
SPECIALE 100 ANNI DI PCI
LA QUESTIONE AGRARIA NELLA NASCITA E NELLA POLITICA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO
di Agostino Bagnato

In memoria di Pio La Torre
Non posso ritrar di tutti a pieno
Però che sÍ mi caccia il lungo tema
Che molte volte al fatto il dir vien meno.
Dante, Inferno IV, 145-147
QUADRO GENERALE
L'incidenza delle lotte contadine non è stata secondaria tra le ragioni che hanno portato alla scissione di Livorno al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano e alla nascita del Partito Comunista d'Italia. Era il 19 gennaio 1921 e da quella data le vicende del movimento operaio e contadino non sono state più le stesse. Lo sbocco da dare alle lotte operaie nelle fabbriche dell'Italia settentrionale e del vasto fronte di lotta delle masse contadine nella Pianura Padana e nell'Italia centro meridionale aveva subito una svolta dopo il successo della Rivoluzione d'ottobre. Anche in Italia sembrava possibile una conclusione rivoluzionaria allo sconvolgimento provocato dalla Grande guerra. Ma quel fronte, che aveva assunto i caratteri di una vera e propria lotta di classe, diretto dal Partito Socialista Italiano nelle sue diverse componenti, ovvero l'ala maggioritaria di formazione riformista e quella rivoluzionaria, vicina alla dottrina di Lenin sulla dittatura del proletariato, non era l'unico nelle campagne italiane. Questa diversità di ispirazioni ideali e politiche e culturali in Italia trovava un elemento aggiuntivo non secondario nelle posizioni del mondo cattolico e nella organizzazione dei contadini verso sbocchi sociali tradizionali, basati sull'intesa tra capitale e lavoro.
Il mondo rurale di ispirazione cattolica aveva creato strutture parallele a quelle delle Leghe braccianti e delle cooperative agricole, tessendo una vastissima rete di relazioni che confluivano in programmi di riforma agraria basati sulla proprietà coltivatrice e quindi sulla divisione delle terre tra i contadini. Proposta allettante anche per molti socialisti. Mancava una proposta unitaria e pertanto appariva difficile ottenere una svolta rivoluzionaria alle lotte per la riforma agraria e per il miglioramento generale delle condizioni di vita dei contadini, in contrasto con il mondo cattolico. Ma i dirigenti socialisti che avevano trovato un aggancio nella Terza internazionale comunista, guidata da Lenin, ritenevano che fosse giunto il momento di forzare la situazione a vantaggio dei proponimenti più radicali, al Nord e nel Centro Sud. A nulla sono valsi i tentativi di mediazione. Le posizioni rimasero ferme al punto di partenza.
L'ANTEFATTO
Ma da dove si era partiti? E come era stato possibile creare un movimento nelle campagne italiane che soffrivano di arretratezza e di scarso livello politico e culturale? Il lungo e lento lavoro tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento aveva portato a una inaspettata crescita del movimento di classe, grazie alla predicazione coraggiosa e generosa e tanti dirigenti, quasi sempre provenienti dalle professioni e dall'insegnamento.
Così, nel 1921 l'Italia, sconvolta da scontri sociali e di classe prevalentemente nelle fabbriche del Nord, vide coinvolte anche le campagne con un vasto fronte originale per caratteri e rivendicazioni. Il proletariato agricolo rivendicava miglioramenti contrattuali importanti e mutamenti della condizione di vita; i mezzadri chiedevano la revisione del riparto dei prodotti, a quel tempo a vantaggio dell'impresa agraria capitalistica; i coloni e i contadini meridionali pretendevano la terra promessa sulle trincee del Carso e occupavano le terre demaniali, quelle pubbliche e il latifondo, quest'ultimo quasi sempre usurpato dai galantuomini dopo le leggi dell'Italia unita per l'abolizione della mano morta e la liquidazione dei beni dell'Asse ecclesiastico.
Alla testa delle lotte agrarie erano le Leghe braccianti, le cooperative agricole, le società di mutuo soccorso guidate da socialisti sia rivoluzionari che riformisti, da repubblicani e da residuali forze anarchiche. Le Leghe braccianti inizialmente avevano il principale obiettivo di regolare il lavoro di migliaia di soci nei centri agricoli della Pianura padana, contrattando con la parte padronale salari e orario di lavoro. Le cooperative agricole avevano come scopo, oltre alla contrattazione, anche l'esecuzione di lavori agricoli, in particolare nelle opere di bonifica nelle Valli di Comacchio. Leggendario è rimasto l'episodio della bonifica di Ostia e Maccarese, nell'Agro romano, da parte della Cooperativa Muratori e Braccianti di Ravenna che, nel 1894 fece confluire a Roma, sotto la guida di Nullo Baldini e di Armando Armuzzi, circa cinquecento persone tra scariolanti, badilanti, contadini e le loro famiglie. Quei lavoratori si sono successivamente insediati sulle terre di Isola Sacra da loro bonificate, a Ostia Antica, costituendo un esempio di piccola imprenditoria agricola. Altro punto nevralgico delle rivendicazioni agricole era la Toscana, dove lo storico e forte insediamento mezzadrile costituiva un raro caso di co-imprenditorialità tra padroni e contadini. Le rivendicazioni riguardavano il riparto del prodotto stagionale, ma anche il controllo degli investimenti che era in mano agli agrari. Anche in Umbria e nelle Marche la situazione era analoga. Al contrario, le vaste proprietà nobiliari nell'Italia centrale e meridionale, eredità dell'ordinamento agrario pontificio e della baronia spagnola e borbonica, vedevano folle di contadini poveri assoggettati a contratti medievali, mentre il pascolo arricchiva la proprietà assenteista e parassitaria. La transumanza di pecore, cavalli e pastori dalle montagne dell'Italia centrale alle pianure della Campagna romana e delle Puglie, è ancora oggi un topos nella cultura popolare. Socialisti e mazziniani dettero l'assalto al latifondo e alle terre incolte e mal coltivate, con lo scopo di ottenere non tanto l'esproprio quanto la distribuzione contrattuale alle cooperative che a loro volto avrebbero assegnato a rotazione le svariate particelle, in media di un ettaro ciascuna. Altro punto di lotta erano le terre pubbliche e private, gravate da uso civico, residuo dell'ordinamento feudale: tra usurpazioni e malversazioni, la borghesia urbana tendeva ad abolire quegli antichi usi che, per molte popolazioni costituivano la sopravvivenza. La creazione delle associazioni e delle Università agrarie aveva lo scopo di ottenere l'abolizione degli usi civici attraverso un compenso in appezzamenti di terra da coltivare da parte dei cittadini. In particolare le Università agrarie si distinsero per combattività anche sul piano legale, ottenendo risultati importanti: le popolazioni rurali ottennero di coltivare la terra, prima a rotazione triennale e successivamente in assegnazione enfiteutica. Era un notevole passo in avanti sulla strada della parola d'ordina "La terra a chi la lavora!" Ancora oggi, a distanza di centocinquanta anni, esistono Università agrarie che gestiscono grandi patrimoni rimasti collettivi. Le cooperative e le altre strutture di gestione agraria non avevano strumenti di sostegno finanziario per avviare sostanziali opere di miglioramento produttivo. Il credito agrario che Luzzatti e Giolitti avevano introdotto nell'ordinamento bancario italiano escludeva inizialmente in pratica le associazioni di base.

Nell'Italia settentrionale, a cavallo del XX secolo, epicentro dello scontro di classe era la Pianura padana, nel quadrilatero Bologna, Modena, Ferrara, Ravenna. Le campagne erano costantemente sconvolte da scioperi che mettevano in difficoltà gli agrari, ma non sempre riuscivano a piegarli perché questi ultimi potevano contare sul sostegno delle autorità civili e militari. Gli agrari erano inoltre dotati di una potente organizzazione economico-sociale, a partire dalle Banche di credito cooperativo sorte su iniziativa del liberale Luigi Luzzatti, a partire dal 1862 e cresciute per opera di Leone Wollemborg; dai Consorzi Agrari di Giovanni Raineri, fondatore della Federconsorzi nel 1892 e dalla rappresentanza sindacale in mano a imprenditori agricoli spregiudicati, in prevalenza lombardi ed emiliani. Il credito agrario, che il governo Giolitti sostenne come risposta alle esigenze di modernizzazione e di sviluppo dell'agricoltura, dette impulso per la trasformazione di zone importanti dell'Italia rurale, anche se i contadini poveri del Mezzogiorno furono praticamente tagliati fuori. La rete del credito cooperativo non era sufficiente a rispondere alle necessità della piccola azienda sempre più frammentata, in particolare nel Meridione. Il mondo cattolico era attento e spaventato nello stesso tempo, pur potendo contare sulla fitta rete delle Casse rurali costruite rapidamente dal sacerdote Luigi Cerutti a partire dal 1894, sorte sul modello tedesco delle Raiffeisen Banken e sui legami con la Chiesa. I vescovi sostenevano apertamente le rivendicazioni di mezzadri, salariati, braccianti, coloni sotto l'influenza delle organizzazioni cattoliche che si andavano moltiplicando dopo la fine del del Non expedit, veto pontificio ad impegnarsi pubblicamente nella vita politica dello Stato unitario. L'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII cominciava a dare i suoi frutti. Sacerdoti come Luigi Sturzo in Sicilia si prodigarono per organizzare i contadini, anche se il limite di questo impegno era contrastare la forte presenza socialista. In qualche caso anche le organizzazioni cattoliche partecipavano agli scioperi e alle occupazioni delle terre. Ma il principale obiettivo dei cattolici era la formazione di piccole aziende da coltivare singolarmente, concesse ai contadini in proprietà dopo l'esproprio. Romolo Murri, Giuseppe Toniolo, Guido Miglioli e Angelo Mauri puntavano principalmente su questi obiettivi che rispondevano a esigenze immediate e ad accrescere la responsabilità dei singoli coltivatori e delle loro famiglie. L'Azione cattolica e l'Opera dei Congressi sostenevano apertamente la creazione della proprietà privata.

