
L'ITALIA ALLO SPECCHIO.
L'EDUCAZIONE CIVICA
di Ugo Piscopo

Il 22 settembre 2021 leggo su "Domani" (p. 13), quotidiano fondato e diretto da Stefano Feltri su essenziali misure di messa in scena delle notizie e di dialogo col lettore che voglia essere informato non banalmente, un articolo piacevole e insieme problematico sull'insegnamento (evasivo e rinunciatario) dell'educazione civica nella scuola italiana dei nostri giorni.
La nota, interessante e divertita, risolta in chiave autobiografica, a rassicurare che non si tratta di un semplice e ameno intrattenimento mentale, è un essenziale estratto di un libro del medesimo autore del pezzo stampato sul giornale, Claudio Giunta, Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, pubblicato dalla Rizzoli e mandato in vetrina in questi giorni sulla questione della formazione giovanile e su un Paese come il nostro, a cui tanto piace pensare e parlare delle grandi e belle aspettative, ma che nei fatti, per sue consuetudini pressoché istituzionalizzate, smentisce puntualmente sé stesso nell'affrontare e nel non risolvere problemi sui quali tanto appassionatamente e convintamente si parla e ...si avanzano proposte opportune e definitive. Purtroppo, le cose potrebbero e dovrebbero non andare così, ma da noi, qui in Italia, non possono non risolversi se non per definizioni di massima e per proposizioni auree da scolpire e tramandare alle future generazioni, che riprenderanno e rinnoveranno i discorsi e le soluzioni, sempre di estrema dignità formale in una società come la nostra, profondamente segnata dal grande mito del Dolce Far Niente, come viene sottolineato espressamente nella letteratura dei viaggi dell'Europa dal Seicento in qua.
L'articolo in questione, con levità e simpatia di tocco mordi e fuggi, richiama l'attenzione sull'ameno insegnamento di una disciplina, pomposa nella sua enunciazione, ma male e parzialmente identificata nella scuola dagli utenti, sia da parte dei docenti, sia da parte degli allievi e delle famiglie, oltre che degli osservatori interessati ai destini dei processi formativi.
Si tratta dell'educazione civica, una disciplina bella nel nome, ma misteriosa nei fatti. Su di essa, un Don Abbondio del nostro tempo potrebbe fermarsi per strada e chiedersi: "L'educazione civica... e che è mai questa novità? Che cosa mai essa potrebbe, dovrebbe insegnare alle nuove generazioni? E dove mai sta di casa, per sapere che ne pensano i coinquilini? "
In realtà, da noi, in Italia, essa è stata proposta come nuova materia di apprendimento in una fase di slancio in avanti del Paese, uscito molto mal concio dalla tragica esperienza del secondo conflitto mondiale, nelle cui braccia esso era stato gettato irresponsabilmente ed enfaticamente dal fascismo invaghito da folli sogni imperialistici di nuova potenza internazionale.
Nel 1958, Aldo Moro, uno dei maggiori e più affidabili politici, a cui il Paese deve tanto per i nuovi indirizzi di rinascita e di ricostruzione, ha introdotto l'obbligo di formazione nelle scuole con l'insegnamento della nuova disciplina, che dovrebbe collegare i rapporti tra un istituto importante, come il pedagogico-scolastico, con la realtà, aperta a un divenire complesso e in dinamico flusso di tensioni e di innovazioni. Nel DPR n. 585, del 13 giugno 1958, egli inserisce l'insegnamento della nuova disciplina come essenziale veicolo di consapevolezze e comportamenti etico-civici per le nuove generazioni all'interno di un contesto vitale incalzato da esigenze di nuove e feconde interrelazioni nell'ambito della comunità di vita.
Ha avviato, così, un indirizzo essenziale per una cultura autoriflessiva, poggiata su flessibili e rassicuranti reti di sostegno, come nei fatti già è accaduto nel corso dei tempi, a partire da Socrate e da Platone in qua per l'Occidente, e da Confucio in poi in Oriente. Cautamente (e pragmaticamente) con le nuove disposizioni date da Moro, si è cominciato a battere alle porte di ingresso negli orizzonti di nuove prassi.
