
SPECIALE 100 ANNI DI PCI
QUESTIONE CATTOLICA E QUESTIONE RELIGIOSA NELLA STORIA DEL PCI
di Gennaro Lopez

La storia del Pci, da Gramsci fino a Berlinguer, è attraversata dalla riflessione sulla "questione cattolica". Gramsci, andando oltre il "tradizionale" anticlericalismo socialista, già nel 1919 vedeva nel neonato partito dei cattolici, il Partito Popolare, il frutto della laicizzazione e del rinnovamento di matrice post-unitaria, che avrebbe potuto contribuire ad una progressiva maturazione del proletariato italiano in direzione di un orizzonte socialista. Nel 1924, ormai in pieno fascismo e col Partito Popolare in piena crisi, egli elaborerà una netta distinzione tra politica vaticana e cattolicesimo politico italiano; e ancora, nel periodo del carcere, dunque nei Quaderni, Gramsci svilupperà un'analisi articolata della Chiesa, della sua gerarchia, delle sue organizzazioni, in particolare dell'Azione Cattolica, considerata come vero e proprio braccio secolare della politica pontificia; egli distingue, inoltre, all'interno del mondo cattolico, tre correnti in lotta per l'egemonia (integralisti, gesuiti, modernisti).

Questa attenzione al mondo cattolico e alle masse popolari che di quel mondo erano parte, determinò un'importante svolta nel partito comunista, con la cosiddetta "politica della mano tesa" (1936-'38), che porterà negli anni successivi a fondamentali sviluppi nel rapporto di collaborazione tra comunisti e cattolici, prima nel CLN, poi nella stesura della Costituzione della Repubblica. Né è da sottovalutare il fenomeno che si sviluppa, all'interno dello stesso mondo cattolico, tra il 1937 e il 1945, quando, con successive, diverse denominazioni (Partito comunista cristiano, Sinistra giovanile cattolica, Movimento dei cattolici comunisti, infine Partito della sinistra cristiana), giovani cattolici come Adriano Ossicini, Franco Rodano, Felice Balbo, Fedele d'Amico, Giorgio Ceriani Sebregondi, Gabriele De Rosa, Mario Motta (alcuni dei quali aderiranno in seguito al Pci), considerano del tutto conciliabili con la fede cattolica gli ideali del comunismo e danno vita a riviste come "Voce operaia" e "Voce del lavoratore".1
Nel secondo dopoguerra, con Togliatti alla guida del partito, la "questione cattolica" assume una valenza politicamente strategica e prelude all'approfondimento di una più complessiva "questione religiosa", che si rivelerà di notevole rilevanza ideale e valoriale. 2 Il V Congresso del Pci (29 dicembre 1945-6 gennaio 1946), la culla del "partito nuovo", si apre con una relazione nella quale i patti lateranensi e il Concordato vengono considerati come soluzione definitiva della "questione romana" ereditata dal Risorgimento: per Togliatti era fondamentale "una giusta definizione dei rapporti tra lo Stato democratico e la Chiesa"; allo stesso tempo, egli considerava la libertà religiosa un fondamento d'una democrazia: il modo in cui questa sarebbe stata regolata dalla Costituzione avrebbe definito le rispettive prerogative della Chiesa e dello Stato. Chiarisce, infatti, Togliatti: "Poiché l'organizzazione della Chiesa continuerà ad avere il proprio centro nel nostro paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo dunque regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso. La nostra posizione è anche a questo proposito conseguentemente democratica. Rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Consideriamo queste libertà come libertà democratiche fondamentali, che devono essere restaurate e difese contro qualunque attentato da qualunque parte venga. Oltre a questo esistono però altre questioni che interessano la Chiesa e sono state regolate col patto del Laterano. Per noi la soluzione data alla questione romana è qualche cosa di definitivo, che ha chiuso e liquidato per sempre un problema. Al patto del Laterano è però indissolubilmente legato il Concordato. Questo è per noi uno strumento di carattere internazionale oltre che nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto se non per intesa bilaterale, salvo violazioni che portino l'una parte o l'altra a denunciarlo".3 Coerentemente con questa impostazione, lo Statuto del Pci approvato dal V Congresso (gennaio 1946) così recitava all'articolo 2: "Possono iscriversi al Partito comunista italiano i cittadini che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età e che - indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche - accettino il programma politico del partito e si impegnino ad operare per realizzarlo".