Al contrario, il movimento sindacale agricolo di ispirazione socialista e repubblicano puntava all'accorpamento della terra, alla coltivazione collettiva mediante la trasformazione di tutti i contadini in salariati e braccianti agricoli. Il riformismo di Karl Kautsky e di Eduard Bernstein sembrava un orizzonte lontano. Alla base dell'elaborazione dei socialisti italiani c'era la lunga lezione di Antonio Labriola che dalla cattedra di Filosofia dell'Università "La Sapienza" di Roma, gettava le basi del materialismo storico e dalla incessante predicazione nelle Società operaie per educare e responsabilizzare i lavoratori, creando uno spirito di lotta politica e di formazione culturale. La sua continua esortazione per l'associazionismo e la cooperazione spinse anche docenti, insegnati, professionisti, uomini di cultura e artisti a impegnarsi a fianco dei lavoratori. Dominante era lo spirito laico e il diffuso anticlericalismo, conseguenza delle lotte risorgimentali e liberali e dalla conquista di Roma nel 1870. Inizialmente le rivendicazioni agrarie avevano contenuti economici, espressi in prevalenza dalle Società di Mutuo Soccorso, ma ben presto assunsero carattere politico, sotto la spinta dei socialisti e degli anarchici. Il movimento di lotta divenne ben presto impetuoso, non soltanto tra i lavoratori agricoli della Pianura padana, ma anche nel Centro-meridione. Mancava una direzione e il coordinamento delle manifestazioni che tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento andavano crescendo. La consapevolezza dell'esigenza di una sintesi politica di carattere nazionale, portò alla creazione delle strutture sindacali fondamentali, ancora oggi esistenti nel Paese. A Milano nel 1886 nasceva la Lega Nazionale delle Cooperative e a Genova nel 1892 vedeva la luce il Partito Socialista Italiano. Nel 1906 a Milano, nasce la Confederazione Generale del Lavoro, la futura CGIL, con la confluenza delle Leghe braccianti, delle cooperative di lavoratori, delle Società operaie, superando la frammentazione delle Camere del Lavoro territoriali autonome una dall'altra. Erano così gettate le premesse per la lotta di classe, organizzata e finalizzata su obiettivi precisi, diretta da uomini capaci e disposti a sacrifici enormi.

Le lotte agrarie erano dirette dalla Confederterra, organizzazione nata nel 1911 dalla confluenza di tutte le associazioni territoriali che erano sorte a partire dagli anni Settanta del XIX secolo e che si riconoscevano nella Federterra. A sua volta la Confederterra, considerata l'unica organizzazione di rappresentanza e di direzione politico-sindacale dei lavoratori della terra, entrò a far parte della Confederazione Generale del Lavoro. I dirigenti politici più prestigiosi erano impegnati proprio su questo fronte, nella prospettiva di una sollevazione generale, la rivoluzione predicata e tanto attesa da Aleksandr Bakunin, Andrea Costa, Anna Kuliscioff, Argentina Altobelli, Sibilla Aleramo. E' stato un momento straordinario nella storia dell'Italia unita, per passione politica, impegno ideale, speranza nel futuro, insomma quel «Sol dell'avvenire» che era diventata una certezza nei cuori e nella mente di milioni di lavoratori. L'inno conosciuto come Internazionale divenne il canto di lotta unitaria e le sue parole cantate in coro da braccianti, mondine, allevatori e pastori in ogni parte d'Italia era il passaporto identificativo dell'appartenenza al movimento socialista e alle schiere di proletari agricoli che lottavano per la Rivoluzione, unitamente all'esposizione della bandiera rossa. Dirigenti come Camillo Prampolini, Giuseppe Massarenti, Costantino Lazzari, Giacomo Matteotti gettarono il peso della loro autorevolezza per dare impulso alle lotte. Anche nel Meridione le migliori energie provenienti dalle file dai disciolti Fasci siciliani si adoperarono per ridare fiducia e slancio alle masse di diseredati, dopo la sconfitta del 1894. Nelle Puglie il giovane Giuseppe Di Vittorio esercitò il prestigio della sua personalità nell'organizzazione dei coloni del Tavoliere e della Daunia, mentre Ruggero Grieco tentava di articolare una risposta organizzata contro la miseria delle campagne e alle protervia degli agrari. In Calabria Fausto Gullo si pose alla testa delle rivendicazioni del lavoratori dell'Altipiano silano, mentre nel Lazio avvocati come Giulio Volpi erano impegnati nella difesa dei legittimi diritti dei contadini dell'Agro e della Campagna romana sulle terre pubbliche e demaniali e soprattutto su quelle dei discendenti della nobiltà pontificia e dei nuovi proprietari ex mercanti di campagna, usurpate nel corso dei secoli anche alle abbazie, ai monasteri e ai conventi.

Ma non era semplice trovare un punto unificante delle varie esigenze del territorio e delle categorie di lavoratori agricoli che storicamente costituivano l'asse portante dell'agricoltura italiana e del mondo rurale. Il fallimento della sollevazione siciliana nell'autunno del 1893, noto come Fasci siciliani, nonostante adesioni di massa in tutta l'isola, mise in evidenza la necessità dell'organizzazione e della guida del movimento. Francesco Crispi, succeduto a Giovanni Giolitti, costretto alle dimissioni di Capo del governo proprio per quella sollevazione, nel 1894 avviò una feroce repressione in tutta la Sicilia, ristabilendo l'ordine richiesto dal padronato agrario e dalle forze reazionarie. Quell'esperienza era servita d'insegnamento a molti dirigenti sindacali e politici, anche se prevalevano ancora forme di massimalismo esasperato. Molti si interrogarono sulle ragioni della mancata adesione dei lavoratori agricoli del resto d'Italia. Emerse per questa via con evidenza la particolare diversificazione delle campagne italiane che l'unità d'Italia non aveva né poteva risolvere in pochi anni. Prendeva corpo la Questione meridionale, ovvero la disparità economica e sociale tra Nord e Sud che ancora oggi si trascina stancamente. La mancanza di un quadro preciso di riferimento favorì sbandamenti e fughe in avanti nelle forze democratiche e socialiste, ancora incapaci di assimilare i risultati dell'Inchiesta parlamentare nota con il nome di Stefano Jacini, non indicava misure precise di riforma, anzi insisteva per il consolidamento dell'impresa agraria capitalistica attraverso un vasto programma di miglioramento delle strutture produttive, introducendo la meccanizzazione, l'irrigazione e il potenziamento l'allevamento zootecnico. La struttura fondiaria rimase inalterata e le terre che vennero distribuite in alcune regioni centro-meridionali ai contadini, appartenevano al demanio pubblico o erano la quota spettante alla collettività dalla liquidazione degli usi civici, residuo feudale che non nessuno nel corso della storia era riuscito a intaccare.
Azienda capitalistica e affittanza agraria nell'Italia settentrionale con aziende coltivatrici in Veneto, Piemonte e Trentino; mezzadria classica, colonia parziaria e colonia migliorataria nell'Italia centrale con residuali forme di enfiteusi perpetua; colonia parziaria e contadini senza terra nel Meridione dominato dal latifondo. Pertanto il movimento socialista era diviso su due fronti territoriali. Quello settentrionale era dominato dalle rivendicazioni salariali da una parte e dalla richiesta di una generica riforma agraria; quello meridionali era fondato sulla richiesta delle terra, sul superamento del latifondo e sulla revisione della vendita dei bani pubblici e di quelli della Chiesa. Questa situazione si rifletteva ovviamente nelle posizioni del Partito Socialista Italiano e delle sue componenti: il gruppo riformista era per trovare una soluzione nazionale, coinvolgendo le cooperative e le leghe braccianti; il gruppo rivoluzionario insisteva per lo sbocco insurrezionale del movimento, per la riforma agraria sulla base, così come era avvenuto in Russia.
Dirigenti e studiosi dell'agricoltura e delle condizioni di vita nelle campagne, come Ruggero Grieco e Giuseppe Di Vittorio tentavano di partire dai contenuti per coinvolgere il maggior numero di famiglie contadine e rurali. A questo proposito diedero vita all'"Associazione per la difesa dei contadini poveri". Il napoletano Amadeo Bordiga, formatosi alla suola di Arturo Labriola, rivendicava la guida del movimento degli operai e dei contadini nell'Italia meridionale e l'alleanza con classe operaia del Nord, dove l'occupazione delle fabbriche sembrava aprire una prospettiva rivoluzionaria, anche se le difficoltà erano evidenti nella tenuta della lotta, di fronte alla reazione padronale e della borghesia capitalistica e liberale, spaventata dalla possibilità di una prospettiva rivoluzionaria e violenta. Ma la visione rivoluzionaria classica era ancora predominante nelle file del Partito Socialista Italiano. La parola d'ordine dei socialisti era «Tutti proletari», principio rafforzato dalle prime misure della Rivoluzione russa; la parola d'ordine dei cattolici era «Tutti proprietari», ispirata ai principi dell'Enciclica Rerum Novarum del 1991. Posizioni inconciliabili, anche personalità come Guido Miglioli si prodigarono per favorire il dialogo.
QUALE SBOCCO?
Ma la prospettiva dello sbocco rivoluzionario non era scontata, sia per ragioni ideologiche che per motivi politici. Quale sbocco dare al movimento così impetuoso negli anni immediatamente successivi la Grande guerra? Niente era scontato e nelle file del Partito Socialista Italiano iniziarono le riflessioni sui pericoli di una possibile rivoluzione popolare che coinvolse anche il settore agricolo. Le preoccupazioni maggiori crebbero proprio nelle regioni settentrionali. Dirigenti di grande prestigio come Camillo Prampolini e Giacomo Matteotti temevano la reazione padronale. Diversa la situazione nel Mezzogiorno, dove il confronto tra socialisti aumentò la preoccupazione dei dirigenti più preparati. Inoltre, la fondazione della CISL da parte dei lavoratori cattolici nel 1919 e della Confcooperative nel 1920 non favorì una visione unitaria nello sbocco da dare al movimento contadino. Ruggero Grieco e Giuseppe Di Vittorio propugnavano un impegno più accentuato per combattere la miseria e l'arretratezza delle campagne, nel nome di un realismo che aveva del pragmatico.
L'accelerazione dello scontro politico tra rivoluzionari e riformisti si è consumata sul tema dell'adesione alla Terza Internazionale che aveva accolto tra le sue file il Partito Socialista Italiano. Il caso italiano era seguito dallo stesso Vladimir Il'ič Lenin, il quale aveva maturato un giudizio positivo sulle lotte condotte nel recente passato, anche per effetto delle visite a Capri nel 1908 e nel 1910 a Maksim Gor'kij e aveva incaricato Grigorij Evseevič Zinov'ev, prestigioso dirigente leninista impegnato nella guida della Terza internazionale, di seguire il caso. Le condizioni poste per la permanenza nella nuova Internazionale, era l'allontanamento dei riformisti, a cominciare da Giuseppe Turati, accusati di tradimento. Le vicende dell'occupazione delle fabbriche erano prevalenti nelle valutazioni dell'Internazionale, ma l'ingerenza e il diktat erano intollerabili e inaccettabili. La questione agraria era pertanto in secondo piano, ma non estranea al travaglio dell'intero partito. In effetti, chi poneva l'accento sulla direzione rivoluzionaria da imprimere al movimento, pur rendendosi conto delle difficoltà, non percepiva la condizione necessaria che una rivoluzione agraria sarebbe potuta essere vittoriosa nel solo caso di una solida alleanza con la classe operaia. Era quello che andava elaborando e testimoniando Antonio Gramsci nei suoi scritti su "L'Ordine Nuovo" e che i giovani dirigenti come Palmiro Togliatti e Umberto Terracini propugnavano anche su sollecitazione dell'Internazionale. Nelle visite che alcuni dirigenti socialisti rivoluzionari compivano a Mosca, per prendere parte ai lavori della stessa Internazionale, subivano la suggestione dei primi passi della costruzione del socialismo, anche se le conseguenze della guerra civile si facevano sentire un po' ovunque.
