QUEL CHE HA DA DIRE

LA COMMEDIA

PER LA LETTERATURA DEL TERZO MILLENNIO

di Marcello Carlino

Tutto comincia, io penso, da un patente anacronismo, i cui esiti sono da considerare, però, tutt'affatto commendevoli, virtuosi.

Non v'è dubbio che l'idealità politica di Dante tragga i suoi contenuti da una laudatio temporis acti e da una congruente voltura mitica delle passate evenienze storiche. La postulazione dell'impero, come forma di organizzazione e di governo della cosa pubblica, risolutiva delle contraddizioni in essere e latrice di una potenziale palingenesi, appare alla lettera reazionaria. Il ritorno ad un modello centralistico normato nella latinità e legato ad un momento apicale, che la tradizione - quella di committenza dei vincitori - ha ritenuto di particolare splendore, è fuori tempo, al dunque, quando in età trecentesca la dialettica di economia e società, con le prime configurazioni di una nuova classe sociale emergente, viene indicando una direzione opposta, verso una frammentazione delle realtà statuali consentanea alle pianificazioni, alle iniziative e al campo d'azione delle cosiddette libere imprese, dietro garanzia del capitale finanziario. Senza poi contare che il giusto principio della separazione dei poteri tra papato e impero - che Dante ha il merito di sostenere con grande energia, supponendola imprescindibile, giudicandola una condizione fondativa sine qua non -, una separazione preordinata ad una funzionalità migliore della vita associata, sarebbe stata destinata ad incontrare non pochi ostacoli nelle singole politiche dinastiche, negli appetiti delle famiglie feudali, nelle infestanti e opache collusioni tra i diversi potentati laici e religiosi, nella instabilità divenuta regola e nei conflitti armati allora in pieno corso, non poco virulenti.

Nondimeno - e questo non è né il primo né l'unico caso lungo la storia della cultura - l'anacronismo, d'orientamento reazionario in un quadro di ideologia e di teoria politica, allorché traslato sul piano specifico (e specificamente politico) della progettazione e della scrittura della Commedia, si ribalta completamente, favorendo una spiccata propensione verso il nuovo dei generi e delle forme, un nuovo che sarebbe ottimo pervenisse a risveglio, così da prestarsi da suggeritore alla letteratura da farsi nel nostro presente. Ad una tale retrogradazione anacronistica, cioè, va fatta risalire la motivazione di una doppia impronta del poema dantesco: la polemica che esso pronuncia, spinta fino alla critica radicale delle istituzioni civili e religiose e dei loro rappresentanti, nonché capace di un'indignata e rabbiosa accusa ai detentori del potere (i quali tradiscono il disegno di redenzione dell'uomo voluto da Dio) e di una denuncia severa dei fomentatori delle lotte delle fazioni contrapposte, con il collegato di una disposizione satirica che se ne sprigiona (Dossi amava definire il capolavoro di Dante la "Divina Satira"), e congiuntamente, in sinergia, la carica visionaria e la prospezione utopica, compagne necessarie del racconto di un itinerarium in deum, di un viaggio escatologico della mente, ad inseguire il sogno di una realtà umana restituita alla pace e alla piena corrispondenza con l'ordine e la provvidenza divini, un percorso non spaiabile da una conoscenza totalizzante, dal supporto di una pienezza enciclopedica, da quel volersi opera-mondo che è una nota peculiare della Commedia.

Un mix di satira e di utopia, di impegno puntuto e irriverente nella contemporaneità - in cui appare doveroso immergersi e sporcarsi - e di delineazione tendenziale e proiettiva di una possibilità altra di futuro - avendosi a premessa una demistificazione del qui ed ora -, resta cosa da auspicare oggi, a scanso delle inutili pagine esangui e corrive e arrese, se non strumentalmente confezionate per il profitto, che affollano gli odierni libri da mercato (pressoché la sola letteratura in distribuzione); e l'esemplarità potenziale della Commedia risiede, allo stesso titolo, nel carattere della molteplicità che le è proprio e che Calvino enucleava nelle Lezioni americane, quale tipologia definitoria di una rimarchevole tendenza di strutturazione del testo letterario, da riproporre per l'avvenire.

Un'opera-mondo, che contiene le tantissime carte di una sterminata biblioteca, comporta infatti un superamento dei confini dei generi di discorso e, su questa trafila, una esplorazione degli ambiti e dei livelli del sapere, una sperimentazione delle forme di conoscenza e di rappresentazione che danno facoltà di rimettere in moto il pensiero; in ciò, notoriamente, la Commedia ha pochissimi rivali. La sua multiculturalità, il suo transito dalla poesia al racconto, il suo affaccio dal poema sulle forme germinali del romanzo, la polifonia di base alla gestione del sistema attanziale, la stessa modulazione del rapporto osmotico tra cultura classica e cultura cristiana valgono da attestati di una stupefacente molteplicità; né l'enciclopedismo che pervade la scrittura e la sostanzia rimane blindato nella logica del "chiudere", tipicamente medievale, improntata alla filosofia tomistica: come suggeriscono la processualità del viaggio e la sua scansione attraverso la sequela delle similitudini e la filiera di terzine e terza rima, che hanno valenza marcatamente narrativa, sono frequenti e notevoli le aperture associative, le fissurazioni analettiche e prolettiche, i cambi di postura tra il poeta personaggio e il poeta in veste di autore, gli sfasamenti dei tempi delle persone narranti tra un resoconto che la finzione figura in presenza e il racconto "da lontano". Anzi, una delle lezioni che è utile ricavare dall'opera dantesca consiste nella dialettica tra forme chiuse e forme aperte, la stessa che ha innervato nell'ultimo scorcio del Novecento e tuttora continua a connotare, in Italia, alcune esperienze letterarie d'avanguardia.