Queste, dunque, le premesse del voto favorevole espresso dai comunisti all'articolo 7 della Costituzione, che - com'è noto - recepisce sia i Patti lateranensi, sia il Concordato: un articolo fortemente e apertamente richiesto dallo stesso Vaticano. Giova, a questo proposito, un'attenta valutazione del contesto storico: l'esperienza unitaria della lotta antifascista e della Resistenza aveva di per sé creato le condizioni per dare basi democratiche e di massa alla pace religiosa, cambiando dunque il segno della Conciliazione del 1929, che aveva riscosso - occorre ricordarlo - la severa critica di Gramsci. Per Togliatti, accogliere le richieste del Vaticano sull'articolo 7 non rappresentava una concessione o un cedimento, perché nel corso della guerra di liberazione non era mutata solo la posizione della Chiesa, ma anche quella della classe operaia, che per il ruolo svolto nella lotta al fascismo si sentiva legittimata ad operare come nuova classe dirigente, interessata a che fosse "mantenuta e rafforzata l'unità morale e politica della Nazione, sulla base di una esigenza di rinnovamento sociale e politico profondo". Peraltro, il precedente dei positivi rapporti di collaborazione realizzatisi nell'URSS tra Stato e Chiesa ortodossa nel corso della "grande guerra patriottica", consentiva a Togliatti di affermare che "non vi è contrasto fra un regime socialista e la coscienza religiosa di un popolo; [e] non vi è nemmeno contrasto fra un regime socialista e la libertà religiosa della Chiesa".4
Ma il contesto politico era destinato - come sappiamo - a mutare rapidamente e drammaticamente, col manifestarsi della "guerra fredda" e con la scomunica nel 1949 dei cattolici che militavano nel PCI e nel PSI, votavano per essi o ne leggevano la stampa. Va ascritto a merito dei gruppi dirigenti dei due partiti, ma soprattutto di Togliatti e della sua lungimiranza, l'aver saputo disinnescare la mina di una possibile "guerra di religione", facendo della Costituzione il proprio programma fondamentale. Togliatti era fermamente convinto che la guerra fredda avrebbe di per sé comportato una "mondializzazione" dei rapporti politici, destinata a rilanciare l'universalismo della stessa Chiesa cattolica. Questa convinzione - ben più di una felice intuizione - apriva ampie possibilità d'iniziativa destinata alle masse cattoliche e, di riflesso, alle gerarchie vaticane. Tale inedita visione del mondo veniva rafforzata dalla sconvolgente novità rappresentata dagli armamenti atomici, che mutava radicalmente la tradizionale relazione tra politica e guerra (alla von Clausewitz, per intenderci) e imponeva come ineludibile la "lotta per la pace".
Dinanzi al rischio di una catastrofe totale, che avrebbe travolto l'intera civiltà umana, si prospettava la necessità di esplorare la possibilità di dar vita ad "uno schieramento di forze molto diverse le une dalle altre per la loro natura, per il loro carattere sociale e politico, che sarebbe, di fatto, un movimento per la conservazione della civiltà umana, per la conservazione dell'umanità stessa".5 Il primo interlocutore dell'iniziativa del Pci erano "le masse cattoliche" sia per la sensibilità che sul tema della pace le accomunava a comunisti e socialisti, sia per l'influenza che avrebbero potuto esercitare sui vertici della gerarchia ecclesiastica, spingendoli a distaccare la Chiesa dalla logica della guerra fredda. "Tra le masse su cui si fonda il mondo cattolico organizzato e le masse comuniste e socialiste - affermava Togliatti - vi sono oggi molti più punti di contatto che non tra i quadri che le dirigono e soprattutto fra le sommità dei due mondi. Perciò vi è una estesa possibilità di comprensione, di avvicinamento, di accordo e questa è la strada sulla quale noi dobbiamo muoverci, questa è particolarmente la strada sulla quale dobbiamo lavorare noi comunisti italiani, che ci troviamo al centro del mondo cattolico e a cui quindi la storia, le cose stesse, affidano un compito particolare". E ancora: "Noi avanziamo quella dottrina che è stata giustamente presentata come dottrina della possibilità di convivenza e di pacifico sviluppo, e indichiamo quali sono le conseguenze che devono essere ricavate oggi da un'applicazione di questa dottrina nel campo dei rapporti interni di un solo Stato. Tendiamo cioè alla comprensione reciproca, tale soprattutto che permetta di scorgere che esiste oggi un compito di salvezza della civiltà, nel quale il mondo comunista e il mondo cattolico possono avere gli stessi obiettivi e collaborare per raggiungerli". Uno degli esiti di questo orientamento togliattiano va individuato nell'adesione al Pci di intellettuali e quadri di formazione cattolica: tra il 1951 e il 1952, oltre al già citato Franco Rodano, Marisa Cinciari, Luciano Barca, Antonio Tatò; tra il 1955 e il 1959 ex democristiani come Mario Melloni, Ugo Bartesaghi, Giuseppe Chiarante, Lucio Magri, Umberto Zappulli, Ugo Baduel; altri cattolici scelsero di fiancheggiare pubblicamente il Pci: fu il caso, ad esempio, di Guido Miglioli, Pio Montesi, Ada Alessandrini, promotori del "Movimento cristiano per la pace"; altri ancora militarono nella formazione dei "Partigiani della pace", con la quale dialogarono anche Igino Giordani e don Primo Mazzolari.6
