
PER ROMA.
LUIGI PETROSELLI
A QUARANTA ANNI DALLA SCOMPARSA
di Walter Tocci*

Quando mi capita di raccontare l'opera di Petroselli a un giovane appassionato dei problemi di Roma, avverto sempre il suo stupore, mentre mi rivolge la domanda, ma era davvero così bravo? E come è stato possibile, mi chiede, che in soli due anni facesse tante cose importanti?
Noi che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo, di lavorare con lui, di aver imparato da lui, proprio noi che pensiamo di sapere tutto di lui dovremmo essere capaci di ricordarlo e di studiarlo con la curiosità del mio giovane interlocutore.
D'altronde è stato così anche durante la sua vita, da capo partito e da sindaco. All'inizio del mandato c'era una diffusa incredulità sulle possibilità di successo di quello che era stato fino a quel momento solo uomo di partito. Ma ben presto amici e avversari si accorsero di aver sbagliato la previsione.
Siamo in grado di stupirci ancora di Petroselli quaranta anni dopo? Non gli renderemmo onore facendone un santino. Se vogliamo ravvivarne la memoria va compreso nella temperie del suo tempo, nei turbamenti del suo animo, nelle tremende sfide politiche che ha affrontato.
Tutto in due anni
Non solo ha fatto
tutto in due anni, ma soprattutto in anni cruciali, nei quali si aprono
problemi che nessuno sarà in grado di risolvere nel successivo quasi mezzo
secolo.
Tra il '79 e l'81 cambia verso la storia del mondo, finisce il ciclo dei così
detti Trenta Gloriosi e inizia quella rivoluzione conservatrice
che poi si è fatta regime in grado di resistere a tutti i suoi insuccessi, la
bassa crescita, le bolle, le disuguaglianze.
In due anni la vicenda italiana e quella mondiale sono scosse dall'urto tra
un'epoca che declina e un nuovo ciclo che s'impone. Per il suo carattere
storico Roma più di altre
città avverte come un sismografo i movimenti tellurici del passaggio d'epoca.
In questa faglia storica emerge la grandezza di Petroselli che attraversa i
conflitti portando in salvo il patrimonio di valori e lottando contro il tempo
avverso. È la grandezza della politica quando si misura con il destino storico.
Petroselli dimostra che proprio in quel momento a Roma è necessario il sindaco comunista: quando cioè comincia l'epoca che porterà al distacco delle masse dalla politica, che oggi si misura con la partecipazione al voto sotto il 50%, proprio in quel momento il rappresentante del movimento di emancipazione delle classi subalterne è in grado di rigenerare il rapporto tra popolo e istituzioni. E davvero mai come in quei due anni la città si è riconosciuta con tanta intensità nel Campidoglio. La soluzione dei problemi quotidiani per Petroselli è l'occasione per chiamare i cittadini a partecipare al cambiamento e alimentare il senso di appartenenza alla comunità cittadina.
Lo stile di governo di Petroselli anticipa la riforma istituzionale dell'elezione del sindaco. Pur all'interno del sistema proporzionale inventa una relazione diretta con i cittadini, non come sarà in seguito per destrutturare i partiti, ma anzi per rinvigorirne la funzione democratica; non per alimentare un narcisismo, ma per dare fiducia all'azione collettiva. Utilizza forme di comunicazione innovative per quei tempi: le risposte in diretta nelle trasmissioni di Video Uno, il docufilm con Ninetto Davoli e Sergio Citti, e in particolare il ricevimento dei cittadini in Campidoglio; talvolta capita che qualcuno entri nella sua stanza dicendo "nun devo chiede niente, volevo solo capì se è vero che ce ricevi, e mo' sto bene". E se ne va.
