SPECIALE 100 ANNI DI PCI

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO

STORIA DI RIVOLUZIONARI

di Aldo Pirone

Nel centenario della fondazione del Pci moltissimi sono stati gli articoli di giornalisti, storici, intellettuali e i ricordi e le testimonianze di chi ha avuto la fortuna di militarvi. In generale tutto ciò è stato soffuso da un generale rimpianto per una formazione politica che ha coinvolto milioni di uomini e donne delle classi subalterne, operai e contadini, della piccola e media borghesia progressista e molta parte dell'intellettualità italiana. Ciò ha riguardato anche i dirigenti di quel partito: Gramsci, Togliatti, Di Vittorio, Li Causi, Amendola, Pajetta, Ingrao l'indimenticabile Berlinguer, Natta, Bufalini, e tanti tanti altri. Questo rimpianto è stato tanto più acuto perché ingigantito dalle miserie politiche del presente in cui ad appalesarsi come assai inadeguati, per molti versi anche a sinistra, ad affrontare il dramma che vive l'Italia aggredita - insieme al resto d'Europa e del mondo - dalla pandemia da Covid 19 e dalla crisi economica e sociale profondissima che ne è derivata, sono i partiti di oggi, i loro rappresentanti e dirigenti e l'insieme delle classi dirigenti.

In questo trentennio, dopo la dissoluzione del Pci, sono continuati i tentativi di minare la storia del Pci facendola apparire fin dal suo sorgere, in quel piovoso 21 gennaio del 1921 al Teatro San Marco di Livorno, un susseguirsi di errori. A rintuzzarli non c'è stata più la soggettività collettiva dei comunisti e anche i dirigenti delle formazioni politiche traballanti e declinanti che sorsero dalle sue ceneri si sono ben guardati nel corso degli anni dal coltivare una memoria storico-critica del Pci che sarebbe stata utilissima d'insegnamenti nella lotta politica e sociale della sinistra variamente articolata. E' stata rotta scientemente l'unità di storia e politica postulata da Gramsci come sostanza della "filosofia della prassi", cioè del marxismo inteso come storicismo assoluto. E' prevalsa la rimozione seguita dall'oblio - anche nella sinistra antagonista che si è rifatta più che altro al vecchio massimalismo socialista - non per disattenzione ma per una precisa scelta politica: l'abbraccio di un politicismo pigro ed esasperato che nel dismettere la dimensione sociale della lotta, l'ideale del socialismo e l'obiettivo della trasformazione sociale dettato dalla Costituzione repubblicana, diveniva pateticamente subalterno al pensiero unico delle classi dominanti inturgidite dal neoliberismo rampante e vincente. In questo quadro vi sono stati alcuni che hanno ridicolmente obliterato il loro essere stati comunisti quasi vergognandosi di aver fatto parte del Pci. Non stupisce, perciò, che a contestare le ricostruzioni e demolizioni di comodo, per non dire delle vere e proprie falsificazioni, di una grande storia intrecciata indissolubilmente alla storia nazionale, siano rimasti solo degli storici seri e autorevoli.

L'anniversario della fondazione ha fatto riemergere con una certa forza oggettiva quella che molti intellettuali organici all'establishment moderato e neo liberista, di mente debole e di scarsa professionalità, hanno continuamente cercato di seppellire: il ricordo di un partito che ha svolto un'insostituibile funzione nazionale di emancipazione sociale e di acculturazione politica delle classi popolari. Il fondatore e artefice principale del Pci nella sua fase egemonica, Palmiro Togliatti, ha subìto di questa rimozione le conseguenze più gravi: una vera e propria damnatio memoriae. Non fu neanche messo fra le innumerevoli foto dei numi tutelari italiani e stranieri che presiedettero alla nascita del Pd di Veltroni. E, in verità, viste le performances successive e negative per la sinistra italiana di quel partito, "Il migliore" si sarebbe vivamente rallegrato di quell'esclusione.

A diradare attorno al Pci le nebbie della nostalgia per "come eravamo", da una parte, e della rivisitazione ad usum delphini patrocinata da lorsignori dall'altra, - tipo: l'eterna disgrazia della divisione a sinistra come racconta Ezio Mauro - c'è stata la pubblicazione del bel libro di Sergio Gentili Il partito comunista italiano - storia di rivoluzionari (Edizioni Bordeaux, € 16).Per dirla con il professor Canfora, è la storia della metamorfosi del Partito comunista d'Italia sezione italiana dell'Internazionale comunista (Pcd'I), nel Partito comunista italiano (Pci), artefice fondamentale, insieme con altri partiti antifascisti, della Resistenza, della Guerra nazionale di Liberazione, dell'avvento della Repubblica e della Costituzione democratica.