Dopo il convegno di Imola nell'ottobre del 1920, in vista del XVII Congresso del Partito Socialista, la linea da seguire per l'ala rivoluzionaria era chiara: chiedere l'espulsione dei riformisti e dei revisionisti e mantenere il forte legame con la Terza Internazionale. Al Congresso di Livorno a predominare nell'acceso dibattito sono stati i temi di come organizzare la rivoluzione proletaria sotto la guida della classe operaia, alleata con i contadini e gli elementi più progressisti del mondo intellettuale, delle arti e della cultura. Ma il punto dirimente era sempre l'appartenenza alla Terza Internazionale.
Tutto questo processo interno al movimento non trovava nessun riscontro tra i contadini italiani, ma creava situazioni di sbandamento o di fughe in avanti. In vista del congresso nazionale del PSI, convocato a Livorno, al Teatro Goldoni, per i giorni 15-19 gennaio 1921, lo scontro divenne più evidente e si è arrivati alla elezione dei gruppi dirigenti con la predominante presenza dei riformisti. Il gruppo degli internazionalisti che aveva al suo interno alcuni prestigiosi dirigenti del movimento contadino, decise di rompere gli indugi e nello sgangherato teatro S. Marco, il 19 gennaio diede vita al Partito Comunista d'Italia.
IL CONGRESSO DI LIVORNO
Il gruppo dei socialisti dissidenti, guidato da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Camilla Ravera, ciascuno con motivazioni differenti, ribadirono l'esigenza della riforma agraria sul modello bolscevico, attraverso l'esproprio generalizzato del latifondo e il superamento della mezzadria con l'assegnazione della terra ai lavoratori che l'avrebbero coltivata mantenendone l'unità territoriale, in qualità di salariati. In questo modo il principio della proprietà era superato perché la prevalenza sarebbe stata assunta dal lavoro. Il lavoro per tutti come fattore di dignità e di realizzazione della persona umana. Niente più sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma l'egualitarismo e l'uguaglianza sul piano dei diritti e dei doveri. L'insegnamento di Antonio Labriola e dei principi basilari del materialismo storico trovavano una prima compiuta realizzazione. A questa grande lezione si aggiungevano marginalmente quella di suoi allievi come Benedetto Croce e Giovanni Gentile che avevano intrapreso strade diverse e opposte nel distacco dal maestro.
Si venne a creare una situazione inedita negli schieramenti politici, in quanto il successo della Rivoluzione russa spingeva verso obiettivi che in quel momento parevano a portata di mano. La scissione al Congresso di Livorno non fu altro che la conseguenza di quella situazione nuova, ponendo le basi per la diffusione degli ideali e della parole d'ordine del Partito Comunista d'Italia, sezione della Terza Internazionale sotto la guida dei bolscevichi. Le ragioni vennero comprese soltanto dai gruppi dirigenti, mentre la base rurale guardava più alla soluzione dei problemi quotidiani nella battaglia contro l'Agraria, come veniva chiamata la parte padronale, e contro i soprusi e le violenze dello squadrismo, in grande misura di estrazione agraria. L'occupazione delle terre proseguiva, ma diventava sempre più difficile difendere le conquiste dei primi due anni del dopoguerra, compreso quel miserevole decreto della legge Visocchi che avrebbe dovuto espropriare le terre padronali mal coltivate ed intaccare il latifondo e che si era conclusa con la sottrazione di poche migliaia di ettari, tra cui quelle sottratte al latifondo di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini, propugnatori della riforma agraria. Il fascismo avrebbe cancellato la legge Visocchi nel mese di ottobre del 1922 e restituito tutte le terre ai proprietari.
Bisognava dare un dimensione nuova alla questione agraria che si aggiungeva come parte integrante della Questione meridionale, incentrata sulla creazione di infrastrutture stradali, ferroviarie, acquedotti, scuole e fabbriche industriali capaci di assorbire il vasto e miserevole tessuto dell'artigianato. Ai dirigenti impegnati in quel momento apparve più utile la scorciatoia dello sbocco rivoluzionario, sulla base delle prime misure della riforma generale in Russia, con l'abolizione del mir e dell'obščina, e la distribuzione della terra. In Italia, nessuno poteva immaginare le conseguenze terribili di quelle misure che non fu possibile attuare rapidamente per mancanza di mezzi tecnici e di competenze specifiche nella conduzione di una azienda agricola. La produzione era precipitata e l'approvvigionamento agricolo e alimentare delle grandi città, a cominciare da Pietrogrado e Mosca, divenne difficilissimo. Alla resistenza di contadini benestanti, divenuti ricchi kulaki per effetto delle misure rivoluzionarie, in quanto s'impossessarono delle terre che gli ex servi della gleba non riuscivano a coltivare per mancanza di mezzi tecnici oltre che di esperienza, si aggiunse una carestia devastante, legata in gran parte alla mancata coltivazione di milioni di desjatiny di terra.
Tra i socialisti rivoluzionari protagonisti della scissione di Livorno è stata non secondaria la presenza di quelli provenienti dal Meridione. Alcuni di questi erano impegnati nel movimento contadino e godevano di un rilevante prestigio, non soltanto tra i lavoratori. Per fare un esempio, dalla Calabria i delegati in rappresentanza di 292 appartenenti alla frazione rivoluzionaria i bisogna ricordare Nicola De Cardona, Francesco Maruca, Paolo Suraci Salvatore Martire, Francesco Morabito, mentre Fortunato Ardito Natino La Camera prese anche parte anche al Congresso di Lione nel 1926, unico rappresentante di quella Regione e uno dei pochi del Meridione. Non possono essere dimenticati, tra gli altri, Fausto Gullo e Gennaro Miceli, anche per l'attività svolta nella clandestinità e successivamente per il ruolo svolto a livello nazionale. Il primo come ministro dell'agricoltura, promotore della prima legge organica per l'esproprio delle terre incolte e per la distribuzione delle terre demaniali, nota come "decreto luogotenenziale Gullo", mentre il secondo fu tra i protagonisti della ricostruzione delle cooperative agricole su base nazionale. In un modo o in un altro, erano tutti legati al movimento contadino e avevano preso parte alle lotte per la terra.
LA QUESTIONE AGRARIA COME PARTE DELLA QUESTIONE MERIDIONALE
La nascita del Partito Comunista d'Italia non risolse i problemi di linea e di strategia della lotta. Dopo le violente aggressioni delle squadracce fasciste, composte da facinorosi, vagabondi, sbandati di ogni sorta, nei confronti delle organizzazioni dei lavoratori agricoli, compreso l'uccisone di dirigenti e di contadini e anche di qualche sacerdote, si pose il problema di come proseguire la lotta che diventava sempre più difficile. Si pose subito la questione di quali alleanze fossero necessarie per poter proseguire e come assicurare una prospettiva di successo. Mentre nel Centro-meridione dell'occupazione delle terre subiva un forte rallentamento, anche nell'Italia settentrionale si presentarono difficoltà crescenti. Non riuscendo ad arginare la violenza fascista proprio nella zona più emblematica quell'asse Bologna - Ferrara che Corrado Barberis definisce "clitoride agrario d'Italia", divenne inevitabile un ripiegamento dell'intero movimento. I mezzadri subivano le conseguenze dell'escomio padronale e braccianti e salariati le angherie e i soprusi di fattori e direttori aziendali.
Antonio Gramsci ritenne che la risposta giusta fosse la creazione dei Consigli di operai, contadini e intellettuali, alla stressa stregua dei soviet che aveva portato il proletariato russo a conquistare il potere. Era una strategia giusta sul piano teorico, ma esistevano le condizioni per dare vita alla rete dei Consigli? La discussione prosegui su Stato operaio e impegnò anche nella clandestinità le migliori energie intellettuali che si riconoscevano nel nuovo Partito. Figure di giovani come Emilio Sereni, Giorgio Amendola, Pietro Grifone, Duccio Tabet dettero un contributo notevole per mantenere viva la presenza comunista nelle campagne italiane. I frutti sarebbero stati raccolti nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione, nelle quali il contributo dei lavoratori della terra è stato notevole. Basti per tutti il terribile episodio dell'uccisione dei sette fratelli Cervi.
A distanza di cento anni da quegli eventi si può affermare che in quel contesto internazionale in cui operava il PCI non esisteva nessuna altra strategia. Quel disegno ambizioso rappresentò il sogno di centinaia di migliaia di contadini, mentre l'asse dell'alleanza con i lavoratori delle fabbriche del Nord costituiva la condizione indispensabile per rendere vittoriosa la rivoluzione. Rinunciare a quelle posizioni nel nome del realismo puro e semplice, avrebbe rappresentato il fallimento delle ragioni del nuovo partito ed il ritorno di molti dirigenti tra le file del Partito Socialista.
IL FASCISMO
Il fascismo non riuscì a spegnere del tutto il messaggio di speranza della predicazione comunista. La sottile rete cospirativa nella clandestinità manteneva aperto un legame fragile ma vigile con le discussioni teoriche condotte su Lo stato operaio. Lo scioglimento delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori, dalla CGIL alla Lega delle Cooperative, l'assalto alle sedi dei partiti antifascisti, la distruzione delle Camere del Lavoro e delle cooperative, l'assassinio di dirigenti e militanti tra cui molti contadini e anche qualche sacerdote, mostrarono il vero volto del fascismo, brutale, violento, sanguinario, oltre che liberticida. Inoltre la cancellazione delle conquiste legislative degli anni precedenti, dal decreto Visocchi agli accordi sindacali per mezzadri, salariati e braccianti, avevano lo scopo di piegare definitamente la lotta dei lavoratori agricoli e di soddisfare le richieste degli agrari che avevano sostenuto fin dal nascere nel 1919 il partito fascista a colpi di manganello e somministrazione di olio di ricino. Proprio su questo terreno si misurava la capacità del regime di dare i primi segni di rinnovamento. Gli agrari si aspettavano misure miracolistiche. Al contrario, la prima importante decisione adottata da Mussolini rivelò il vero volto del regime, perché nettamente contraria agli interessi dell'agricoltura in generale, perché adottata per favorire gli industriali settentrionali. Il sostegno degli agrari padani e toscani e dei latifondisti del Sud era stata una partentesi! Quella misura è passata alla storia come "Quota Novanta". Di cosa si trattava? Il cambio delle lira rispetto alla sterlina oscillava a metà degli anni Venti tra le 120 e 130 lire per ogni sterlina. Ciò favoriva le esportazioni agricole e alimentari e rendeva più costose le materia prime necessarie all'industria per allargare la sua rete nell'Italia del Nord. Il governo decise per decreto di imporre il cambio forzoso della lira rispetto alla sterlina: 90 lire contro 120-130 per una sterlina. Una rivalutazione della lira alla rovescia! La misura passò quasi inosservata ignorata e sottovalutata dagli economisti agrari del tempo e di quelli successivi. La conseguenza fu il fallimento di migliaia di aziende e di centinaia di banche, compreso le sopravvissute Casse rurali. Il regime rispose alle proteste degli agrari creando la Banca Nazionale del Lavoro per favorire il credito anche agli imprenditori agricoli, ma la situazione era disperata, particolarmente nel Meridione. Il prezzo maggiore lo pagarono i braccianti e i coloni, oltre ai mezzadri, sui quali i proprietari cercarono di rifarsi riducendo i salari e la quota del riparto dei prodotti, sotto la protezione del regime. Prese il via una nuova ondata migratoria, questa volta diretta principalmente verso l'America del Sud, che il regime non riuscì a fermare, nonostante divieti e minacce. Da Napoli e da Genova partivano le navi cariche di lavoratori agricoli, molti dei quali clandestini, che abbandonavano in Paese nella ricerca della sopravvivenza se non della fortuna.