Per la sua riconferma nelle elezioni dell'81 ottenne un risultato strabiliante, con 130 mila preferenze e la percentuale di lista più alta della vetta del '76, il migliore risultato nelle città italiane. In soli due anni recuperò tutti i consensi perduti solo qualche mese prima della sua elezione nelle politiche che si tennero dopo la fine dei governi Andreotti. Dimostrò che si poteva tornare a vincere, anche se non poteva bastare la leva amministrativa, perché la sconfitta del '79 si era consumata con crolli del 10% proprio nelle borgate e segnalava un logoramento di natura politica del radicamento popolare.
Posso sbagliare, ma credo che avesse una percezione del rischio di declino del suo partito in quei difficili anni Ottanta. Non bisogna dimenticare che fece il sindaco in una fase di disorientamento del vertice comunista, tra il '79 e l'81, dopo la presa d'atto del fallimento del compromesso storico e prima della proposta di alternativa democratica. Era stato tra i più convinti nel porre fine all'intesa con la Dc, ma poi ha temuto che il passaggio all'opposizione potesse alimentare l'illusione di un'autosufficienza delle virtù del Pci, di una regressione difensiva, e perfino di un rigurgito di settarismo. Era invece convinto che proprio il passaggio d'epoca andasse attraversato con coraggio politico, con una innovativa cultura di governo, con un rilancio dell'unità a sinistra. Sulla vexata questio dei rapporti con i socialisti aveva dimostrato a Roma di saper coniugare il forte spirito unitario e il ruolo propulsivo, mai subalterno, nell'alleanza. Due posture che nel frattempo si divaricavano tra i massimi dirigenti nazionali del partito, chi per eccesso in un senso chi per eccesso nell'altro.
Alla fortuna delle giunte di sinistra, purtroppo lo dimentichiamo spesso, apportarono preziosi contributi i socialisti romani. Alberto Benzoni aprì il Campidoglio ai movimenti libertari degli anni settanta. Pierluigi Severi elaborò soluzioni riformiste, che allora sembravano azzardate a noi comunisti, ma poi furono riprese dalle amministrazioni di Rutelli e Veltroni. I due prosindaci, così diversi, ma entrambi ispirati dall'idealità socialista, stabilirono una sincera amicizia con il loro sindaco, come si manifestò nel discorso di Pierluigi, il momento più commovente nel giorno dell'addio.

Nella tragica mattina di quaranta anni fa Petroselli espose apertamente nel Comitato Centrale queste sue critiche alla linea politica prevalente. E appena ebbe finito di parlare il suo cuore cessò di battere. Chi era presente racconta che mostrava i segni della fatica accumulata nel duro lavoro di sindaco e nelle tensioni delle trattative per la sua rielezione. E forse si sarà aggiunto anche lo stress emotivo nel parlare per la prima volta in disaccordo con Berlinguer, al quale era legato da un lungo rapporto di collaborazione. La sera prima un fraterno amico e stretto collaboratore nel partito lo sentì per telefono molto preoccupato per l'intervento, ma anche determinato nella responsabilità di esprimere apertamente la sua opinione.
Che misterioso destino, per un dirigente che era stato sempre ortodosso, trovarsi in dissenso solo in due momenti della vita, da giovane sull'invasione sovietica a Budapest e in punto di morte sulla crisi del Pci degli anni Ottanta.
Un'umanità popolare
Anche se non lo dava a
vedere sapeva bene che continuando con quei ritmi di lavoro andava incontro
alla morte. Agli amici più cari, quando cercavano inutilmente di convincerlo a
rallentare, rispondeva citando Epicuro: "La morte non esiste per noi. Quando
noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi".
Qual era allora la vera umanità di Petroselli? Noi quadri di partito
conoscevamo bene la ruvidezza del carattere e rimanemmo stupiti nel vederlo da
sindaco così tanto capace di mettersi in sintonia con le persone. Eppure il
contrasto tra severità ed empatia era solo apparente.