Ma quale è stata la risposta concreta? Quella maggioritaria di un parlare con vaghezza e grande senso di compiaciuto divertimento, dicendo sì, ma premiando il no, tranne che in rare situazioni di autentiche esperienze di crescita intellettuale e di responsabilizzazione degli operatori, soprattutto dei giovani, da avviare a comportamenti fondati sulla autenticità del dire e del fare in un contesto che è in continuo flusso di fenomenologie e di declinazioni. In breve, si è andati avanti in ossequio della lettera, ma fondamentalmente divertendosi, se possibile, alle spalle di quello che si scrive e si fa apparire come impegno etico, come accade nelle sceneggiature che ce ne dà Claudio Giunta, sia nell'articolo di "Domani", sia nel libro della Rizzoli. Ci si diverte con le andate in scena, sul fondamento di un consenso alla recita di quello che non è.
Certamente, in Italia, la scuola non è tutta qua, perché c'è anche del serio, del profondamente serio e talora drammatico nelle pratiche formative, ma si tratta di eventi minoritari, animati a spese di quelle minoranze più autentiche nel personale dirigente, docente e tecnico, che si attivano nei processi educativi con estrema coerenza e con disponibilità totale a ritrovarsi in quello che si cala concretamente nella vita scolastica. Ma, purtroppo, questi operatori di coerenza e di scommessa di un fare genuino e aperto al futuro costituiscono soltanto una minoranza, che viene guardata con sospetto e diffidenza dalla maggioranza, la quale invece si applica a comportamenti di un fare al risparmio, ripetitivamente e scontatamente, di interventi e di lavoro.
In genere, queste maggioranze seguono con apprensione quanto avviene nella propria scuola o quanto si propone da parte di quegli altri, quelli che lavorano con genuinità e freschezza, sul piano delle programmazioni collegiali, e si divertono sia a metterli in caricatura, sia a metterli drammaticamente sotto accusa di accadimenti a rischio all'interno dell'istituto.
Quanto sto affermando è il frutto dei molti anni di lavoro che ho spesi nella scuola, da insegnante di liceo prima, poi da preside nei licei, infine da ispettore, inizialmente a livello regionale, quindi a livello centrale, con vari e qualificanti premi e riconoscimenti, tra cui quelli di aver riportato il voto più alto allo scritto di italiano fra tutti i concorrenti, sia al concorso di abilitazione regionale, sia a quello nazionale a cattedra, infine quello a firma del Presidente della Repubblica di "Benemerito della scuola, della cultura e dell'arte".
In quanto, poi, alla specifica questione di banalizzazione, di svuotamento e di messa oggettivamente alla berlina dell'educazione civica nel nostro Paese, ho motivi incalzanti per interessarmene. Sono stato, infatti, l'autore del libro dedicato a tale disciplina più diffuso e comprato in Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, come puntualmente hanno segnalato più volte il "Corriere della Sera" e altri giornali, oltre che varie agenzie librarie. Complessivamente gli editori, i Fratelli Ferraro di Napoli, ne hanno distribuito e venduto oltre quattro milioni di copie.
Ero allora, quando ho messo mano al libro, un giovane docente di liceo, scrivevo sull' "Unità" e su "Paese Sera", oltre che su riviste di alto profilo culturale, e m'interessavo dell'idea di una nuova cultura, costituita sulla multi e interculturalità, sull'approccio con le modularità e con le prospettive della nuova scientificità e della nuova tecnicità, su suggerimenti provenienti dagli eredi e continuatori della Scuola di Francoforte, in particolare di J. Habermas. Miei autori di riferimento erano J.-F. Lyotard, M. Bense, G. R. Hocke, G. Anders, L. Mumford, M. Merleau-Ponty, i teorici del postmoderno, G. C. Argan, E. Sanguineti, A. Zanzotto.
Come autore, mi venivo provando, con riscontri incoraggianti, a introdurre nella scuola (licei e istituti tecnici e professionali) testi fondati sull'interculturalità, in cui erano introdotti autori poco noti o del tutto sconosciuti e a trattare questioni di estrema attualità, che richiedevano apertamente nuove ottiche di scandaglio e nuove prese di posizione. Iniziarono a interessarsi di me varie case editrici, tra cui la Mondadori, che mi invitò a un incontro formale e decisivo presso la sede centrale con spese tutte a carico dell'Editore. Prendemmo degli accordi sostanziali, che io dovetti abbandonare poco dopo, in quanto avevo vinto il concorso come ispettore scolastico, che mal si conciliava con quello di autore di testi da comprare da parte degli allievi e delle loro famiglie.