Gentili affronta il ventennio e poco più di questa trasformazione avvenuta nel fuoco della lotta rivoluzionaria e antifascista e delle sue alterne vicende in Europa e nel mondo. Lo fa non acriticamente, ma con la passione del politico che descrive gli avvenimenti e il dibattito nel partito italiano influenzato e condizionato nel bene e nel male da quello interno al Komintern, dalle vicende dello stalinismo e dalla costruzione del "socialismo in un solo paese" in Unione sovietica. E con questa passione evidenzia gli errori compiuti e le successive modificazioni teoriche e pratiche fino a un arrovesciamento completo delle posizioni iniziali determinate dalle esperienze di lotta antifascista in "tempi di ferro e di fuoco". Il Pci nacque da una scissione sbagliata, promossa su basi settarie con la prospettiva immediata di "fare come in Russia" la repubblica dei soviet e la dittatura del proletariato. "Ci limitammo a battere - scrisse Gramsci tre anni più tardi riflettendo su quel Congresso fondativo - sulle quistioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati [...] fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana". I comunisti italiani invece di dirigere una rivoluzione proletaria, dovettero subìto affrontare l'offensiva violenta e sanguinosa del fascismo - la "più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere" scrisse ancora Gramsci - che in pochi anni instaurò una dittatura di classe spietata, demagogica, populista e nazionalista.

Il partito bordighiano nato a Livorno aveva dentro di sé un germe fecondo: il gruppo ordinovista di Torino. Quando questo gruppo (Togliatti, Terracini, Gramsci, Tasca) su sollecitazione di Gramsci, prende la direzione del partito, avviene una sorta di mutazione genetica. Gentili evidenzia il rapporto di sottomissione disciplinata al Komintern dominato da Stalin e la funzione decisiva di Togliatti - rimasto a dirigere il Pci dopo l'arresto di Gramsci - nel difendere le particolarità dell'azione politica dei comunisti italiani. Gli obiettivi intermedi, la proposta dell'Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini, l'alleanza fra le forze motrici della rivoluzione italiana: la classe operaia e il proletariato agricolo, i contadini del Mezzogiorno e delle isole e delle altre parti d'Italia. Anche i penosi ripiegamenti nella fase del "socialfascismo", l'applicazione disciplinata di una "svolta" che non si condivide - quella del VI Congresso del Komintern nel 1928 ribadita e persino aggravata nel X plenum del kominternista del luglio 1929 - che proclama come imminente la rivoluzione proletaria in Italia, sono subiti. Anche Gramsci in carcere non è d'accordo e mena, metaforicamente, ai compagni di prigionia "cazzotti nell'occhio" esponendo maieuticamente un'analisi della situazione diversa non improntata a un ottimismo strampalato e visionario. Quella "svolta" costa al Pci il sacrificio di funzionari e dirigenti mandati in Italia, subito scoperti e imprigionati dall'Ovra, la polizia segreta fascista, a dirigere uno scoppio rivoluzionario che non c'è, mentre cresce, invece, il consenso al regime fascista divenuto pienamente "regime reazionario di massa". Tuttavia, anche quello, come ebbe a dire Giorgio Amendola, fu un "errore provvidenziale" perché spinse i comunisti a mantenere un'attività clandestina e un contatto con il paese che altri partiti antifascisti non ebbero la forza di organizzare. Al momento opportuno quella seminagione di carcerati, di confinati, di rivoluzionari refrattari al regime mussoliniano, avrebbe germogliato i moltissimi quadri organizzatori della Resistenza e della Brigate partigiane garibaldine.

E poi la fase successiva, che Gentili analizza a fondo, quella vera e propria controsvolta avvenuta nel VII Congresso del Komintern che mette al centro la difesa della democrazia per fronteggiare il fascismo e la politica unitaria dei fronti popolari. E' qui che Togliatti da reprobo buchariniano assurge, accanto a Dimitrov, a figura preminente del Komintern. Ed è qui che inizia a maturare - decisiva sarà anche l'esperienza della guerra civile spagnola in cui la battaglia armata contro il fascismo franchista si nutre di una "democrazia di tipo nuovo" madre della più tarda "democrazia progressiva" - la sua visione di un'avanzata al socialismo per via democratica e nel pluralismo politico e dei partiti. Dietro a quella politica nuova c'è anche la riflessione für ewig di Gramsci sulla diversità non tattica ma strategica fra Oriente e Occidente del terreno in cui si combatte la battaglia per la trasformazione socialista della società, la necessità delle alleanze sociali e dell'egemonia intesa come ricerca del consenso da parte del novello "principe": il partito rivoluzionario.

