la "Padre Pio" con il santo di Pietrelcina scolpito in primo piano e, sullo sfondo, la facciata del santuario di San Giovanni Rotondo, souvenir da gita parocchiale. C'è Wojtyla, qui in versione benedicente. Un'altra cassa sfoggia un vistoso bassorilievo policromo riproducente L'ultima cena, sennò ce n'è una un po' Calvario un po' Pietà, sempre Cristo agonizzante ma con aggiunta di Madonna piangente. La "Londra" ha i bordi del coperchio lavorati a rosoni come una biscottiera, la "Pharaon" non ha alcunché di egizio (e allora, perché?), seguono la "Rugiada" con tralcio di roselline in madreperla iridescente, la "Lago dell'anima" (giuro!) con greca tutt'intorno, la "Infinito" che offre al dolore dei congiunti un rassicurante panorama maldiviano di quelli che piazzi sul desktop nei momenti di sconforto invernale, palma a sinistra, palma a destra, spiaggia e tramonto su mare cristallino, offerte speciali per coppie in viaggio di nozze, formula all inclusive con cocktail di benvenuto.
Mia madre: "Per carità".
Rivolgo al bassetto la domanda delle cento pistole. "Ma quelle casse semplici, scure...". Mi guarda come fossi un coleottero: "Quelle non vanno più". Non vanno? Come un cappotto? "Per quelle non c'è richiesta. Adesso, ad esempio, vanno queste". E indica un windsurf. Nessuno potrebbe negare che trattasi di windsurf. Un parallelepipedo aerodinamico con superficie antisdrucciolo aerografata. Lo sfondo abbraccia tutte le tonalità del bluette e del verde, onde a boccoli scandiscono il perimetro, coppie di delfini guizzano a pelo d'acqua. Sul coperchio, riecco il trionfo maldiviano. Mia madre: "Per carità". Ogni commento è accessorio. Ma il bassetto ne fa uno: "Mbè, so' cose un po' particolari". Lo "mbè" è stizzito. Ho lo sguardo di Winnie the Pooh. Lui scarta verso un'altra parete. "Sennò, ecco, possiamo andare sul classico" dice con sufficienza, Amy Winehouse di fronte a un tailleur Luisa Spagnoli. Il momento è decisivo. Nel vertebrato superiore Vittorio s'è attivata la comunicazione fra le cellule del sistema nervoso. Una cassa da morto noce, massiccia, contorni geometrici, senza fiori corone di spine santi beati vergini e martiri. Mia madre: "Ecco, appunto". Mezzora nella bottega degli orrori, ma adesso è finita.
No.
Come quelli che quando gli muore il cane dicono "se non ce l'hai, non puoi capire", così per portare a casa una cassa da morto: se non ti ci trovi, non ti rendi conto. E' un'architettura che richiede uno sforzo ermeneutico, geometrico, linguistico, formale, metafisico. Deve essere non solo creata, ma anche interpretata. Bisognerebbe provare tutti, così, per curiosità. A comprare una bara, dico.
Tanto, mica si butta.
"Allora, il crocifisso". Sul coperchio ci va un crocifisso. Mia madre: "No, il crocifisso no". Ma sto crocifisso ci va per forza? Il bassetto mi guarda con disprezzo. "E che, non ci volete mettere il crocifisso?". (Ignora, il bassetto, che su quel coperchio, al momento dell'inumazione, verrà adagiata una bandiera rossa con la falce e martello).
Mio padre, ciclicamente e divertendosi molto, mi raccontava un episodio. Anno nonsoquale del Ventennio, Roma, Trastevere, Festa de' Noantri in omaggio alla Madonna del Carmine, vigilia di processione. A piazza Sonnino, venendo dal Ponte Garibaldi, viene piazzato un cartello di benvenuto per i visitatori. Che dice così: "Trastevere Trastevere / brilli di tanta luce / c'è la Madonna e il Duce / che veglian su di te". Il giorno dopo, accanto alle devote rime ne spuntarono altre: "Ce ne fregamo / di tutta questa luce / volémo sta allo scuro / pijàtevela in der culo / Duce Madonna e Re".