Innanzitutto, perché la durezza era sciolta da una dissimulata curiosità
per le persone; aveva una straordinaria capacità di entrare in
relazione con esponenti di mondi lontani dal suo e curava l'ascolto nel partito
in modo imprevedibile; spesso sembrava non aver recepito una proposta, ma nei
giorni seguenti la faceva propria suscitando lo stupore del proponente.
La severità era applicata prima di tutto a se stesso. La corazza gli serviva a
dissimulare la timidezza e a proteggere la profonda sensibilità umana, che
affiora anche nelle sue poesie giovanili.
Sentiva intensamente il rapporto tra la politica e la vita. Ne parla in una
lettera ad Aurelia: "le battaglie del lavoro non furono mai solo battaglie
contro gli oppressori, ma anche battaglie con te stesso e con l'ambiente che
sta attorno a te e con il passato che sta dentro di te".
La severità era
lo stile che in quel tempo esprimeva la responsabilità e l'appartenenza a una
causa collettiva. Così interpretava la peculiarità del Partito Comunista
Italiano, non come un'organizzazione che bastava a se stessa, ma come
un'infrastruttura democratica al servizio del riscatto delle classi subalterne.
Bisogna leggere il libro di Angela Giovagnoli per capire che fin dalle prime
esperienze giovanili sentì l'adesione al partito come un'immedesimazione con le
speranze dell'umanità popolare. Dopo un'assemblea a
Vallerano non fece a tempo a tornare a Viterbo e volle dormire in sezione che
in quel momento era occupata da un mucchio di grano, un contributo in natura al
finanziamento del partito. Non accettò l'ospitalità nelle case dei compagni con
una motivazione stupefacente: "Voglio dormire sul grano e gustarmi il profumo
che è anche quello dei contadini".
Questa curiosa immagine mi ricorda un personaggio di Italo Calvino: Gurdulù si
immedesima nelle cose che incontra, si tuffa nello stagno per assomigliare ai
pesci. È lo scudiero del Cavaliere inesistente, il quale, invece, è
tanto preso dai suoi principi cavallereschi da perdere il contatto con la
realtà: è il dramma della separazione tra l'ideologia e
la vita. Al contrario in
Petroselli il cavaliere e lo scudiero sono la stessa persona. Il totus
politicus comporta l'immedesimazione con l'umanità popolare.
E tutto ciò si esprime al meglio nell'empatia del sindaco, sia nei momenti
dolorosi sia in quelli gioiosi. Arrivava per primo, spesso inaspettato, nei
luoghi insanguinati dalla violenza e dal terrorismo:
varcò la porta del giornale il Secolo d'Italia distrutta dalle
bombe, la prima volta per un comunista, lasciando stupefatti e riconoscenti gli
avversari di sempre del MSI. E nei momenti di festa era sempre pronto a
valorizzare le passioni civili che sgorgavano dalle speranze di quel tempo.

L'empatia però non era solo uno stile personale, improntava anche i contenuti delle politiche comunali. L'invenzione dei centri anziani attivò una formidabile partecipazione della terza età alla vita dei quartieri; le attività di Città come scuola, organizzate dall'assessora Roberta Pinto, mobilitarono insegnanti e genitori per il tempo pieno e il rinnovamento della didattica; la complicità con il movimento delle donne contribuì alla realizzazione dei consultori e dei nidi, le assemblee di borgata per il piano Acea socializzarono le competenze degli ingegneri con il mestiere degli edili che avevano costruito le proprie case; le conferenze dei servizi pubblici offrirono occasioni di confronto tra i lavoratori comunali, gli utenti e gli assessori; lo sviluppo del decentramento avvicinò l'amministrazione ai cittadini; le manifestazioni di "Corri per il verde", inventate da Giuliano Prasca, indicarono al Comune dove realizzare i nuovi parchi; le varianti urbanistiche per i servizi furono discusse nelle assemblee dei quartieri, l'Estate Romana di Nicolini fece scoprire ai romani il privilegio di vivere nella città eterna.
