
PARIGI
di Stefano Lanuzza

Vive inquieto e solo nel Quartiere Latino di Parigi il giovane poeta Malte, autobiografico alter ego di Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 - Montreux, 1926) autore del romanzo diaristico Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910; I quaderni di Malte Lauridis Brigge, 1974, trad. di Furio Jesi).
Viaggiatore dalla natia Praga a Monaco e in Italia Russia Berlino Brema Scandinavia Olanda Spagna Egitto Svizzera, Rilke/Malte si stanzia in una Parigi d'inizio Novecento che mantiene ancora gli ultimi orpelli della Belle époque. Insegue la propria vocazione letteraria maturando l'idea che la poesia riguardi l''esperienza' e riflettendo su sé stesso bisognoso d'una più stabile identità. Fino a naufragare nei pensieri, dissociando la propria mente nelle reminiscenze, nella fantasia e in un angosciato delirio che ricerca invano una salvifica divinità; e l'amore: "Mio Dio: l'amore".

R. M. Rilke
Poco più giovane di Rilke, l'artista figurativo e scrittore viareggino Lorenzo Viani (Viareggio, 1882 - Lido di Ostia, 1936) pubblica nel 1925 un romanzo autobiografico tra i più originali della letteratura italiana primonovecentesca, Parigi, a oggi non debitamente rilevato per la sua rappresentazione senza oleografie della capitale francese: romanzo dove il gergo-vernacolo toscaneggiante anticipa l'argot di Céline e le sperimentazioni linguistico-lessicali di autori più celebrati.
Dopo gli ottocenteschi innovatori linguistici italiani Dossi Faldella Imbriani, e prima dei neobarocchi novecenteschi Gadda Manganelli D'Arrigo, dell'onomaturgo coniatore d'inedito lessico Camilleri o di altri autori indocili alla tradizione del formalismo manzoniano, c'è il metamorfico, iperespressivo, non omologabile linguaggio di Viani col suo culto delle parole vive sempre aderenti alle cose nominate.
Da ragazzo, studente troppo curioso per potersi adattare agli schemi scolastici, indocile autodidatta, Lorenzo è affascinato dall'anarchia e dal D'Annunzio ribellista durante la prima fase d'un fascismo non ancora foraggiato dalla borghesia industriale e dal capitalismo agrario. Pittore di talento, sogna di andare nella Parigi ambìto approdo di artisti e coltiva il mito della Comune socialista del 1871, antimilitarista, anticlericale ed egalitaria, fermata dall'esercito del generale Mac-Mahon che, dal 21 maggio dello stesso anno e in una settimana di repressioni sanguinose (Semaine sanglant), massacra 30.000 comunardi e getta in prigione migliaia di cittadini.
"Vai!" lo esorta l'amico anarco-comunista Amedeo "Parigi è il cervello del mondo!". E lui, pur disapprovato dai compaesani e dalla madre, "si va ad aberintare [perdersi] a Parigi!". Ha venticinque anni e, provvisto di una cartella di disegni, della cassetta dei colori e di qualche libro, con poco denaro e senza sapere una parola di francese, parte speranzoso.
Ma subito la Parigi anteguerra gli si rivela un disinganno, squallida brutale segnata da un'indescrivibile miseria e dall'emarginazione patita da una pletora di derelitti languenti nell'abiezione... Scrivendo in seguito il suo romanzo, forse Viani è anche memore del naturalista Le ventre de Paris (1873) di Émile Zola, tradotto per la prima volta in Italia da Policarpo Petrocchi nel 1880.
Stremati e sempre segnati dalla fame, questuanti indicibilmente miseri e senza speranza, i personaggi di Viani sopravvivono a sé stessi rantolando a ogni passo. Né si rendono conto che la città è per loro un "immane ergastolo". Non è, insomma, la Parigi favoleggiata quella che appare all'emigrato provinciale nei suoi precari soggiorni dal gennaio 1908 alla primavera 1909 e dagli ultimi mesi del 1911 ai primi del 1912; ma un incubo specchiante la "Corte dei miracoli" e i "Miserabili" di Hugo, Le spleen de Paris (1869) di Baudelaire o, costantemente, il 'realismo visionario' di Zola.