Ma Calvino, fra le proposte a futura memoria, lasciate in eredità per il terzo millennio, e trascritte nel libro postumo delle sue conferenze statunitensi, presenta quanto meno altre tre modalità i cui usi trovano ampio riscontro (nei passi calviniani non mancano, in proposito, alcuni cenni) in Dante. Una è la leggerezza, un'altra è il peso, la terza è la visibilità.

Non abbiamo spazio per portare prove, tutte ugualmente suggestive. Ricordiamo, però, che la leggerezza è affidata per lo più agli scorci di talune similitudini, in particolare quando i figuranti sono di specie animale, segnatamente uccelli, o ai paesaggi purgatoriali che si aprono sull'orizzonte prendendo tinte-pastello, o alle incursioni - accompagnate da luci balenanti - di corpi mobili (la rapidità è un aspetto ulteriore di alcune scene dell'opera), o ai movimenti di danza delle figure-ninfe nell'eden e poi delle sfere celesti nell'ultimo regno ultraterreno.

Il peso è soprattutto misurato dall'invadenza dei corpi, dal loro sfinimento per il caldo o per il gelo, dal loro smembramento sanguinolento, dalla loro esposizione a stati morbosi: una consistenza materiale avvalorata da sonorità aspre, graffianti, vischiose quali quelle che riempiono il luogo di "eterna piova" e di fango presidiato da Cerbero nel VI dell'Inferno, o quelle che musicano la nominazione dei diavoli e le loro risse, o quelle che rimbombano nei cantieri notturni dell'Arzanà dentro la straordinaria similitudine del XXI della prima cantica (e, a differenza dagli incipit di canto gregoriano, che funge da colonna sonora nel Purgatorio e nel Paradiso, una partitura fitta di dissonanze, screziata di rumori, è quella che si ascolta lungo le balze infernali). Quanto alla visibilità, infine, chi più ne ha più ne metta; trasudano visibilità le tante allegorie, che fanno trama e fanno discorso (un necessario discorso per gli occhi, che appare una strepitosa transcodificazione di un ciclo di pitture a fresco); e poi c'è la teatralità che si ravvisa in ogni dove: nei finali dei canti (come atti su cui cala il sipario), nei coups de théâtre, nei movimenti di scena, nell'alternanza tra dialoghi e monologhi, nelle pose assegnate alle ombre in ragione delle pene eterne e delle penitenze, nelle macchine teatrali quali appaiono esemplarmente il Veglio di Creta e Lucifero, negli assembramenti in cortei o in ribollenti brulichii carnali di contro al tutto tondo dei primattori chiamati per assoli sulla ribalta. È certo che la Commedia può leggersi come uno specimen di poesia totale, realizzata sulla base di un intreccio e di una interferenza di linguaggi e di codici, un prototipo di quella intermedialità che, per chi ha a cuore le potenzialità comunicative ed espressive del testo, si pone come un tratto irrinunciabile di teoria e di prassi, di metodo e di strumentazione artistico-letterari nella nostra modernità.

Infine, la lingua e lo stile rivestono un ruolo determinante, che a nessuno è dato sottacere. A prescindere dalla considerazione che Dante ha composto con la sua opera in volgare un vocabolario dell'italiano che in larghissima parte tuttora abbiamo in uso, la varietà pressoché senza limiti dei gerghi e dei linguaggi tecnici, il riporto del latino e dei latinismi, gli stranierismi, le mescidazioni linguistiche, le importazioni idiomatiche, i neologismi e poi, in funzione dello stile, gli accostamenti e le frizioni tra il tragico e il comico, o il patetico e l'orroroso, o l'alto e il basso materiale, o l'aulico e il prosaico, o il sublime e il plebeo, o l'astratto delle elaborazioni del pensiero e il concreto dell'esperienza comune, o l'asseverato delle citazioni e gli sprazzi perfino nonsensici, questa ricchezza inesauribile di usi della scrittura determina quell'impasto plurilinguistico alle cui motivazioni e ai cui effetti tanto dobbiamo e che sarebbe gravissimo escludere, nella letteratura e altrove, dal nostro orizzonte d'attesa.

Non soltanto fa capo al plurilinguismo, infatti, una linea di tendenza, confluente con l'espressionismo (con venature comico-realistiche), che ha segnato le opere più significative del Novecento, tuttora lontane - noi riteniamo - dall'essere pervenute a scadenza; al plurilinguismo inoltre, sostenuto nel caso della Commedia da una multiculturalità vivacissima e da un flusso prosodico disponibile per un'esplorazione diramata di valori di significato, si congiunge la ricerca di un accrescimento polisemico e di una progettualità e di una intenzione di conoscenza che si offrono nel loro insieme come un vitale work in progress che chiede intelligenza, che muove pensiero e lo vuole critico, che invita chi legge ad una partecipazione attiva.

E la vera letteratura non è senza polisenso, senza una specifica politica della presenza nella storia e della conoscenza. Né ora né mai.

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