Concludendo sul
dilemma della sua umanità, possiamo dire che la severità del capo politico e la
generosità del sindaco erano tenute insieme dall'autenticità della persona.
Tutti avvertivano in lui la coerenza tra i principi e la pratica. Il suo metodo
era: fare ciò che si dice e dire ciò che si fa. La trasparenza della politica
coincideva con la sostanza della politica.
La clamorosa popolarità, per dirla con le parole di Franca Prisco, qui
presente, che abbraccio, la clamorosa popolarità di Petroselli deriva proprio
dalla sua autenticità. La gente povera, anche quella meno politicizzata, sente
che il sindaco è dalla sua parte. La stima e l'affetto di tutti si rivela nei
volti addolorati di donne e uomini che sfilano per giorni davanti al suo
feretro nell'aula Giulio Cesare.
E il riconoscimento sincero viene anche dagli avversari. Gianni Letta, che ringrazio per la sua presenza qui oggi, ne onorò la memoria sulle colonne de Il Tempo con queste parole: "Chi, come noi, non può essere neppure per ipotesi sospettato di indulgenza verso i comunisti, deve confessare che considera invidiabile la ricchezza di abnegazione e sacrificio che è il patrimonio storico del partito dei comunisti".
Petroselli è orgogliosamente rappresentante della sua parte politica e ciò nonostante riesce ad essere percepito come il sindaco di tutti. Non c'è contraddizione, anzi una tensione creativa esalta entrambi i compiti.
Il suo operato da sindaco è preparato dal lavoro di opposizione che organizza nei primi anni settanta come segretario del partito. Sotto la sua guida i comunisti romani sono protagonisti delle grandi battaglie ideali di quegli anni, dalla lotta per il disarmo e la pace nel mondo, all'attuazione dei valori costituzionali, all'ampliamento dell'unità antifascista. E sono la forza decisiva nella mobilitazione per il NO al referendum sul divorzio, che raccoglie proprio nelle borgate percentuali di consenso ai massimi livelli nazionali, nonostante le preoccupazioni della vigilia. È merito delle militanti comuniste che dialogano con le elettrici da donne a donne sui grandi temi della famiglia e dei diritti. La cultura femminista diventa esperienza politica di massa.
L'organizzazione di
partito raggiunge una diffusa capillarità,
come non si era mai vista prima e come non sarà mai più in seguito. I militanti
accompagnano e promuovono la partecipazione in tutti i comitati di quartiere,
negli organi scolastici, nelle lotte sindacali, nelle istanze delle categorie,
nella produzione culturale, nelle riforme degli apparati statali. Come scrive
rispondendo a Moravia: "oggi Roma è una
delle città più democratiche del mondo".
Il fermento di partecipazione popolare scosse anche il mondo cattolico. Il
convegno sui Mali di Roma liberò le
energie di trasformazione che promanavano dalla nuova sensibilità del Concilio.
Petroselli diede un
giudizio caustico - con il convegno la Chiesa si è dimessa dal governo con la
Dc, disse - ma non strumentalizzò la divaricazione. Anzi negli stessi giorni
avviò un'intesa istituzionale con il sindaco democristiano Darida,
rafforzando nel contempo l'unità con i socialisti. Non era una scelta
obbligata, anzi la giunta in quel momento era debolissima e poteva essere
facilmente abbattuta. Invece, i comunisti si rimboccarono le maniche, il
capogruppo Ugo Vetere divenne un
sindaco di fatto, e riuscirono insieme ai democristiani e ai socialisti ad
avviare i provvedimenti che poi saranno sviluppati dalle giunte di sinistra,
come il piano di edilizia pubblica e
il risanamento delle borgate.
Fu l'applicazione più brillante della politica del compromesso storico. A
differenza dei governi Andreotti nei quali il Pci rimase impantanato, a Roma
l'intesa con la Dc lo rafforzò come forza del cambiamento.