La battaglia del grano fu l'altro espediente che doveva essere strategico ma si rivelò mero strumento propagandistico. I risultati ottenuti nella produzione di cereali erano legati alla diffusione delle nuove varietà coltivabili, grazie alle ricerche condotte dal genetista Nazzareno Gabrielli. Sul piano strutturale non è stata introdotta alcuna misura innovatrice, a parte lo sviluppo della meccanizzazione che coinvolse l'industria del Nord, dalla Fiat a Laverda. Il vasto programma di bonifica integrale e di appoderamento fu l'unica misura che dette risultati concreti per rispondere alla fame di terra, anche se il prezzo pagato dalle popolazioni delle zone bonificate fu drammatico, mentre i contadini chiamati a insediarsi sui nuovi poderi, sradicati dal loro territorio pagarono un prezzo molto alto nel difficile rapporto con le popolazioni locali. Si è trattato di un programma coordinato tra lavori idraulici e di risanamento partendo dalla malaria e l'assistenza ai nuovi lavoratori agricoli diventati proprietari, la cui realizzazione fu affidata all'Opera Nazionale Combattenti che aveva tentato timide iniziative di riforma agraria nell'immediato primo dopoguerra. La costruzione delle nuove città nelle zone bonificate, la creazione di borghi rurali al servizio delle famiglie insediate, l'assistenza tecnica fornita dalle Cattedre ambulanti davano la misura di un disegno corporativo imposto dall'alto, la cui efficacia era legata all'obbedienza al regime. Tuttavia, sul piano urbanistico ed architettonico si trattò di un progetto di notevole respiro, nella cultura di Novecento e di Ritorno all'ordine, anche se gli importanti risultati sono stati macchiati da retorica nazionalistica. Accanto alle opere idrauliche e di appoderamento fu rafforzata la rete dei Consorzi di Bonifica ispirata da Arrigo Serpieri, il cui carattere autoritario ha lasciato tracce profonde nell'agricoltura italiana e nella società rurale.
La montagna fu l'altro terreno d'impegno del fascismo, per rispondere alla domanda crescente di lavoro man mano che Quota Novanta continuava a infierire nelle campagne. Fu deciso di intervenire con vastissime opere di forestazione e di rimboschimento, ovvero messa a dimora su terreni sterili o scarsamente produttivi di essenze arboree non sempre idonee. Il prezzo maggiore fu pagato dai pastori e dagli allevatori che si videro sottrarre terreni destinati da millenni al pascolo. La montagna subì un processo di snaturamento attraverso piani autoritari di forestazione, imposti dalla Milizia forestale appositamente creata dal regime.
Una vicenda a se stante riguarda i Consorzi agrari. Il governo fascista non scatenò la distruzione delle cooperative alla cieca, ma seppe selezionare quelle che avrebbe potuto assoggettare, piegandole al proprio disegno corporativo. Tra questi organismi, la Federconsorzi rappresentava un boccone particolarmente. Le strutture nazionali e territoriali furono incorporate nella Corporazione dell'Agricoltura e trasformate in veri e propri enti di Stato. Un regalo agli agrari legati al regime, ma un danno per milioni di soci che non contavano più niente. Alla caduta del fascismo, in governo formato dalle forze del Comitato di Liberazione Nazionale decisero il commissariamento, nominando Emilio Sereni a riorganizzare la più importante struttura delle campagne. Ma il progetto di restituire dignità democratica ai consorzi naufragò con la fine dell'esperienza unitaria e Paolo Bonomi si impadronì della Federconsorzi, con il consenso della Confagricoltura, ovvero dell'organizzazione degli imprenditori capitalisti e della proprietà fondiaria in generale.
Un posto a se stante delle politica agraria del fascismo è l'illusione di creare poderi nelle zone di conquista coloniale, incrementando le attività in Eritrea e in Libia e insediando nuove aziende in Etiopia subito dopo l'aggressione del 1936. I risultati sono noti: il sogno di trasferire una parte della ruralità in Africa ha comporto dei prezzi finanziari altissimi con scarsi risultati economici. L'illusione del "posto al sole" anche per finalità agricole comportò l'inganno per migliaia di contadini che furono arruolati per colonizzare l'Etiopia e finirono in Spagna per combattere con il "caudillo" Francisco Franco contro la legittima Repubblica. L'avventura purtroppo non poteva finire che in tragedia. Tutte le aziende create a migliaia di chilometri di distanza dalla patria non potevano che venire annientate alla prima occasione: quella della risalita degli Inglesi dall'Oceano indiano fino al delta del Nilo e alla congiunzione con l'esercito alleato sbarcato nell'Africa settentrionale.
Purtroppo il Partito Comunista Italiano non era in grado di opporre alcuna resistenza concreta alle ambizioni rurali che sfioravano follia e autoritarismo del fascismo. La rete clandestina ha operato sul piano dell'informazione agli iscritti e nella ricerca di nuovi militanti, distribuendo alla meglio la stampa clandestina, correndo enormi rischi. L'istituzione del Tribunale Speciale dopo il delitto Matteotti dette un colpo gravissimo alla rete comunista in Italia. Simbolo di questa spietata reazione è Antonio Gramsci, arrestato, processato, condannato al carcere dove concepì e scrisse le sue memorabili opere teoriche e di metodo per la conquista del potere su base democratiche e popolari Ma quella presenza, in condizioni difficilissime, tra l'intervento dell'OVRA e continue delazioni, produsse i suoi risultati nei mesi e negli anni immediatamente successivi alla guerra.
La concezione di Gramsci del potere non era soltanto in funzione della supremazia di una classe sull'altra, ma quanto di portare a compimento la rivoluzione risorgimentale, attraverso la crescita politica, culturale e umana del proletariato sulla base della cultura nazionale e popolare, valorizzando le esperienze democratiche. Il proletariato era visto in funzione di avanguardia per la conquista del potere e per affermare la dittatura del proletario stesso. Nello schieramento politico-sociale i contadini salariati avrebbero avuto un ruolo attivo nella costruzione del socialismo, contribuendo alla maturazione dei piccoli proprietari coltivatori che avrebbero fatto parte della nuova società e dei suoi ordinamenti. C'era in questa impostazione qualche riferimento alla Novaja Ekonomičeskaja Politika introdotta da Lenin proprio per superare il terribile deficit agro-alimentare seguito alla guerra civile. Il successo di quelle misure incentrate sulla libertà di intrapresa e di commercio spaventò il gruppo dirigente del PCUS e Stalin avrebbe abbattuto quella esperienza con la collettivizzazione delle aziende agricole nate dopo la Rivoluzione d'ottobre e con il primo pjatiletka, il piano quinquennale che sarà la dorsale della pianificazione nell'economia sovietica. Gramsci aveva dimorato in Russia, ospite della Terza Internazionale, e aveva conosciuto i primi passi della Nuova Politica Economica. L'automatica trasposizione alla situazione italiana non era possibile, ma quel tentativo rimase presente sullo sfondo dell'elaborazione gramsciana come espressione del potere democratico, avvenuta tra le mura del carcere di Turi.
LA RESISTENZA E LA GUERRA DI LIBERAZIONE
Il contributo del mondo agricolo e rurale alla Resistenza e alla guerra di Liberazione fu molto importante, non tanto sul piano militare e della lotta armata, quanto su quello logistico, di assistenza e copertura dei partigiani. Un contributo rilevante portarono le donne, come staffette partigiane e in alcuni casi anche come combattenti. Le libere Repubbliche dell'Ossola, di Montefiorino tentarono una prima risposta alle esigenze del mondo rurale. Nel Meridione a Repubblica Rossa di Caulonia, proclamata il 6 febbraio 1945 ed elogiata dallo stesso Stalin, è stato un tentativo sbagliato, perché non c'erano forze nazifasciste da combattere, ma i latifondisti dell'area ionica in Calabria, per cui assunse carattere insurrezionale, con la prevalenza di fattori locali e anche di rivalse private. L'intervento delle forze dell'ordine e la condanna del PCI posero fine a quella che assunse i caratteri di tragedia per i morti che ha provocato e per gli strascichi giudiziari. Le zone dell'Italia al di là della Linea Gotica sono state teatro di aspri combattimenti contro i nazifascisti e le popolazioni dei borghi della fascia appenninica, delle Langhe, di quelli della Pianura Padana, fino agli insediamenti nelle valli e nelle malghe alpine fu importantissimo, come hanno messo in evidenza gli storici. Anche il prezzo pagato dalle popolazioni fu pesante. Oltre allo straziante episodio della fucilazione dei sette fratelli Cervi alla fine del 1943, bisogna ricordare la strage di S. Anna di Stazzema in Toscana e la distruzione di Marzabotto nel 1944. Sono episodi che tutti conoscono e ricordano, come parte fondamentale della storia del Novecento. Ma pochi ricordano che le popolazioni assassinate erano composte in gran parte da mezzadri, contadini e braccianti. Anche tra le vittime delle Fosse Ardeatine a Roma ci furono numerosi contadini. Bisogna anche mettere in evidenza che i nazifascisti compirono feroci razzie di bestiame per soddisfare le esigenze alimentari della Wermacht e dell'esercito della Repubblica di Salò, oltre al sequestro della produzione agricola stagionale, dal grano all'olio, al vino. Quando si parla della Resistenza ci si sofferma sugli aspetti militari e della lotta partigiana, sottovalutando aspetti economici non secondari nella vita delle popolazioni. Si può affermare che il comportamento del mondo agricolo è stato in alcune situazioni decisivo per il successo delle operazioni di sabotaggio e di combattimento.
Il ruolo dei comunisti fu fondamentale per orientare e organizzare i contadini, raccogliendo i frutti del lungo lavoro nella clandestinità. Un aspetto che non sempre è stato messo in evidenza riguarda il contributo dei militari dell'Esercito Italiano, che dopo l'8 settembre 1943, tornando nei luoghi d'origine portavano un messaggio di speranza e di sicura vittoria che rappresentava un incoraggiamento per partecipare alla lotta armata. Finita la guerra, ci sarebbe stata la resa dei conti con i fascisti, ma anche con gli agrari e con quegli industriali che si erano macchiati di gravi azioni antisindacali. Alla testa di questo vasto schieramento c'erano dirigenti di grande spessore ed esperienza politica. Il loro contributo nella ricostruzione del Paese è stato decisivo.