"Il crocifisso, certo, come no". Mio padre, che ai funerali non entrava neanche in chiesa. Con le poche energie rimaste imploro "però il più semplice che c'è".
Stavolta facciamo presto. Ormai il neurotrasmettitore è entrato in contatto con la membrana post-sinaptica e il bassetto reagisce agli stimoli. Crocifisso preso. Due barre sottili di ottone, lunghezza media. Le maniglie, poi, per spostare la cassa, è roba facile, minimal, senza sorprese. Mia madre: "Ecco, appunto".
"L'interno, come lo facciamo?".
Porca puttana. L'interno.
Era in agguato la ballerina spagnola. E io non lo sapevo.
Nell'agosto del 1990 andai a Barcellona e dintorni con mia madre, mio padre, alcuni amici. Acquistai una messe di oggetti inutili, fra cui una serie di cartoline illustrate raffiguranti sinuose coppie di danzatori di flamenco, il cui valore aggiunto stava nel fatto che mentre l'abito del ballerino era disegnato, quello della ballerina era in tessuto, incollato sulla cartolina. Gonne larghe e lunghe, rosse, bianche o nere, in nylon e pizzo sintetico.
L'interno sì, ma in che senso? "L'imbottitura". Puramente esornativa, s'intende, mica stai a pensare alla comodità. Lista dei modelli. Gemini, Vela, Plissé. Luna, Sagitta, Colomba. Sirio, Norma, Stella. Nuvole di raso candido variamente acconciate.
Mia madre: "Per carità".
Scusi, c'è solo bianco? Ci mancherebbe. C'è anche giallo avvilito, rosa tormento, grigio angoscia, celeste sconforto, verde cesso. Sbaglia chi pensa che la dignità del trapasso debba essere legata a un'idea di razionalismo. "C'è rosso?". Turbamento nell'aria. "Rosso come?". Come il rosso. "Rosso Valentino". Vittorio esita. Cerco un riferimento culturale più accessibile. "Rosso Ferrari". Ok, si scuote. "Ah, proprio rosso così, eh?". Sì, così. Da una scaffalatura rimuove pacchi di tessuti cellophanati. Spunta un rotolo rosso. Uno solo. Strano, il bassetto stavolta non dice "non c'è richiesta". Lo apre. E' rosso, sì. Ma con i bordi ornati da un raggelante pizzo bianco. La gonna della ballerina spagnola. Mia madre: "Per carità". Questo pizzo lo leviamo, sì? Vittorio sospira, ho il sospetto che cominci ad averne piene le palle. "Devo sentì la sarta. Forse sì. Quand'è il funerale? Dopodomani. Vabbè, in qualche modo facciamo". Mia madre: "Ecco, appunto".
(Zia Lella è ancora là fuori. Credo in fin di vita per ipotermia. Spero volesse essere cremata, acquistare un'urna cineraria sarà di certo meno impegnativo)
Bene. Abbiamo finito.
No.
"Il rosario". Il rosario? "Da intrecciare fra le dita". Stavolta non ho il tempo di riflettere. Mia madre, col vigore dei suoi quarantuno chili, tira fuori tre grammi di fiato e un sussulto di vitalità: "No. Il rosario no. Tuo padre, il rosario? Ma t'immagini... Il rosario, no".
Il bassetto s'arrende. "E allora va bene, abbiamo finito. A posto così". Bene, grazie, poi ci sentiamo per telefono. Fa strada, riapre la porta, usciamo.
Zia Lella è ancora viva.
Si torna a casa.
La cassa da morto è bellissima. Il rosso si vede un sacco.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo
nel giardino incantato lo costrinse a sognare
a ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male
(Fabrizio De Andrè, Un blasfemo
* * *