La trasformazione della città
Sulle realizzazioni delle giunte di sinistra sottolineo due momenti cruciali: il risanamento delle periferie e il progetto Fori.

Nel trentennio precedente lo sviluppo speculativo aveva accumulato un pauroso deficit di infrastrutture. Per colmarlo si attuò, anche per merito del successore - il caro compagno Ugo Vetere - un gigantesco programma di opere pubbliche per scuole, giardini, servizi primari per oltre 2.2 miliardi di euro l'anno, circa dieci volte il livello di questi anni. La stessa macchina comunale che oggi, pur avendo maggiori poteri di allora, si affanna con le buche, a quei tempi seppe realizzare la più estesa rete infrastrutturale italiana, oltre mille chilometri di acquedotti, illuminazione, strade e fogne. Fu decisivo il coinvolgimento e la motivazione dei lavoratori e dei dirigenti comunali. Il sindaco e gli assessori non chiedevano loro favori, ma sapevano motivarli per la riuscita degli obiettivi. Quindici anni dopo da vicesindaco conobbi quei dirigenti ed erano ancora orgogliosi di aver lavorato con Petroselli come autentici civil servant.
È stata la più grande
redistribuzione di risorse pubbliche e favore dei ceti popolari durante il
Novecento. I punti salienti furono la realizzazione dei servizi nelle borgate
abusive, lo sviluppo a grande scala dei quartieri di edilizia popolare e l'eliminazione
delle baracche.
Conservo un intenso ricordo della demolizione del borghetto
di Pietralata, di cui fu protagonista l'assessore, il
compagno Giulio Bencini. La mattina presto
arrivò una carovana di camion e ruspe guidata dall'ingegner Vergari, autorevole
direttore del Servizio Giardini, allora la più professionale tra le strutture
comunali. L'ingegnere, una persona di destra, sembrava un generale di
corpo d'armata investito da Petroselli di conquistare la vittoria sul campo.
Infatti, in una sola giornata - da non crederci oggi - il Comune demolì le
casupole, realizzò al loro posto un giardino pubblico e trasferì gli abitanti
negli alloggi nuovi a duecento metri di distanza. La sera una festa liberò la
tensione accumulata durante la demolizione. Sui volti di donne e di uomini la
dignità di aver conquistato un diritto, quella incontenibile fierezza delle
persone che si esprime nel momento del riscatto sociale. Noi comunisti ne
eravamo orgogliosi e credevamo di aver eliminato per sempre la vergogna delle
baracche. Purtroppo non abbiamo evitato che in quelle periferie sorgessero le
nuove baracche dei sottoproletari del mondo.
Nella storia moderna di Roma solo Petroselli è riuscito a liberare lo sviluppo economico dal giogo secolare della rendita. Fece cambiare mestiere ai "palazzinari" trasformandoli in moderni imprenditori. Li convinse ad abbandonare il vecchio gioco a Monopoly sulle aree fabbricabili e a concentrarsi sulla capacità imprenditoriale nelle costruzioni. Il Comune, infatti, assegnò loro le aree che aveva espropriato ai proprietari per pubblica utilità, eliminando in radice il fenomeno della speculazione e orientando gli investimenti pubblici e privati nella realizzazione di moderni quartieri popolari dotati di tutti i servizi. Negli anni successivi la riforma venne svuotata, ma è sempre rimasta un modello esemplare. Molti imprenditori furono orgogliosi di aver partecipato alla modernizzazione. E alcuni di loro piansero sulla bara di quell'uomo politico che in passato avevano percepito come il principale avversario.
Il progetto Fori ancora oggi è frainteso negli obiettivi ed è ridotto a un contenzioso archeologico su un'area delimitata. Invece Petroselli lo concepì come una strategia di trasformazione dell'intera città, proiettando in una visione tutta politica la proposta che fino ad allora era stata elaborata nei circoli intellettuali da Adriano La Regina, Leonardo Benevolo, Antonio Cederna, Italo Insolera e altri.