Enumerando e descrivendo i suoi personaggi con acre disincanto e con un fiammeggiante periodare espressionistico, Viani riflette o ancor più esalta sulla pagina i suoi soggetti assiepandoli in una "turba rincorsa dalla sventura", solitaria e ammutolita: "Quando il campanone di Notre Dame intronava l'aria col tocco lugubre dell'ordinotte, in fondo al chiostro si accese un lume giallo e i taciturni ci si affilavano come pecore al lume dell'ovile: l'opera pia di Montparnasse ne ingollava tanti [...]. Quella sera io vidi [...] un uomo che aveva la fronte recisa da un taglio lineare [...,] gli occhi sopraffatti dalla pazzia gli schizzavano fuori dalle orbite e si puntavano bramosi sopra un cunicolo, da cui faceva civetta un talpone, grondante lerca [immondizia]; [...] Gli voltava le spalle un uomo che pareva avesse il capo mozzo [...]. Addossato al muro, un uomo dalle gambe sgallate [sconnesse] [...]. Un cieco era stecchito alla ceppa [ceppo] di un albero, sicché pareva uno sterpo [...]. Un mostruoso troncone con la testa schiacciata, con gli occhi di barbagianni, con dei cincìglieri [pezzetti] di braccia teneva le stanghe d'una carriola [...,] c'era ginocchioni un uomo puppato [risucchiato] dal freddo [...]. Al calcio [alla base] di un tiglio uno scheletro cantava nenie religiose [...]. Dall'albero dirimpetto gli faceva le corna un vecchio col ceffo tagliato su quel del demonio [...]. Lungo la muraglia la stenderia umana [i relitti umani] era pietrificata [...] Da quella gente uscì la peste delle iene, quando sconvolgono lo strame, nel serraglio. I ciechi tastoni al muro, gli sciancati sulle grucce, i pazzi come automi". Intorno a loro si aggirano, zombie barcollanti, i lembrugi (gli affamati)... Fortemente spiccano il disgusto dell'autore per l'esistenza degradata dei suoi simili e un sentimento di repulsione: "Fisica, in particolare" scrive D. H. Lawrence introducendo con un saggio del 1929 il romanzo autobiografico di Edward Dahlberg (Boston, 1900 - Santa Barbara, 1977) Bottom dogs (1930; Vita da cani, 1967, trad. di V. Mantovani). "Eccola [, la repulsione], in James Joyce, in Aldous Huxley, in André Gide, in romanzi italiani moderni come Parigi".

Autoritratto di Lorenzo Viani
Com'è diversa l'avvilita Parigi, segnata dalle rovine della guerra, dalla Capitale dell'alta borghesia "scintillante di luci" percorsa agli inizi del 1926 da Thomas Mann (Lubecca, 1875 - Zurigo, 1955) che, nel diario di nove giorni Pariser Rechenschaft (1926; Resoconto parigino, 2021, trad. di Marco Federici Solari), racconta di profumi e bevande raffinate, formaggi rari, pranzi da Prunier a base di aragosta, pane bianco e bouillabaisse, o di soste al Café d'Orsay prodigo di ostriche; oppure d'una cena da Weber in rue Royale. Tra ricevimenti di gala, visite in case lussuose, incontri istuzionali con ministri e alti funzionari statali, conferenze, scambi con scrittori, politici e intellettuali; con escursioni alle Tuileries, soste al Panthéon, al Parco del Palais du Luxembourg, nella Place de Vosges e un indugio contemplativo al Louvre, 'corona' della Ville-Lumière, dinanzi al quadro del "Pellegrinaggio a Citera" di Watteau.