L'elaborazione politica togliattiana portava di per sé ad una revisione della concezione marxiana del "fatto religioso", come sancirono le Tesi approvate dal X Congresso (dicembre 1962), nelle quali si affermava: "Si tratta di comprendere come l'aspirazione a una società socialista non solo possa farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare uno stimolo in una sofferta coscienza religiosa posta dinanzi ai drammatici problemi del mondo contemporaneo". Ancora una volta, è bene porre attenzione al contesto storico: il Concilio Vaticano II era in pieno svolgimento; la crisi originata dalla installazione dei missili sovietici a Cuba era stata appena superata e prendeva piede un rilancio della distensione; erano gli anni di Papa Giovanni XXIII, di Kennedy e di Kruscev, che impersonavano le speranze di pace e di progresso dell'umanità. Ma erano anche gli anni della guerra del Vietnam, della rottura fra l'URSS e la Cina, che Togliatti viveva con crescente apprensione.7
Il punto più alto della riflessione togliattiana su questione cattolica e questione religiosa si può senz'altro individuare nel discorso che egli tenne Bergamo (la città di Papa Roncalli!) il 20 marzo 1963, un mese prima della pubblicazione dell'enciclica Pacem in terris, con la quale veniva di fatto superata la scomunica del 1949 e si apriva la strada alla collaborazione fra credenti e non credenti per comuni obiettivi di difesa della pace e di valorizzazione della persona umana. Il discorso di Togliatti, passato alla storia col titolo Il destino dell'uomo, venne pubblicato su "Rinascita" il 30 marzo 1963.

Sul piano politico la novità più significativa del discorso stava nell'impostazione del dialogo fra comunisti e cattolici come tema della politica mondiale, non più solo o eminentemente italiano. Inoltre, la revisione del pensiero politico moderno sul problema della guerra, la riconsiderazione e rivalutazione del fenomeno religioso, la percezione dell'inedita struttura del mondo postbellico, fornivano un formidabile apparato teorico all'elaborazione politica. Aggiornando un pensiero già avanzato nell'immediato dopoguerra, Togliatti individuava nella condizione atomica e nell'interdipendenza politica sviluppatasi nel mondo bipolare non solo la necessità, ma anche la possibilità nuova di fare della pace il bene supremo per tutte le correnti politiche, ideali e religiose dell'umanità: la priorità assoluta della politica mondiale rispetto a qualunque altro interesse di parte, nazionale, di classe o di campo. Per la prima volta nella storia, affermava Togliatti, l'umanità poteva "suicidarsi" e questo mutava definitivamente la correlazione fra la politica e la guerra, nonché la natura stessa della politica, non più riducibile alla coppia amico-nemico. Ciò poneva a tutte le correnti del pensiero contemporaneo, a tutti gli individui e a tutti i gruppi sociali, ai popoli, alle religioni, alle nazioni e agli Stati la necessità di ripensare le basi del loro agire e di assumere come nuovo paradigma "la coscienza della comune natura umana": "L'uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L'uomo può uccidere, può annientare l'umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L'uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto. E una dimensione nuova acquista, di conseguenza, tutta la problematica dei rapporti tra gli uomini, le loro organizzazioni e gli Stati, in cui queste trovano il culmine. La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata. Diventa il possibile suicidio di tutti, di tutti gli esseri umani e di tutta la loro civiltà. E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l'uomo non vuole annientare se stesso. Ma riconoscere questa necessità non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova".8
L'interlocutore privilegiato di questo discorso era la Chiesa cattolica che, con il Concilio Vaticano II, aveva messo fine all'"età di Costantino" (l'identificazione tra mondo occidentale e mondo cattolico): costruire l'unità del genere umano secondo il paradigma dell'interdipendenza significava realizzare una piena solidarietà non solo fra i credenti delle diverse religioni, ma anche fra credenti e non credenti, di cui in ultima istanza si componevano le moltitudini umane. E in questo compito la "potenza motrice" in campo religioso poteva essere la Chiesa conciliare e il punto d'avvio del processo era individuato nell'"incontro" fra comunisti e cattolici. L'obiettivo che Togliatti poneva andava, comunque, oltre la contingenza storica poiché egli proponeva di "studiare se e in qual modo, di fronte alla rivoluzione del tempo presente e alle prospettive di avvenire, [fossero] possibili una comprensione reciproca, un reciproco riconoscimento di valori e quindi una intesa e anche un accordo per raggiungere fini che siano comuni in quanto siano necessari, indispensabili, per tutta l'umanità".