In quel medesimo giro di tempo, si andò a far benedire un grosso impegno, concordato e sottoscritto insieme con Carlo Salinari e tutto un gruppo di intellettuali che si raccoglievano intorno a lui, quello di ripercorrere le vicende italiane dalle origini a oggi della letteratura italiana. L'opera era progettata in cinque volumi, di cui io avrei curato l'ultimo, come era scritto sul contratto degli Editori Riuniti, che dovevano stampare l'opera. Ma, improvvisamente, le condizioni di salute di Salinari peggiorarono ed egli ci lasciò appena a cinquantotto anni di età. Del progetto, non si fece niente, e il gruppo si disperse.
Quanto al mio libro di educazione civica, continuò ad essere un solido punto di riferimento nelle scuole dove c'erano attese di rinnovamento e dove si apprezzavano spunti e suggerimenti per la costruzione di una nuova realtà nel contesto di una contemporaneità inquieta e proiettata verso un futuro eccitante e insieme a rischio.
A questo testo così fortunato io ero arrivato, non per una illuminazione inattesa e gratuita, ma sulla base di riflessioni sui testi analoghi di altri autori, alcuni dei quali erano prestigiosi intellettuali con cattedra all'Università. I loro libri, destinati alla scuola secondaria, erano fondati su una lucida trattazione della materia, talora in stile nitido e raffinato. Come mai, mi chiedevo, questi loro strumenti di divulgazione, dettati con estrema e lucida, talora brillante, competenza non sortiscono risultati e consensi ampi e coinvolgenti nelle nostre scuole? Se il discorso proposto da tali testi è di così alto profilo ed è rispondente alle attese della nuova scuola, come mai lo si lascia dormire tranquillamente in bei libri stampati e non passa nell'immaginario e nelle prospettazioni di vita e di costruzione di un altro futuro tra i giovani e la gente interessata alla scuola?
Ne parlavo anche coi giovani, diretti interessati, o, meglio, disinteressati, che si facevano delle sane risate o si mettevano a raccontare di scenette comiche accadute a scuola quelle rare volte che il docente di storia, a cui era affidato l'insegnamento, ovvero il non-insegnamento della nuova disciplina, ricordava minacciosamente di farla studiare come dovuto. Più di un giovane, però, aveva accennato molto criticamente al linguaggio specifico che veicolava le varie questioni.
Allora, concentrai la mia attenzione sui livelli di comunicazione e sui moduli delle definizioni, tutti disseminati da espressioni tecniche di gergo giuridico. In più, diventava ostativo anche il tono complessivo del discorso, un po' imperioso e astratto.
Così, decisi di scendere io in campo, dalla parte del libro di testo e di trattare aspetti e questioni col supporto di un linguaggio familiare e quotidiano, per liberare il soggetto in formazione da ogni pregiudiziale di gergalità tecnica e coinvolgerlo in un'aura di dialogo con le vicende in questione, che richiedevano interventi e partecipazioni da parte della società civile. In fondo, si parlava di loro e del loro destino, né essi potevano delegare ad altri l'impegno di partecipazione consapevole. Il nuovo libro avrebbe dovuto non parlare ai competenti, ma rivolgersi direttamente a loro, cioè ai giovani e immettere in circolo sollecitazioni a capire e a intervenire nel rispetto delle attese e dei bisogni di tutti e di ognuno.
Quindi, mi misi alla prova e la prova riuscì meglio di come e di quanto mi aspettassi.
Ma torniamo a noi e ai nostri giorni, che hanno bisogno di interventi solidi, affidabili, costruttivi per tutti.
Attualmente urge affrontare, con un ridisegno unitario e stringente sul piano comportamentale, un nuovo profilo della comunità, esposta intanto a situazioni di sgretolamento unitario, a riflussi sotto spinte di formazione di nuove elite, nuovi gruppi di pressione, nuovi atteggiamenti verso sé stessi, i nuovi prodotti e i nuovi saperi. La sfida è seria e richiede energia e chiarezza con sé e con gli altri. Non è più tempo di scherzare. Ce ne dà l'opportunità anche l'insegnamento dell'educazione civica, che è stata riproposta nella scuola con la Legge 20 agosto 2019, n. 92, con gli allegati su legalità e solidarietà, sullo sviluppo sostenibile e sulla cittadinanza digitale.