Ma i condizionamenti staliniani si fanno sentire e in qualche modo ostacolano l'espansività dei partiti comunisti europei nella lotta contro il fascismo avanzante. Mentre in Occidente infuria la battaglia antifascista per bloccare Hitler, Mussolini, Franco e i tanti loro epigoni che agiscono nei paesi democratici, a Mosca si susseguono i processi che distruggono il partito bolscevico di Lenin. C'è una contraddizione profonda fra l'azione antifascista dell'Urss in Europa e la politica di Stalin interna alla "patria del socialismo". Gentili racconta questa contraddizione, non la sottace. Così come non sottace - dopo Monaco e l'arrendevolezza ivi dimostrata dall'Inghilterra del conservatore Chamberlain e dalla Francia di Daladier nei confronti di Hitler - lo smarrimento in cui furono gettati i comunisti europei dal repentino patto di non aggressione fra L'Unione sovietica di Stalin e la Gemania di Hitler, firmato alla fine di agosto del '39, una settimana prima dell'aggressione nazista alla Polonia. Non tanto per il patto in sé. Esso era ben comprensibile sul piano diplomatico-statale, dopo quanto accaduto a Monaco e la diffidenza mista a ostilità dimostrata da Inghilterra e Francia verso l'Urss fino alla vigilia dello scoppio della guerra, con le titubanze svogliate e le lungaggini nello stabilire un'alleanza militare contro l'imminente minaccia di aggressione alla Polonia. Ma altra cosa fu la giustificazione ideologica che Stalin diede di quel patto. La guerra appena scoppiata è fra predoni imperialisti, disse; seppellendo così in un colpo solo la politica antifascista, la distinzione fra aggressore e aggrediti, fra democrazia e fascismo. Cioè tutti gli elementi che avevano ridato slancio rivoluzionario ai comunisti europei.

A determinare una situazione nuova fra i comunisti europei, compresi quelli italiani, è l'aggressione hitleriana, con Mussolini al seguito, all'Urss nel giugno del '41, seguita a dicembre da quella giapponese agli Stati Uniti. La guerra si fa davvero mondiale e nasce la grande alleanza antifascista delle Nazioni unite. E' la cornice ideale in cui Togliatti porta a compimento la metamorfosi del Pci, facendone un pilastro della conquista della Repubblica e di una "democrazia progressiva", aperta alla trasformazione sociale e socialista, alla giustizia e alla libertà, scolpita nelle tavole della Costituzione. Un partito di massa e di militanti che fanno politica nel vivo della società e a tutti i livelli, animati da forti ideali di cambiamento rivoluzionario della società nel segno della giustizia sociale e della rivoluzione democratica e antifascista. Sono gli stessi ideali della nascita del Pci a Livorno, ma il terreno e i mezzi - la democrazia progressiva - con cui perseguirli sono diversi e perfino opposti.

Nel libro di Gentili emerge con nettezza il ruolo decisivo che ebbe Palmiro Togliatti in questa metamorfosi. Si è molto discusso sullo stalinismo di Togliatti, sulla sua disciplina rivoluzionaria e sulla sua freddezza che lo fecero uscire vivo dal famigerato hotel Lux e dalle repressioni staliniane. Sono evidenti le sue corresponsabilità nell'approvare i processi staliniani della seconda metà degli anni '30. Tuttavia Gentili mostra bene, raccontando i fatti, che se c'è stato un elemento che distinse Togliatti da Stalin, anzi che lo pose agli antipodi, non fu solo una visione peculiare e democratica di avanzata al socialismo nell'Occidente, fu il metodo e la concezione del partito e di direzione del partito. Su questo punto c'era già stata la battaglia degli ordinovisti contro Bordiga, con cui evidenziarono la differenza abissale di concezione del partito che non è un soggetto metafisico separato dalla vita reale, che non aspetta l'ora X della rivoluzione ma ne aiuta la maturazione essendo parte della classe operaia e delle sue lotte anche su obiettivi parziali. (Articolo di Togliatti La nostra ideologia pubblicato su l'Unità il 7 luglio 1925). Il metodo che Togliatti conserva non è basato sul comando militaresco ma sulla direzione politica fondata sulla libera discussione negli organismi dirigenti che affidava alla messa in pratica della linea politica, misurata sulla prova della realtà, il superamento delle diversità di opinione e dei dissensi. Per Togliatti è il lavoro comune che unifica le opinioni, che fa superare nella lotta le posizioni divergenti e che unisce i comunisti, non la cristallizzazione dei dissensi in fazioni e frazioni. E' questo metodo che mette al riparo dai rigori staliniani il gruppo dirigente del Pci negli anni dell'esilio e della clandestinità e che consente a Togliatti di proteggere il pensiero di Gramsci affidato ai Quaderni del carcere, sottraendolo alle scomuniche del dogmatismo allora imperante. Un metodo di direzione politica organico a una visione della trasformazione socialista fondata sul consenso.

Se Gramsci pensava alla funzione del partito rivoluzionario come a quella del novello "Principe" machiavellico, non è azzardato dire che il "Principe" del Pci fu Palmiro Togliatti.

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