Il "reciproco riconoscimento di valori" fra comunisti e cattolici era ora possibile perché i primi avevano superato la visione "illuministica" della religione come forma di coscienza transeunte, destinata ad essere superata o travolta dagli sviluppi della modernità: "Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, noi non accettiamo più la concezione, ingenua ed errata, che basterebbero l'estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali. Questa concezione, derivante dall'illuminismo settecentesco e dal materialismo dell'Ottocento, non ha retto alla prova della storia. Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa. Anche da queste constatazioni noi ricaviamo la necessità della reciproca, profonda comprensione e quindi della collaborazione". Ci troviamo, dunque, da un punto di vista teorico, in presenza di un inedito sviluppo del pensiero marxista: la concezione materialistica della storia non si riduce alla teoria della lotta di classe e si apre a nuovi sviluppi, derivanti dai mutamenti della struttura del mondo e della condizione umana: spetterà al movimento operaio far sì che un'umanità ingiusta, precaria, esposta a prospettive catastrofiche, si avvii verso un'unificazione reale, aperta al futuro e solidale. L'orizzonte del socialismo non si esauriva, pertanto, nei modelli di società fino allora realizzati in suo nome, e la "fede"9 che guidava i suoi militanti era concepita come "una completa religione dell'uomo": concetti che, non a caso, torneranno nel documento che può considerarsi un vero e proprio "testamento politico" di Togliatti: il Memoriale di Yalta.

Alla morte di Togliatti (21 agosto 1964) il solco era ormai tracciato e i successori del "Migliore" si mossero nella stessa direzione. Introducendo l'XI Congresso del partito (25-31 gennaio 1966), Luigi Longo affermava che il Pci era per uno Stato laico, che garantisse a tutti libertà religiosa e di coscienza; nel dibattito, fu soprattutto Pietro Ingrao a caldeggiare l'apertura nei confronti dei cattolici.10 Giova altresì ricordare che in quello stesso inizio d'anno 1966 veniva pubblicato il fortunato volume di Giulio Girardi su Marxismo e cristianesimo. Nel periodo della segreteria Longo è da segnalare un episodio particolarmente significativo: quando Paolo VI pubblicò l'enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967), la direzione del Pci dedicò una sua apposita riunione all'esame di quel testo. Giancarlo Pajetta, introducendo i lavori, sostenne che si trattava di un "documento politico", il quale rappresentava un "momento di autonomia rispetto alle forze sociali con cui la Chiesa in questo periodo è stata collegata. Più che per il passato, inoltre, la Chiesa sente gli impulsi che vengono dal basso". La valutazione positiva continuava: "Siamo molto più avanti rispetto alla politica socialdemocratica tra le due guerre", affermò Pajetta, invitando a dare "la massima attenzione" all'enciclica, nella quale si coglieva con soddisfazione l'assenza di argomentazioni anticomuniste. Le proposte contenute nella Populorum progressio venivano definite "fortemente riformiste e empiriche". Nella discussione intervennero, tra gli altri, anche Alessandro Natta, Giorgio Napolitano, Pietro Ingrao, Emilio Sereni. Quest'ultimo, cogliendo la novità del testo, osservò:
"Quel che è assolutamente nuovo, anche rispetto a Giovanni XXIII, è il linguaggio. È il linguaggio della nuova sociologia francese, in gran parte di estrazione americana. Non più linguaggio religioso, ma linguaggio da organizzazione politica. C'è il tentativo di presentarsi come i portatori di una ideologia egemonica per il terzo mondo e i paesi di capitalismo avanzato, diverso da quello di Giovanni XXIII teso a sottolineare il momento del dialogo con il mondo socialista. Resta però che la capacità liberatrice di questa enciclica, per le forze cattoliche, è molto grande. È la prima volta che assistiamo a una critica strutturale del capitalismo e del sistema fondato sul profitto. Di conseguenza anche la limitatezza delle soluzioni proposte acquista un significato diverso".11