IL DOPOGUERRA
Bisognerà aspettare gli anni del Secondo dopoguerra per l'impetuosa ripresa delle lotte agraria, a cominciare dall'occupazione delle terre incolte e mal coltivate. In Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio, Abruzzo si scatenò un ver e proprio movimento di popolo. Alla testa c'erano ancora una volta le Leghe contadine dirette dalla Confederterra e le cooperative coordinate dalla rinata e rinnovata Lega delle Cooperative. Il 1 settembre 1945 a Roma fu celebrata la ricostituzione della Lega delle Cooperative e il Partito incaricò i suoi dirigenti con forte capacità organizzativa di impegnarsi su quel fronte. L'ex comandante partigiano Giulio Cerreti fu eletto presidente, a cui successero negli anni successivi Silvio Miana, Vincenzo Galetti, Valdo Magnani, Onelio Prandini, fino a Lanfranco Turci. I congressi successivi al 1990 dettero all'organizzazione una impronta sempre più imprenditoriale con presidenti espressi dalle grandi cooperative e dall'UNIPOL, la compagnia assicuratrice nata alla fine degli anni Sessanta, assorbendo anche le Società di Mutuo Soccorso contro la grandine, gli incendi e le pestilenze animali. Si è parlato di collateralismo della Lega con il PCI e non c'è dubbio che il legame ideale, politico e organizzativo con i partiti della sinistra era molto presente. Come contenere il potere della DC nelle campagne da un lato e in settori importanti della società senza un legame profondo con i lavoratori e con i produttori! Il Partito Comunista è stato sempre in prima linea, incitando e organizzando la lotta, impegnandosi nel controllo dei risultati. Nel 1957 nasceva l'Associazione Nazionale delle Cooperative Agricole, preceduta due anni prima da AICA, consorzio di secondo grado per garantire mezzi tecnici adeguati alle cooperative, sorta di Federconsorzi sui generis che ha saputo svolgere per un lungo periodo di tempo una funzione positiva sotto la guida di Mario Tampieri. Le difficoltà per le cooperative agricole non mancarono in presenza di ricorrenti crisi del mercato agro-alimentare, ma L'impegno comunista fu rilevante, esercitato da uomini come Gennaro Miceli, Giuseppe Vitale, Lino Visani, Massimo Bellotti, alcuni dei quali hanno affiancato il socialista Luciano Bernardini alla guida dell'organizzazione su territorio, radicando il concetto di cooperativa come impresa e gettando le premesse per un futuro Sistema Agricolo-Alimentare.
Questo è valso ancora di più per l'agricoltura di base, intesa come settore primario, ovvero la coltivazione della terra e l'allevamento del bestiame. Inizialmente Il vasto orizzonte delle manifestazioni, la rapida applicazione della legge Gullo, il sostegno delle cooperative e finanche di alcuni Consorzi Agrari ricondotti alla funzione originaria, oltre alla solidarietà nazionale internazionale garantivano un fronte politico-sociale molto esteso. Anche le cooperative e le Leghe "bianche" partecipavano al movimento pur se in misura minore. La terra era un boccone appetibile anche per i cattolici dichiarati e praticanti. Ma la reazione padronale fu brutale e violenta. Le stragi di Portella della Ginestra, Montescaglioso, Celano, Melissa, per citare quelle più sanguinose, finì con creare difficoltà, complice il governo della Democrazia Cristiana. Bisogna ricordare che l'unità tra comunisti e socialisti fu costruita e consolidata, dopo le incomprensioni e le rottura del 1921. Il movimento contadino meridionale fornì un contributo importante di strategia politica e sindacale. Quelle esperienze unitarie sono state decisive per mantenere il legame tra i due partiti dopo la rottura all'interno del Comitato di Liberazione Nazionale e la successiva sconfitta del 18 aprile 1948. I comunisti e i socialisti presenti nelle organizzazioni di massa difesero l'esperienza unitaria, anche nei momenti di maggiore tensione tra i due partiti e nei successivi scontri tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi sul riformismo, sulla questione morale e contro le basi missilistiche NATO in Sicilia. I dirigenti comunisti in particolare gettarono il peso del personale prestigio per tutelare l'unità di azione nella strutture di base e in quelle di vertice. Fu un esempio di lungimiranza e di pragmatismo che avrebbe dato i suoi frutti anche molto tempo dopo.
Le rivendicazioni del bracciantato e dei salariati delle cascine nella Valle padana, della fascia pedemontana e dell'arco su alpino, subirono la pesante e violenta reazione della polizia che si era posta al servizio degli agrari, soprattutto dopo la nomina di Mario Scelba a Ministro dell'Interno. Le lotte delle mondine, costrette a lavori faticosissimi nelle risaie, restano una pagina indimenticabile delle lotte agrarie. Anche se gli scioperi di mezzadri e coloni crearono serie difficoltà alle aziende agricole capitalistiche, ma non riuscirono a piegare la resistenza padronale. Il cosiddetto lodo De Gasperi che stabiliva il riparto del prodotto al 53% per il mezzadro, fu una risposta parziale ma capace di indebolire la battaglia. Infatti, in quel contesto, mancava uno sbocco immediato alle rivendicazioni di mezzadri e coloni. A parte il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle campagne, la possibilità di espropriare i proprietari e dare la terra ai lavoratori cominciava ad apparire un miraggio, senza la rottura rivoluzionaria. Prospettiva che sembrò allontanarsi ancora di più dopo l'approvazione della Costituzione della Repubblica che non prevedeva espropri forzosi, tranne in caso di pubblica utilità. E la riforma agraria non era considerata da nessuno pubblica utilità, quanto emergenza sociale. Anche dopo l'attentato a Palmiro Togliatti il 14 luglio 1948 le ragioni insurrezionali vennero sconsigliate. "Non perdete la testa!" sussurrò il Segretario del Partito con un filo di voce dal suo letto d'ospedale, quando le sue condizioni erano disperate. Con il passare del tempo la protesta si affievolì. Inoltre, la prospettiva di ritrovarsi tutti proletari all'interno di imprese cooperative non appariva allettante per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Nessuno era disposto a fare il bracciante di se stesso!
Sul fronte cattolico, bisogna ricordare che nell'autunno del 1944 era stata creata la Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti, diretta da Paolo Bonomi, volitivo uomo del Vaticano per costruire un movimento incentrato sulla piccola azienda familiare che, grazie all'aiuto delle parrocchie, raggiunse in poco tempo una dimensione notevole in tutto il Paese. L'obiettivo della Democrazia Cristiana era creare una vera e propria diga al comunismo, attraverso la rottura del movimento contadino e soprattutto alimentando il conflitto tra operai e contadini, città e campagna, conservatorismo e progressismo. Il dualismo fu drammatico ed ebbe conseguenze negative nei comportamenti delle forse politiche. Arrestato il movimento per l'occupazione delle terre e per la riforma agraria, la Democrazia Cristiana doveva rispondere alle esigenze di migliaia di contadini poveri, di mezzadri, di coloni che avevano rivendicato e rivendicavano la terra degli agrari.
Nel frattempo i nodi strutturali nella linea politica del PCI, accantonati nel furore della lotta, vennero al pettine. A cosa doveva portare la riforma agraria? A dare la terra ai lavoratori, nelle forme possibili, sarebbe stata la risposta pragmatica. Invece, tornò con prepotenza il tema della coltivazione collettiva e dei lavoratori tutti subordinati, cioè dipendenti dalla cooperativa o da altre forme associate. La discussione portò alla destrutturazione della Confederterra, in quanto gli interessi delle diverse categorie non potevano più convivere. Il congresso di Bari della Confederterra nel 1944 prese atto che l'organizzazione non poteva rappresentare tutti, per la persistenza di profonde differenze strutturali nelle campagne italiane. Accomunati sotto lo stesso tetto avrebbe avuto come conseguenza la paralisi e la fine del movimento. Fu tracciata, pertanto, la linea di una riorganizzazione possibile. Nel 1946 a Bologna nacque la Federbraccianti, destinata diventare in poco tempo la più potente organizzazione sindacale in Italia, primato rimasto per molti anni. La nuova organizzazione, in particolare sotto la direzione di Luciano Romagnoli, raggiunse risultati importanti sul piano salariale, alcuni miglioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori e gettò le basi per il futuro collocamento agricolo, il diritto all'indennità di disoccupazione, l'assistenza previdenziale e sanitaria, materie che saranno l'asse portante della lotta nelle campagne per lunghi anni. Chi non ricorda ancora oggi le battaglie della mondine nelle risaie, oggetto di attenti studi anche antropologici. Negli anni successivi sarebbero diventate sempre più formidabili le battaglie delle raccoglitrici di olive, le donne impegnate nella trebbiatura e nella raccolta del grano, quelle addette alla potatura verde nei vigneti e nei frutteti e alla vendemmia. La Federbraccianti era considerata l'organizzazione di riferimento della sinistra e del PCI, come la Coldiretti lo era per la Democrazia. I comunisti ne erano pienamente consapevoli.
Nel 1947 nasceva a Siena la Federmezzadri, con l'ambizione di rappresentare i lavoratori mezzadri che continuavano ad avere responsabilità al 50% nella conduzione del podere, ma anche coloni e compartecipanti. Restavano fuori da ogni rappresentanza i contadini piccoli proprietari di terreni nelle zone interne e in particolare nell'Italia meridionale, i coloni miglioratari e la colonia parziaria. Ruggero Grieco e Pietro Grifone, rendendosi conto che non era possibile lasciare fuori milioni di contadini poveri e coloni, si adoperarono per dare una configurazione differente all'organizzazione, conferendo dignità soggettiva ai contadini. Ma la resistenza dei vertici del Partito impedì rapide decisioni da imporre alle strutture nazionali.
Pertanto, non restava che dare vita ad una organizzazione autonoma, fuori dalla CGIL. Nacquero strutture locali, sia di natura settoriale (viticoltori, olivicoltori, orticoltori, pastori) o di carattere territoriale. Ma era ben poca cosa per potere contrastare il dilagante potere della Democrazia Cristiana, esercitato attraverso la Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti. Furono momenti difficili per la vita di tanti militanti nelle zone montane e meridionali, ma anche nelle aziende allodiali dell'Italia settentrionale, nelle Langhe, nelle colline venete e friulane che sarebbero diventate l'asse portante della futura agricoltura di qualità e dei prodotti tipici.