C'era anche l'ambizione di rielaborare la romanità. Da sempre era stata catturata dalla retorica antichistica e dal privilegio delle elite. Ora la memoria di Roma antica doveva arricchire la vita popolare e suscitare la trasformazione moderna della città. A tal fine inventò le domeniche a piedi nei Fori. Migliaia di romani si stupirono nel poter passeggiare nella storia, si riconobbero tra loro come protagonisti del cambiamento. E passò subito all'azione eliminando la strada che separava il Campidoglio dal Foro repubblicano e pedonalizzando l'area tra il Colosseo e l'arco di Costantino, che divenne poi il teatro della proiezione del Napoleon di Abel Gance, con la partecipazione del governo francese in una serata da grande capitale europea.
Successivamente il progetto Fori è stato accantonato e a tratti demonizzato. Tuttavia si sono realizzate alcune condizioni al contorno che oggi lo rendono pienamente fattibile. È in attesa solo di un nuovo sindaco che ne abbia la volontà.

Lo stradone poggiato malamente sugli antichi Fori può essere smantellato. Già è stato eliminato il traffico privato e si può rinunciare anche agli autobus una volta concluso il cantiere della metro C.
L'eliminazione dello stradone toglie a quel luogo l'estranea superfetazione assiale e consente di riconoscerlo per ciò che era, un insieme di piazze aperte alla vita urbana di tutti i giorni, per fare una passeggiata, per darsi un appuntamento, per partecipare alla vita pubblica. Invece di chiuderli in un recinto museale a pagamento, come hanno imposto le ubbie ministeriali, i Fori imperiali e quello repubblicano possono diventare i più prestigiosi spazi pubblici contemporanei, accessibili direttamente dalle stazioni della metropolitana e connessi mediante itinerari pedonali con i rioni e con i colli circostanti.
Mi piacerebbe contribuire a superare la querelle storico-politica che in passato ha bloccato il progetto. Da sinistra si è sbagliato nel dare impropriamente un significato antifascista allo smantellamento. E da destra si è sbagliato nel celebrare i fasti imperiali con la grande strada dritta, che è più debitoria del macchinismo novecentesco, molto meno della romanità antica. Chi intende valorizzare la memoria dell'impero dovrebbe apprezzare meglio la riscoperta dei Fori come piazze dell'urbe, invece dello stradone che le ha interrate. Forse un pacato dibattito culturale oggi potrebbe elaborare una simbologia condivisa di quel luogo che appartiene a tutti i romani e ai cittadini del mondo. Se ci fosse a destra qualcuno interessato ne potremmo riparlare.
Con la stesso spirito
vorrei discutere con i conservatori modernisti che vogliono salvaguardare
l'assialità come segno moderno. Segnalo il paradosso di un'arteria a sei
corsie, larga quanto il Gra, che però non serve più al traffico meccanizzato. E
se non svolge più la sua funzione diventa solo un monumento al breve mito
dell'automobile. È una sacralizzazione del macchinismo, piuttosto che un
esempio della razionalità novecentesca. Forse quel luogo ha da celebrare
memorie più durature e molteplici.
Inoltre, la connessione deve ampliarsi all'Appia antica con
la costituzione di un sistema archeologico e
paesaggistico unitario dal Campidoglio fino ai
Castelli. Sarebbe il più bel parco del mondo, una nuova interpretazione della
vocazione cosmopolita di Roma.
Questo è stato il passaggio di testimone tra i due grandi sindaci. Argan chiamò
la cultura architettonica di quel tempo a immaginare la città del futuro, in un
convegno intitolato Roma Interrotta,
perché si basava sull'idea che la carta del Nolli di oltre due secoli prima
fosse stata l'ultima opera moderna. Dei progetti presentati dai prestigiosi
architetti in quella occasione si è persa la memoria ma la vera risposta alla
domanda di Argan venne due anni dopo da Petroselli: la sua proposta sul sistema
Fori-Appia è il superamento della Roma Interrotta, è la più ambiziosa idea
politica del Novecento romano ed è ancora foriera di una visione per il secolo
che viene.
