LA CRONISTORIA DI UN ROMANZO:

IL CIELO PER ROMA DI MARIANO BÀINO

di Marcello Carlino


Come in ogni comica muta che non dirazzi, tutto finisce a torte in faccia; del resto, poco prima, su di un medesimo palinsesto, una battaglia a cuscinate aveva risolto una questione d'amore. Lo spreco di panna, mentre i personaggi fanno passerella congedandosi, vale da accompagnamento all'intenzione dichiarata di un depotenziamento del senso: non si è detto nulla di memorabile, non si è voluto dir nulla. Sennonché il lettore, comparso sulla scena con le sembianze evidentemente finte di Sua Grazia, non può cavarsela così; gli si raccomanda, al contrario, di interpretare anche ciò che si nasconde dietro il fatto che non si è detto nulla, che non si è voluto dir nulla. Ecco, il dovere di interpretare resta inscritto nel testo, sancito dal testo, che per altro ammette in opportune digressioni alcune sue logiche costruttive, da tenersi ben presenti al postutto. Insinua fin dal titolo che un po' di Wenders è in gioco, rovesciato però se la sostanza angelica - di cui si discute passim, sulla falsariga delle dispute teologiche - qui è destinata a farsi più carnalmente carne e se gli angeli non stanno sopra, là a Berlino, stanno dentro, ossia "per" - preposizione di moto per luogo - Roma: Il cielo per Roma di Mariano Bàino è uscito di recente per i tipi di Éxòrma. Dichiara che le riprese in citazioni o in allusioni sono pane quotidiano di queste pagine, a cominciare da quelle dantesche, scopertissime. Fa conto che lo spiaccicarsi sul tratto apicale della basilica d'ostacolo al buon Sinesio, che ha messo dimesse ali da angelo, è trascrizione metonimica di un volitare tra terra e cielo, che sa molto più di terra di quanto non sappia di cielo. Ammette che la scena iniziale dell'impatto dell'alato poco alato sulla sfera del pinnacolo del cupolone di San Pietro sa di fumetto e che, come lasciti o rottami di generi dati e sdati, funzionano i riferimenti al giallo, gli accenni alla spy story, i passi di una quête. Riferisce che non v'è agio per l'arte sistematoria e compensatoria del romanzo, ma, semmai, per una cronistoria caotica e confusa, che non cava nessun ragno dal buco. Considera che le diramazioni divaganti e centrifughe sono il sale, sale necessario, di una cronistoria siffatta, la quale ha per oggetto preminente la Roma dello stato vaticano, e che le divagazioni nella scrittura di un romanzo non romanzo impongono che il tempo sia disordinato, cominciandosi da un à rebours all'epoca di Sinesio e di Ipazia, dalla cui specola si scrive al futuro, e transitandosi attraverso una rassegna degli acta di curia di santa romana chiesa (con omissis patentemente parodici), i quali acta, nient'affatto edificanti in un remoto e in un recente passato che continua oggi, si coniugano su tempi verbali durativi, presenti. Concede che le digressioni implichino un'apertura verso forme del contenuto che tendono all'accumulo senza apparente governo e che accade si inscrivano nella cornice di sogni o di deliri e peschino dal basso materiale. Autorizza chiamate di complicità, per accordi e per diverbi, con scrittori e pittori dell'agone culturale, che appare il necessario presupposto (la necessaria commisurazione, tendenza con tendenza e poetica con poetica) di un non romanzo disperso in una caotica cronistoria. Ammette che non può esservi fine per la quête e per il romanzo e che non può essere sciolto l'enigma dell'identità dell'anticristo, se da attribuire al papa regnante ovvero a quello dimissionario - che è dissacrante riferimento caricaturale al presente e alle polemiche di curia e dintorni. Riconosce dall'osservatorio di Roma che la tabe pandemica, a Roma elettivamente metaforizzata nella memoria di uno scenografico assolo, è di fatto consentanea al dominio di un liberistico capitalismo finanziario e nondimeno va resa, e criticamente straniata, attraverso accostamenti agglutinanti e materiche assimilazioni della scrittura. D'altronde la tecnica in uso, in una con l'ideologia letteraria di pertinenza, partecipa della dialettica dell'inversione. Per essa la convocazione al fine di rendere testimonianza, indirizzata ad informati dei fatti, può essere complicata da voci sovrapposte, distraenti e falsificanti, ed è norma che una parola possa pronunciarsi alla rovescia (come, per esercizio, lo stracelebre manzoniano Condè) o possa costruirsi per inusitate sommatorie reversibili, come per un respiro inverso. L'inversione risulta l'analogo (lo specchio espressionisticamente orientato) di una realtà gelatinosa, ameboide, informe, nella quale vattelappesca (il dilemma non si scioglie) chi sia l'anticristo e invece paradiso e inferno sono l'uno accosto all'altro, l'uno fuso nell'altro, l'uno rovesciato nell'altro, come la terra nel cielo per Sinesio, demistificante angelo terricolo il cui cielo non sta sopra Roma.

Sullo stesso argomento ha scritto Gualberto Alvino

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