Tutto questo si riflesse nell'atteggiamento che il Partito doveva avere di fronte agli sbocchi della riforma agraria. Anche Alcide De Gasperi si trovò in serie difficoltà. Nonostante la diminuita intensità delle lotte agrarie e dell'occupazione delle terre, bisognava trovare una soluzione che non scontentasse i grandi proprietari terrieri. Lo sbocco fu la riforma fondiaria del 1950. Non si trattò della riforma per cui avevano lottato milioni di contadini a partire dalla fine dell'Ottocento, ma di uno "stralcio" che portò tuttavia all'esproprio di centinaia di migliaia di ettari e alla nascita di migliaia di poderi, sui quali sorsero aziende agricole a conduzione familiare. Si realizzava così il progetto disegnato dalle gerarchie ecclesiastiche, auspicato dall'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Per i comunisti si pose un problema molto difficile. Al di là della battaglia parlamentare ad oltranza contro la legge "stralcio", c'era un problema di linea politica: la riforma doveva avere come scopo non la terra ai singoli contadini, ma a strutture di vaste dimensioni che le avrebbero coltivate collettivamente, adattando il modello sovietico della collettivizzazione. A nulla sono valse le raccomandazioni di economisti e di tecnici agrari per un atteggiamento che potesse portare ad un compromesso. Lo scontro si consumò sulla impossibilità di assegnare i poderi condotti a mezzadria alle rispettive famiglie. La resistenza della Democrazia Cristiana fu incrollabile. Fu il primo grave colpo che il Partito Comunista Italiano ha dovuto subire, con conseguenze dolorose sui singoli territori. In poco meno di tre anni, sotto la direzione di uomini come Antonio Segni, Amintore Fanfani, Giuseppe Medici, Mario Bandini la riforma fu attuata, quasi nell'incredulità generale. I vari enti sorti per la gestione della riforma, come l'ERAS in Sicilia, l'Opera Sila, l'Ente Maremma Tosco-laziale, il Fucino, l'Ente Tirsi e Flumendosa, l'Ente Tre Venezie assegnavano la terra su indicazione delle parrocchie, escludendo sistematicamente i comunisti e i socialisti. I quali si limitarono a controllare e combattere gli eccessi di autoritarismo e le gravi discriminazioni ottenendo importanti risultati in Sicilia, Calabria, Puglia, Toscana. I comunisti e i socialisti costituirono piccole organizzazioni locali di coltivatori e assegnatari, dando vita ad un coordinamento nazionale, ma il peso politico era molto limitato.
La creazione delle Casse Mutue e della previdenza per i coltivatori diretti segnò il momento del massimo successo per la Democrazia Cristiana nelle campagne italiane. La rete delle Casse Mutue, con gli ambulatori e le prestazioni sanitarie, raggiungevano ogni angolo delle campagne italiane, esercitando una vera e propria diga, come avevano auspicato Paolo VI e Paolo Bonomi. Ma il paziente lavoro di dirigenti come Ruggero Grieco, Giovanni Lay, Girolamo Li Causi, Gaetano Lamanna, Gino Cesaroni, Angiolo Marroni, Emo Bonifazi e tantissimi altri portò gradualmente al superamento della pregiudiziale nei confronti dell'azienda agricola privata a conduzione familiare. Ruggero Grieco, nominato responsabile della Sezione agraria della Direzione comunista, riuscì a improntare la politica del partito in maniera più articolata, superando la pregiudiziale operaistica e molte resistenze di carattere ideologico. Il passato pesava ancora! Restava la posizione di Giuseppe Di Vittorio che rivendicava la presenza degli organismi di rappresentanza all'interno della CGIL, nel segno di una visione unitaria del movimento operaio e contadino. Ma non era così facile contrastare l'egemonia di Paolo Bonomi proponendo soluzioni giuste sul piano teorico, ma di difficile attuazione, vista la diversità degli interessi. Nel 1955 a Ravenna, Ruggero Grieco ruppe gli indugi e grazie al sostegno di socialisti come Rodolfo Morandi, creò l'Alleanza Nazionale dei Contadini. La crescita di questa embrionale organizzazione fu lenta, perché ha dovuto scontrarsi con posizioni settarie e dogmatiche di tanti dirigenti locali. La morte di Grieco subito dopo la costituzione della nuova organizzazione, rappresentò un freno alla sua crescita. Ma il seme era stato gettato e nel 1963 poteva essere celebrato a Roma il II congresso che dava la dimensione della nuova organizzazione agricola nazionale. Presidente era stato eletto Emilio Sereni che aveva raggiunto nel frattempo notorietà come storico dell'agricoltura e di teorico del marxismo e del movimento comunista internazionale. Il socialista emiliano Giorgio Veronese fu eletto vice presidente. Una schiera di dirigenti cominciò ad operare sul territorio sotto il coordinamento di Attilio Esposto e di Gaetano Di Marino. Lo sforzo maggiore fu dimostrare il carattere autonomo della nuova organizzazione dai partiti e dai sindacati operai. Il collateralismo era evidente, anche perché avere contatti con i contadini bisognava appoggiarsi alle sedi dei partiti di riferimento. Il lavoro intelligente di centinaia di militanti dette i suoi frutti al Terzo Congresso del 1969. Emilio Sereni lasciò la presidenza per dedicarsi ai suoi studi teorici e Attilio Esposto fu eletto alla presidenza, il socialista Selvino Bigi vicepresidente. Nuovi dirigenti si affermarono e qualificarono a livello locale, svolgendo un ruolo importante anche nel partito. Come non ricordare Gerolamo Scaturro, Antonio Belocchio, Pasquale Poerio! Molti sindaci, consiglieri provinciali e parlamentari nazionali provenivano proprio dalle campagne e alcuni di questi divennero dei veri e propri capipopolo, costituendo nel tempo un ostacolo al rinnovamento e all'allargamento della presenza dei comunisti nella società in mutamento. Si pensi alla difficoltà di molte donne di notevole valore a trovare una giusta collocazione e riconoscibilità negli organismi dirigenti. Per lo meno fino a quando temi fondamentali, come i diritti civili dal divorzio all'aborto e poi alla riforma del diritto di famiglia, imposti dopo il sommovimento della fine degli anni Sessanta, noto come "il Sessantotto". In occasione del referendum sul divorzio e sull'aborto, temi verso i quali il PCI aveva un atteggiamento di necessaria cautela, dimostrarono che le donne avevano conquistato una maturità, iniziata con il diritto di voto nel 1946, che le rendeva protagoniste anche nelle campagne.
Lo stesso problema si pose per i lavoratori autonomi di altri settori: artigiani, commercianti, professionisti. Un partito che ambiva a governare per trasformare il Paese con le cosiddette "riforme di struttura" non poteva lasciare fuori dalla rappresentanza sindacale queste categorie, pensando che la sola eventuale adesione a Partito risolvesse i problemi. Il corporativismo era un pericolo, ma meglio combatterlo dall'interno. Saranno queste riflessioni che porteranno alla fine degli anni Sessanta a impegnarsi per la nascita della Confederazione Nazionale Artigiani (CNA), della Confesercenti, dell'ARCI e successivamente di Lega ambiente.

Pio La Torre
I problemi non erano finiti per la politica agraria della sinistra italiana: le cooperative agricole dovevano restare nella Lega Nazionale o essere incorporate nell'Alleanza dei Contadini? Tema di non facile soluzione, sul piano teorico e politico, in quanto alcune cooperative, soprattutto in Emilia-Romagna e Toscana, avevano raggiunto dimensioni notevoli e cominciavano a gettare le basi di quel sistema agricolo-alimentare che avrebbe dato un contributo decisivo per la trasformazione dell'agricoltura italiana, pur tra molte difficoltà ed errori. La decisione fu dolorosa: le cooperative maggiori si apponevano a lasciare la Lega, anche perché il complesso sistema patrimoniale e occupazionale aveva bisogno di una guida imprenditoriale che soltanto l'economia cooperativa poteva garantire. Così tutto rimase come prima e ancora oggi le cooperative agricole e agro-alimentari si ritrovano nella rappresentanza garantita da Legacoop. Dirigenti come Arturo Colombi, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso e Pio La Torre gettarono il peso del loro prestigio per favorire la crescita dell'Alleanza dei Contadini sul piano nazionale e territoriale, indicando per quel lavoro anche giovani dirigenti di estrazione urbana. Nella CGIL restarono giustamente, come è stato detto, la Federbraccianti e la Federmezzadri che in quegli anni molto difficili svolsero un ruolo importantissimo per sostenere le lotte contro l'abbandono della montagna e lo spopolamento delle campagne. La mezzadria e molte imprese capitalistiche entrarono in crisi e molte aziende furono chiuse. File di poderi mezzadrili testimoniavano tristemente il passaggio dell'Italia da paese agricolo a nazione industriale. La crisi dell'agricoltura, l'abbandono della montagna e l'esodo dalla campagne comportò una riduzione del peso politico della Federbraccianti. Ma anche nelle aziende della Valle padana la diffusione della meccanizzazione e delle tecnologie labour saving portarono alla contrazione di migliaia di "bergamini", i braccianti delle stalle sostituiti negli anni successivi da contadini polacchi e indiani, accanto alla meccanizzazione sempre più sofisticata. Erano le conseguenze del Piano Verde n. 1 del 1961 e del n. 2 del 196 che aveva messo a disposizione delle aziende credito agrario agevolato e anche contributi a fondo perduto per l'acquisto di trattori, seminatrici, trebbiatrici, macchine per la raccolta meccanica e per alcune infrastrutture fondamentali, mentre successivamente si è passati a sostenere la cooperazione agro-industriale con la costruzione di cantine sociali, oleifici, latterie, caseifici, macellerie, stalle. Mitico è rimasto l'esempio delle stalle sociali in Emilia che dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta e in alcuni casi a tutto il Duemila ha rappresentato un modello di conduzione agraria, oggetto di studio da parte di molti paesi. Questa struttura fu l'unico strumento di opposizione e di contrasto allo strapotere della Democrazia Cristiana esercitato attraverso la Federconsorzi. Approfittando del sostegno di governi amici, la Federconsorzi aveva assunto una posizione di monopolio nelle campagne italiane, soprattutto nella vendita dei mezzi tecnici necessari all'azienda agricola. Fu creata la "cambiale agraria", una sorta di prestito garantito dalla produzione dell'annata che i Consorzi Agrari avrebbero ritirato, stabilendo prezzi e modalità. Fu una vera e propria rapina, ma questo sistema assicurò ai contadini una relativa sicurezza nell'approvvigionamento di concimi, mangimi, foraggi, fertilizzanti, antiparassitari chimici. Sul piano della trasformazione della produzione e della commercializzazione furono create strutture di secondo grado che, pur tra gestioni autoritarie e di parte, hanno consentito la certezza del raccolto. Ma anche nelle attività proprie dello Stato, come l'ammasso del grano, la Federconsorzi svolse un ruolo egemone. E' proprio in questo ultimo campo che i comunisti si presero una rivincita che avrebbe dato i suoi risultati all'inizio degli anni Novanta. Negli anni Cinquanta, l'economista agrario Malio Rossi Doria denunciò che nei pagamenti allo Stato mancavano molti miliardi di lire, che la Federconsorzi occultava per destinarli al finanziamento della Coldiretti e dei suoi funzionari. Il PCI non abbandonò la denuncia nel Parlamento e del Paese, nonostante i tentativi di insabbiamento e ogni anno continuò a protestare per il mancato pagamento di quanto dovuto, a cui la DC rispondeva che si trattava dei finanziamenti che lo Stato avrebbe dovuto pagare per il servizio reso pnelll'ammasso del grano. Nei bilanci della Federconsorzi venivano regolarmente iscritti questi presunti crediti, valutati in molti miliardi di lire. Ma quando il ministro dell'agricoltura Vito Saccomandi si rifiutò di approvare il bilancio dell'organizzazione, il fallimento fu inevitabile. Un immenso patrimonio fu posto in liquidazione. IL PDS, erede del PCI, al governo alla fine degli anni Novanta, sostenne la trasformazione dei consorzi territoriali in vere e proprie cooperative, con la verifica dei soci aventi diritto e l'elezione democratica degli organismo dirigenti, come in ogni altra cooperativa. Parte del patrimonio fu così salvato e come triste testimonianza del passato resta il palazzo romano di Piazza Indipendenza, occupato da sbandati e immigrati di colore. Finiva così, dopo cento anni, tra arresti e condanne, la storia di questa struttura agraria che ha svolto un ruolo molto importante per lo sviluppo dell'agricoltura.