Roma, storia, natura
Il parco archeologico riguarda non solo la direttrice dei Castelli ma propaga nell'intera area metropolitana un nuovo primato del paesaggio e della storia, che ribalta l'impronta fisica della vecchia capitale.
A distanza di tempo si vede meglio che questa idea è strettamente connessa all'altro capolavoro, il risanamento delle periferie. Come dicevo, le vecchie borgate diventarono quartieri dotati di servizi. Tuttavia sono rimasti pur sempre insediamenti isolati, abbarbicati a bassa densità sulle consolari e sul Gra, e circondati dall'Agro romano. Se li vediamo da una foto satellitare sembrano inondati dalle aree verdi, le quali, però, non essendo curate accumulano scarti nei margini e diventano occlusioni urbane. Ci vorrebbe un programma borrominiano a grande scala, ex malo bonum, per trarre il bene dal male. La bassa densità è dannosa per i trasporti, ma ha comunque il vantaggio di aprire i quartieri verso la natura, come non accade più nelle metropoli italiane che hanno saturato il territorio.

Occorre quindi capovolgere la logica territoriale della vecchia capitale. Dalla distopia della frammentazione metropolitana all'utopia della città giardino, che abbiamo riscoperto con il Covid. La Campagna romana non dovrà più essere concepita come un vuoto da riempire col cemento, ma come il pieno di natura e di storia che è ancora in grado di offrire una buona vita ai romani. A partire dalla ricomposizione dei cicli vitali dell'acqua, dell'aria, dell'energia, della terra, del cibo si possono attivare nuovi processi economici, innovazioni tecnologiche, servizi di qualità e la cura del ferro per i trasporti.
A fine Ottocento la
cultura europea si interessò all'Agro romano, e chiese ai dirigenti del nuovo
Stato che cosa ne avrebbero fatto di quelle paludi malariche descritte dai viaggiatori
del Grand Tour. Nel Novecento si è data la risposta peggiore con la
disseminazione dei coriandoli edilizi. Nel nuovo secolo la rinascita della
Campagna Romana può diventare un caso esemplare della transizione ecologica
avviata dall'Europa dopo il Covid.
Ecco come i due capisaldi di Petroselli, il risanamento
delle periferie e l'idea Fori-Appia,
possono riguardare ancora il nostro futuro. Lo dice lui stesso, nel discorso
conclusivo alla conferenza urbanistica, con una meditazione storica che riletta
oggi presenta una pungente attualità:"...[Roma], come in tutti i periodi di
crisi, si interroga in modo nuovo sul passato, che è un modo di parlare del
presente e del futuro, quando [essi] sono incerti". Sembra la citazione di
Walter Benjamin sull'immagine storica che "balena nell'istante del pericolo". È
l'ambizione di ravvivare la memoria come forza di trasformazione della città.
L'antico non può essere abbandonato nelle secche dell'antichità, ma va
rielaborato nella contemporaneità come pensiero dell'avvenire.
Concludendo, queste riflessioni sull'eredità del nostro maestro oggi desidero dedicarle a Roberto Gualtieri.
Caro Roberto, sai bene che il compito è arduo, però hai intorno a te una leva di ottimi amministratori che sono cresciuti negli ultimi anni, e non ti mancherà mai l'aiuto della nostra generazione più anziana.
Per formazione culturale e per esperienza politica conosci il pensiero storico come attività creativa, come politica in lotta con il destino, come coscienza civile della modernità. Sei in grado, quindi, di pensare e agire la capitale nell'unico modo possibile, come opera storica in divenire.
Hai presentato un programma di governo ambizioso e anche realistico. Lo riassumo in modo semplice e impegnativo: aiutare Roma a riscoprire la capacità di stupire se stessa e il mondo.