Pellegrinaggio a Citera di Antoine Watteau.
Non la decantata Ville-Lumière, ma un gouffre, una funebre voragine o un seicentesco quadro bruegheliano dell'allegorico Trionfo della morte con reietti brulicanti in gorghi d'inferno appare la città 'gridata' da Viani, percorsa da un piccolo ebreo curvo e rinsecchito, immagine dello smarrimento erratico, seguito da figure di affamati e maschere dolorose mostruose funeste di poeti pezzenti, asceti deliranti, manigoldi cui vanno male i traffici. "Esseri senza destino" li chiama Viani... Scrivere stilizzando l'idioma dialettale, 'dipingendo' e forzando senza pietas la realtà fino a deformarla è la caratteristica della sua narrativa.
Appena giunto nella capitale francese, è prima ospite dei coniugi Fleury, due sciamannati tragici: il monsieur è afflitto da demenza precoce e la madame, cinquantenne che la sera si esibisce in un café-chantant "abbigliata, patinata e unta di grassi", ha un corpo esalante afrori di "serpe morta". Sono caricati d'un insistito espressionismo il concierge, portinaiodalla "dentiera sconnessa", con la moglie dai "denti di bestia morta"; l'editore di musica Monsieur Jutta "imbolsito come una brenna [ronzino]", uno Chabalau cocchiere "rotondo come un bambolotto di gomma" o un'Adrienne Chantilly "grassa e lardosa come un sibarita".
Dopo qualche mese, Viani lascia i Fleury e va a vivere alla Ruche, alveare umano tra le sterpaie, un disastrato casamento-rifugio per artisti nomadi fatto costruire per beneficenza agli inizi del Novecento dallo scultore Alfred Boucher e dotato di "sessantasei studi" di cui lo scrittore occupa l'"atelier A" al terzo e ultimo piano... Evidentemente, memorando il periodo 1909-1912, egli narra di un posto in rapida decadenza se un altro pittore-scrittore toscano, Ardengo Soffici, in visita alla Ruche negli anni 1903-1906, ne fa un ritratto in positivo e quasi ameno in Il Salto Vitale, pubblicato nel 1953.
Una tana squallida è la stanza di Viani, che trova del pari desolata ogni cosa di Parigi: Notre Dame dall'aria precaria e lugubre, Tour Eiffel assurdo "parafulmine", la Senna un gorgogliante angue che 'beve' la vita dei suicidi... Non c'è ritorno, da quelle rive. Né gli piace la monumentalità del Pantheon o del Musée du Luxemburg; e ancora meno gli va a genio Picasso che, nella casa del pittore italiano naturalizzato francese Leonetto Cappiello, è intento ad rimirare soltanto i propri quadri.
Sembrerebbe voler salvare il Louvre, dove s'intrattiene ogni volta che può, specie nei giorni freddi. Sennonché, nella luce smorzata dei saloni, "le deposizioni di Tiziano" gli risultano troppo caricate del pigmento intensivo del "bleu di Prussia", Leonardo gli sembra un "litografo" e Ingres "un ritoccatore di fotografie", Delacroix "un illustratore", Rembrandt uno facile allo "strafalcione", Mantegna un "ritagliatore di figurine con la forbice". Inoltre, gli vien voglia d'accatastare i "quadroni" di Rubens e incendiarli, e "frantumare i Prigioni di Michelangelo". Un qualche riguardo riserva a Goya e a Greco, certo sentendoli congeniali alla propria pittura... In generale, tutti i musei lo annoiano: perciò, "quando si è visto sei, sette, otto sale, le altre si filan via quasi di corsa". Per lo più sconosciuti restano gli atelier di altri artisti, i teatri, i diversi musei, le librerie.
Un po' di ristoro lo cerca alla rue Corvisart, abitata da personaggi giunti da ogni dove "a Parigi come la farfalla capita sulla fiamma" e dei quali si sofferma a descrivere, come dipingendo, le caratteristiche: Percas è "un corvo del Nilo spennato a Parigi; Ceab è malinconico come una pecora; Luisa Varon, un'ebrea di Gerusalemme svuotata come una canna, Emma una levantina scaltra come una gazza"; e un certo Kromeka gli sembra qualcuno "scampato dal capestro". Partiti speranzosi dai propri paesi, si sono ridotti a fare la fame.
"Ma perché sei venuto a Parigi?" chiede Viani a Ceab, stralunato arabo che dice di stare a Parigi per... vedere la neve; e che dopo un mese si spara in testa, e lo trovano "coperto di neve" su una panchina dei giardini del Palazzo del Lussemburgo disertati per il gelo.
Infine, Vieni si mette in viaggio per tornare in Italia: e in treno "sentii esalare dai miei panni la pestilenza della Ruche". Giunto a casa, "Mia madre fece una bracciata degli abiti di Parigi e li buttò in fondo all'orto".
È un altro toscano, Curzio Malaparte (Prato, 1898 - Roma, 1957) che, nel postumo Diario di uno straniero a Parigi (1966) curato di Enrico Falqui, ricorda una Parigi che l'ha profondamente colpito. In Francia è già stato, sedicenne, nel 1914, dopo avere lasciato il liceo Cicognini pratese e attraversato a piedi il confine a Ventimiglia fino a raggiungere Avignone. "Ero un bambino pallido, gracile, timido, e la Francia mi fece da madre. Mi accolse come una madre accoglie suo figlio". Continua: "Il popolo francese non ama gli stranieri, ma li aiuta, li accoglie, dà loro lavoro, pace, sicurezza, dà loro una home".

Il diario malapartiano comprende gli anni dal 1947 al 1949 e mette in ordine i tumultuosi stati d'animo dello scrittore che torna nella Parigi del dopoguerra esplorandone infaticabilmente i luoghi, da quelli periferici e popolari della banlieue ai centri metropolitani, ai salotti del bel mondo frequentati da personaggi della letteratura, dell'arte figurativa o del teatro. Ambienti dominati dal celebre Sartre che, in fondo, "ha una grande influenza non nella letteratura francese ed europea, ma sui costumi di una classe di giovani francesi"; o accoglienti un Guttuso che Malaparte mette nello stesso sacco di "altri pittorelli comunisti"; con la mai dimenticata pittrice Leonor Fini abitante nel boulevard Saint Germain, un bizzarro Cocteau che usa scrivere "su carta sottile, lucida, simile al vetro", "piccoli borghesi [che] scimmiottano gli operai, e i teppisti della banlieue". E vi sono le "donne francesi [che] non ridono più come una volta"...
Talora, ricordando con nostalgia il suo appartamento al 38 del Quai de l'Horloge nell'Île de la Cité dalle parti del Pont Neuf, si ferma a dormire al bar del Crillon. "Non posso dormire nel mio letto" considera. Tuttavia concludendo che "in nessun paese del mondo mi sono sentito così libero come in Francia. [...] Non è concesso a tutti amare, sapere amare, la Francia. Perché amare la Francia, è già essere francese, almeno un poco".