Sul piano delle strutture di trasformazione agricola e di commercializzazione un contributo era stato dato dagli Enti di Sviluppo, nati dalla trasformazione degli enti di riforma. In alcune occasioni si sono trasformate in vere e proprie strutture agro-industriali, portando il progresso tecnologico in zone periferiche e dando vita a centri di ricerca e di assistenza tecnica. Il vecchio modello delle cattedre ambulanti veniva definitamente abbandonato, creando una rete di formazione professionale, sul modello tedesco e olandese. I risultati dell'operato degli Enti di Sviluppo non sempre sono stati all'altezza delle necessità.
Nel 1987 la Federbraccianti, che aveva avuto tra gli altri dirigenti come Feliciano Rossitto e Donatella Turtura, dopo le dure lotte contro il caporalato, le gabbie salariali, la parità assistenziale e previdenziale, culminate nell'eccidio di Avola nel 1967, fu costretta a mutare la sua natura, trasformandosi in organizzazione dei lavoratori delle aziende agro-alimentari, dando vita alla FLAI, unificandosi con la FILZIAT, sindacato degli alimentaristi. L'ultima fiammata fu la strenua difesa dell'azienda Maccarese dai tentativi di privatizzazione con destinazione prevalentemente extra agricole. A termine di una lunga discordia tra l'IRI e i lavoratori che coinvolse anche gli enti locali, l'azienda fu ceduta alla famiglia Benetton, in seguito ad asta pubblica. Un lungo cammino storico si concludeva per il sindacato che era stato il simbolo della lotta nelle campagne, come i metalmeccanici lo erano nelle fabbriche del triangolo industriale.
La lotta al caporalato è stata la direttrice principale della nuova organizzazione, oltre alle nuove tematiche imposte dai mutamenti della società nel campo della distribuzione agro-alimentare e dalla globalizzazione. Tematiche nuove che, oltre a rivendicazioni salariali, imponevano l'organizzazione del lavoro nelle nuove condizioni dell'azienda agricola e la difesa della dignità della persona. A ciò si aggiunse una nuova emergenza, quella riguardante l'integrazione sociale di centinaia di migliaia di immigrati, costretti ai lavori stagionali in condizioni spesso disumane. Se per gli addetti alla stalla, all'allevamento bovino, suinicolo ed avicolo della Pianura padana l'integrazione è relativamente più semplice, per i lavoratori del settore ortofrutticolo, olivicolo e vitivinicolo tutto è più complicato, sia per l'assenza di servizi alla persona che di sedi di assistenza. Da qui il ritorno prepotente del caporalato in tutta l'Italia meridionale, piaga storica delle campagne. La natura dei lavori stagionali è la causa principale di questa nuova forma di schiavitù! Rivolte locali dimostrano le difficoltà dell'integrazione, ma l'orizzonte del sindacato quello dell'integrazione. L'esperienza del Comune calabrese guidato dal sindaco Mimmo Lucano dimostra che questa è la strada giusta, anche se quell'esperienza è terminata tra vicende giudiziarie talvolta esagerate. Ma quello resta un positivo esempio di gestione orizzontale integrata del territorio. Gli eredi del PCI non sempre si sono battuti con continuità sulla strada della intersettorialità, finendo con isolare il problema dell'immigrazione come ordine pubblico ed emergenza per il mantenimento della sicurezza.
Esito diverso ha avuto la Federmezzadri che ha visto con il passare degli anni, ridurre sempre più il suo peso per la crisi irreversibile della mezzadria. I poderi cessavano l'attività per la fuga dei giovani verso la città e l'industria, pertanto la prospettiva della proprietà della terra restava un miraggio. Nel 1975, Renato Ognibene prendeva atto della realtà e si schierò a favore della Costituente dell'Unità Contadina, fronte unitario fortemente voluto da Pio La Torre e dal socialista Giuseppe Avolio. Dopo anni di discussione e superamenti di ostacoli di ogni genere e di incomprensioni, nasceva la Confederazione Italiana Agricoltori dalla fusione dell'Alleanza dei Contadini, della Federmezzadri e dell'Unione Coltivatori. Nasceva così la Confederazione Italiana Coltivatori trasformata dieci anni dopo in Confederazione Italiano Agricoltori per segnare la rottura con il passato. Novità positiva nel panorama frastagliato del sindacalismo italiano. Al congresso di Roma, presidente fu eletto Giuseppe Avolio, vice presidenti Attilio Esposto e Renato Ognibene. Veniva così sancito il percorso politico organizzativo per cui si era battuto fino alla morte Ruggero Grieco. Alla nuova organizzazione il PCI ha guardato con attenzione e interesse, anche per la novità che costituivano le sue proposte dal punto di vista ideologico e della politica economica e sociale. Molti comunisti si sono impegnati sul territorio per costruire un'organizzazione autonoma, riconoscibile nella nuova identità e nella proposta di un fronte unitario con tutte le altre organizzazioni agricole, nel tentativo di superare le divisioni provocate dal collateralismo di ogni parte. Massimo Bellotti dette un contributo importante, forte della sua esperienza di dirigente comunista emiliano e di cooperatore.
Bisogna riconoscere che, dopo la fondazione della nuova organizzazione agricola, Luciano Barca, responsabile agrario nazionale, gettò il peso del suo prestigio nel Partito, oltre che di economista, per accrescere il peso che l'agricoltura meritava nella politica comunista, nell'economia e nella società. Il suo stimolo per un programma di investimenti rivolto all'impresa agricola, singolo e associata, portò alla fine degli Ottanta all'intesa con il ministro Filippo Maria Pandolfi per l'approvazione della legge sul finanziamento all'impresa, utilizzando anche l'esperienza della legge Marcora sulle cooperative.
Il coordinamento tra le diverse organizzazioni, sulla difesa del reddito dei produttori per ciascun settore, per la contrattazione interprofessionale e per la gestione degli aiuti comunitari e dell'assistenza tecnica ai produttori fu assegnato al Centro per le Forme Associative e Cooperative (CENFAC) che svolse una funzione opportuna, grazie all'impegno di dirigenti come Oddino Bo, Pietro Coltelli, Fulvio Gressi, Attanasio Mavrulis, Giuseppe Vitale. Il contributo dei comunisti per affermare gli accordi professionali per singole produzioni fu molto innovativo, respingendo tendenze assistenziali e corporative. Lo stesso ruolo delle Associazioni dei Produttori come strutture di gestione dell'intervento comunitario richiedeva rigore e grande capacità di controllo della stessa base sociale. L'agricoltura aveva così conquistato un peso organizzativo nelle sue diverse articolazioni strutturali e sindacali. Entrò a pieno titolo come attore della rinascita del Mezzogiorno, diventando elemento imprescindibile di qualsiasi scelta di politica economica.
La Questione meridionale finì per assumere la giusta dimensione intersettoriale, grazie al contributo teorico e progettuale dei comunisti, a partire da Emanuele Macaluso, superando lo schematismo iniziale della Cassa per il Mezzogiorno. Il vasto programma di opere pubbliche funzionale al superamento del distacco tra Nord e Sud fu portato avanti purtroppo in modo burocratico e soprattutto clientelare. L'industrializzazione del Mezzogiorno non decollò e neanche gli interventi di IRI ed ENI riuscirono a colmare il vuoto storico. Tuttavia, piccole opere strutturali come acquedotti, fognature, elettrificazione, edifici scolastici e difesa del suolo furono portate avanti grazie alla dura battaglia dei comunisti meridionali. Lo stesso si deve dire per il progetto di difesa del suolo e del territorio, lanciato dopo le alluvioni del Polesine, della Calabria, di Firenze e dopo il crollo della montagna dissestata sulla diga del Vajont. La denuncia costante dei comunisti in Parlamento e nel Paese portò alcuni risultati positivi, ma da parte delle forze di governo è mancato un disegno organico e strategico. La difesa del territorio comprende a piano titolo l'agricoltura montana e le zone interne, investite dall'abbandono delle campagne in conseguenza della crisi agraria che colpì tutti i paesi industrializzati e portò allo spopolamento di interi territori. Carlo Levi parlò di fine della civiltà rurale, le cui conseguenze si sarebbero viste con l'inurbamento disordinato delle città industriali e con la crescita del disadattamento sociale. Pier Paolo Pasolini denuncerà, incompreso e irriso, il dissesto ambientale con la scomparsa delle lucciole e tramonto del rapporto dell'uomo con la terra. Il progetto per la montagna non prese mai slancio, come tante altre iniziative nate sulle spinta di emergenze economico-sociali, come il Piano di Rinascita sardo. Furono anni molto difficile per l'agricoltura. Il terrorismo accentuerà questo distacco della città dalle campagne con la conseguente disgregazione di grandi valori morali, su cui aveva insistito Antonio Gramsci per la rinascita dell'Italia, nelle sue riflessioni. I Quaderni dal carcere restano ancora il maggior trattato politico, culturale e di filosofia del Novecento.
LE REGIONI
La debole struttura statuale, ancora lungi dal consolidarsi come fattore democratico nella coscienza della popolazione, indusse i comunisti ad assumere un atteggiamento cauto verso l'istituzione delle Regioni. Per altro, l'esperienza di quelle a statuto speciale, sorte subito dopo la guerra, non era proprio esaltante. Le preoccupazione riguardava il pericolo di fughe autonomistiche o di politiche autoritarie dei settori politicamente più retrivi della società italiana. Ma la forte spinta proveniente dal territorio per governare su basi programmatiche, con obiettivi nazionali da gestire territorialmente, finì con spingere il Partito per l'approvazione delle legge istitutiva delle Regioni a statuto ordinario. Le elezioni per la costituzione della prima assemblea regionale si tennero nel maggio del 1970.