Negli "anni di Berlinguer", nel corso dei quali cresce l'influenza di una personalità come quella di Franco Rodano, si assiste ad un intensificarsi del confronto e del dialogo fra comunisti e cattolici. Del resto, la stessa strategia del "compromesso storico" non può non essere messa in relazione anche con questi orientamenti. Tra il 1976 e il 1977 appare significativo uno scambio epistolare tra Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, ed Enrico Berlinguer, segretario del Pci. Le elezioni del 20 giugno 1976 avevano segnato un notevole successo per le liste comuniste, nelle quali erano stati inseriti, come "indipendenti", cattolici autorevoli come Paolo Brezzi, Mario Gozzini, Raniero La Valle, Piero Pratesi, Angelo Romanò, Massimo Toschi, Tullio Vinai. Proprio a seguito di quella vicenda elettorale, Monsignor Bettazzi aveva rivolto domande stringenti a Berlinguer circa la concezione della società a cui il Pci guardava. Nell'ottobre 1977 il segretario del Pci rispondeva in questi termini: "Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società 'cristiana' o uno Stato 'cristiano': e non già perché siamo anticristiani ma solo perché sarebbero anch'essi una società o uno Stato 'ideologici', integralisti".12
L'enfasi posta da Berlinguer sulla laicità della politica e dello Stato era motivata dalla necessità di marcare le distanze dal cosiddetto "socialismo reale", piuttosto che dalla situazione italiana, nella quale la laicità della politica e dello Stato è sancita dalla Costituzione, da quella Carta fondamentale che lo stesso Pci aveva contribuito ad elaborare: ad essa il Partito comunista si era rifatto costantemente sia nelle lotte contro il clericalismo, molto vive negli anni Cinquanta, sia nell'assumerla come vademecum sulla via di una democrazia progressiva.
Per concludere, il modo in cui, lungo la storia del Pci, "questione cattolica" e "questione religiosa" furono affrontate, producendo analisi ed elaborazioni di tale spessore da dare senso e sostanza ad una strategia politica, potrebbe ancora oggi insegnarci molto, se non altro su un piano metodologico, nella necessaria ricerca, tuttora aperta, di un socialismo per il XXI secolo.
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1Cfr. C.F. Casula, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana (1938-1945), Il Mulino, Bologna 1976, passim.; F. Malgeri, La sinistra cristiana (1937-1945), Morcelliana, Brescia 1982, passim.
2Hic et infra, cfr. G. Vacca, Religione e politica: l'esperienza storica del PCI, in "Italianieuropei", 4/2006.
3 P. Togliatti, Rapporto al V Congresso del Partito comunista italiano, in L. Gruppi (a cura di), Opere, Editori Riuniti, Roma 1984, vol. V, pp. 210-211.
4 P. Togliatti, Sull'articolo 7 della Costituzione, in Id., Discorsi Parlamentari, Edizione della Camera dei Deputati, Roma 1984, vol. I, pp. 88-91.
5 Hic et infra P. Togliatti, Per un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana, intervento alla riunione del Comitato centrale del PCI del 2 aprile 1954, ora in Id., Opere, cit., vol. VI, pp. 833-841.
6 Cfr. D. Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai nostri giorni, Laterza, Roma-Bari 2011, passim.
7 G. Vacca, Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991, v. il capitolo finale L'Ultimo Togliatti.
8 Hic et infra, P. Togliatti, Il destino dell'uomo, in Opere, cit., vol. VI.
9 L'uso del termine "fede" in riferimento all'adesione agli ideali del socialismo, considerando il socialismo stesso alla stregua di una religio, meriterebbe un'apposita e autonoma trattazione, che per ovvie ragioni non può essere ospitata in questo scritto.
10 Cfr. XI Congresso del Partito comunista italiano: atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1966.
11 Fondazione Gramsci, Archivio del Pci, Direzione, Verbali, riunione del 5 aprile 1967.
12 In «Rinascita», 14 ottobre 1977, p. 5.