Si è tratto di un momento importante nella crescita democratica dell'Italia e il contributo dei comunisti fu significativo, impegnando i dirigenti più qualificati come Bruno Ferraris, Sergio Cavina, Elio Gabuggiani, Enzo Modica, Renzo Laconi, Maurizio Ferrara per citare i più noti, esperti di politica istituzionale oltre che uomini di cultura. Furono chiamati a svolgere l'impianto della politica agraria i dirigenti più preparati, come Emilio Severi e Giorgio Ceredi, per ricordare soltanto alcuni nomi di quella stagione esaltante nel processo costitutivo. Negli anni successivi lo sforzo fu intensificato, anche perché il risultato elettorale premiò i comunisti con la conquista di centinaio di nuovi comuni e cinque Regioni.
Fu la base per costruire il Piano Agricolo Nazionale. Esso nacque come esigenza di rispondere al crescente deficit alimentare del Paese, provocato dalla prolungata crisi agraria e dall'abbandono delle terre, nella speranza di destinarle a suoli edificabili. Furono Pio La Torre e Giovanni Marcora che, in collaborazione con gli altri partiti della maggioranza del governo di solidarietà nazionale, rese possibile l'impegno per adottare la programmazione economica come nuovo modo di governare. Il ruolo delle Regioni fu decisivo nella prima fase. Ognuno ha compiuto uno sforzo notevole di progettualità dalla quale nacquero piani di zona e di settore che segnarono positivamente la legislazione regionale. Negli anni successivi, venuto meno lo spirito di unità, molti progetti furono snaturati e abbandonati, vanificando il grande sforzo iniziale. Burocrazia, clientelismo, provincialismo, miope localismo elettorale a provocare il generale arretramento del disegno di democrazia economica su cui erano nate le Regioni. La PAC (Politica Agricola Europea) intanto evolveva verso forme d'intervento che superava gradualmente la mera difesa de produzioni, ma con l'adozione della strategia territoriale imponeva il Piano rurale che le Regioni hanno adattato alle singole realtà. Si trattava di creare le condizioni per garantire l'utilizzazione di tutte le risorse, collocando l'agricoltura e l'impresa agricola come presidio per la difesa del territorio, per la valorizzazione dell'immenso patrimonio naturalistico, storico, monumentale e artistico per un grande progetto di rinascita delle campagne. Puntando anche sulle nuove professionalità che ha espresso la famiglia agricola, grazie alla scolarizzazione e agli studi universitari di molti giovani coltivatori. Questo era il cuore di quel Nuovo Rinascimento di cui tanto si è parlato, di quel cuore della Grande Bellezza dell'Italia rappresentato dalla sua unicità e irripetibilità nel Mediterraneo. Ma si è ancora lontani dal superamento del distacco tra città e campagne e soprattutto tra Nord e Sud del Paese.
LA NASCITA DELLA COMUNITA' ECONOMICA EUROPEA
Il lento allontanamento dallo sfera d'influenza dall'URSS, portò il Partito Comunista Italiano a guardare con attenzione al progetto delle Comunità Economiche Europee previste dal Trattato di Roma del 1957, inizialmente guardato con ostilità. Veniva considerato in funzione antisovietica e quindi pregiudiziale all'ordine di Jalta. Giorgio Amendola, responsabile economico per lunghi anni, spinse la riflessone interna fino a raggiungere un punto unitario partendo dalla presenza nel Parlamento Europeo, costituito nel 1964. Nel 1969 proprio Giorgio Amendola, insieme a Nilde Iotti, veniva designato tra i rappresentanti italiani a Strasburgo e sarebbe stato eletto dieci anni dopo con l'introduzione del suffragio universale. Con Giorgio Amendola e successivamente con Giorgio Napolitano i comunisti si sono guadagnati un posto di rilievo nella storia dell'Europa Unita.
L'agricoltura era parte decisiva della politica comunitaria. Il ruolo nazionale di un partito come quello comunista non poteva prescindere dall'occuparsi di questa materia. Nel 1974 si è tenuta a Verona la IV conferenza agraria proprio sulla Politica Agricola Comune. Faceva seguito alla conferenza di Sesto Fiorentino nel 1967 sul dissesto idrogeologico, a quella di Bari nel 1971 sulla Rinascita del Mezzogiorno e a quella di Pugnochiuso sulle Regioni appena costituite. Il Partito guardava all'Europa con quell'attenzione che avrebbe posto successivamente alle politiche del Mercato Unico Europeo e dell'Unione Europea e l varo della moneta unica, quell'Euro che soltanto a pensarci oggi appare come un vero e proprio miraggio. Eppure, l'impegno dei comunisti ha portato a riprendere il dialogo all'interno dell'Internazionale socialista, essendo venuta meno la pregiudiziale dei socialisti europei. Il merito va a Giorgio Napolitano e a Massimo D'Alema per il lavoro svolto proprio a livello delle istituzioni parlamentari. L'intesa non ha portato soltanto risultati politici, ma anche economici. Durante il governo di solidarietà nazionale, il ministro Giovanni Marcora riuscì a strappare misure di sostegno per l'agricoltura mediterranea, note come Pacchetto mediterraneo, che contribuirono a migliorare il reddito degli agricoltori. Come sempre succede, la criminalità organizzata tentò d'impadronirsi della gestione delle risorse europee, determinando una serie di scandali che fortunatamente non hanno intaccato la credibilità dell'Italia. L'atteggiamento dei comunisti è stato inflessibile e nell'estremo contrasto alla criminalità, guadagnandosi stima e riconoscimenti politici e istituzionali.
Nel 1967 è stata abolita l'enfiteusi e la colonia migliorataria per merito della legge voluta dal comunista Angelo Compagnoni; qualche anno dopo si giunse alla riforma dei patti agrari, ovvero dell'affittanza, che passò alla cronaca come legge De Marzi-Cipolla, quest'ultimo comunista siciliano impegnato nella lotta alla mafia e prima ancora nell'occupazione delle terre. La novità principale riguardava la proroga dei contratti e la determinazione del canone di affitto in base al reddito catastale del terreno. Alla trasformazione volontaria della mezzadria in contratto di affitto si giunse negli anni Ottanta, dovendo prendere atto che non c'erano più le condizioni economico-sociali per procedere diversamente. Si concludeva così la lotta del per la terra che i contadini italici e italioti avevano iniziato con i Gracchi al tempo della Roma repubblicana. Duemila e cinquecento anni trascorsi tra sogni, rivolte, speranze, sacrificio della vita, ma ben spesi alla fine per onorare la Madre Terra.
LA LOTTA CONTRO LA CRIMINALITA'
La mattina del 30 aprile 1982 a Palermo, in corso Calatafimi, la vettura su cui viaggia Pio La Torre per recarsi nella sede del Comitato Regionale del PCI si trova la strada sbarrata da due motociclette. Scendono due uomini armati di pistola e sparano ripetutamente, uccidendo il dirigente comunista e il suo autista Giuseppe Di Salvo. Un orrendo delitto che lascia sgomenta la città e turba profondamente l'Italia. I segni di un delitto di mafia sono inequivocabili. Due giorni dopo una folla immensa rende omaggio alle vittime in piazza Politeama. Perché Pio La Torre, impegnato nella lotta senza quartiere contro la base missilistica americana di Comiso e per il suo impegno contro la mafia e la criminalità organizzata in generale, è il simbolo della legalità. E' una lotta di lunga durata quella ingaggiata da Pio La torre, iniziata a Corleone negli anni Quaranta contro Luciano Liggio e in difesa di Placido Rizzotto e della sua cooperativa agricola. Proseguita negli anni dell'occupazione delle terre e per contrastare il sacco edilizio e urbanistico al tempo della espansione urbana incontrollata in tutta la Sicilia. Numerosi braccianti e lavoratori perdono la vita, vittime della criminalità che si andava trasformando da mafia campestre al servizio dei baroni latifondisti e degli agrari arricchiti con le usurpazioni del demanio pubblico e della liquidazione della manomorta ecclesiastica, in mafia urbana legata agli affari. Nasce l'intreccio tra criminalità e politica che La Torre denuncia implacabilmente e che porta alla legge sull'associazione mafiosa e sull'adesione esterna. La legge La Torre-Rognoni, da nome del ministro Virginio Rognoni, consentì alla magistratura di avviare indagini a tutto campo e di aprire processi memorabili, come quelli contro i cugini Salvo, nelle cui maglie è incappato Giulio Andreotti, assolto dopo un lunghissimo processo.
Ma l'impegno dei comunisti contro la criminalità ha dispiegato il suo potenziale nell'intero Paese, combattendo gli illeciti nella Pubblica Amministrazione a ogni livello, denunciando costantemente abusi negli appalti pubblici e nelle attività amministrative su tutti i piani. La bufera dell'inchiesta Mani pulite non ha risparmiato numerose amministrazioni locali condotte dai comunisti, ma la cultura della legalità aveva prodotto i suoi frutti e soltanto in pochi casi si è giunti a condanne processionali. Anche l'indagine sul finanziamento illecito dei partiti, che ha portato alla disintegrazione di partiti storici e al tramonto di politici potenti e detentori di un grande prestigio, ha visto soltanto marginalmente coinvolto il PCI, nonostante l'accanimento di alcuni pubblici ministeri. Al centro di numerose iniziative dei comunisti vi è stata la corretta utilizzazione degli aiuti europei all'agricoltura in settori strategici. Anche le cooperative aderenti alla Lega e le associazioni di prodotto furono coinvolte nelle indagini, ma ne sono uscite generalmente immuni e pulite.
Simbolo di questa lotta contro la criminalità sono tanti magistrati assassinati, di cui Giovanni Falcone e Nino Borsellino sono assurti ad emblema del sacrificio, rappresentanti delle forze di polizia fino al generale Alberto Dalla Chiesa, giornalisti, uomini politici. Ma Piersanti Mattarella, presidente DC della Regione Siciliana ucciso qualche anno prima e Pio La Torre sono il simbolo di questa terribile battaglia contro criminali forze potenti e ramificate in tutto il Paese e all'estero, come ha messo in evidenza il maxiprocesso di Palermo. Tuttavia, è il nome del comunista Pio La Torre che è assurto a testimonianza straordinaria del sacrificio fino alla vita per la legalità e la giustizia.
CONCLUSIONE
Il contributo dei comunisti italiani nel corso di un secolo dalla loro nascita è stato positivo e rilevante, sul piano teorico e su quello della lotta concreta. Anche dopo il crollo del muro di Berlino e la nascita del Partito Democratico della Sinistra, la politica agraria condotta in Europa e in Italia, nel Parlamento Europeo e nazionale, nelle Regioni, nella società prosegue sulla strada tracciata nei decenni precedenti, con necessari adeguamenti e innovazioni. Si può affermare senza nessuna preoccupazione di smentita che senza il contributo dei comunisti, le campagne italiane sarebbero profondamente diverse. Nessuno può affermare il contrario.