IL GRANDE IMBECILLE

di Stefano Lanuzza

"È con molta amarezza che io mi addentro nell'esame dei metodi seguiti da Mussolini per avvilire e umiliare sistematicamente la coscienza degli italiani. [...] Il pensiero che ci fossimo lasciati governare per tanti anni da un imbecille, mi faceva salire il rossore alla fronte. E sopra tutto il pensiero, che c'eran voluti tanti anni, e tante prove, tante conferme, tante testimonianze di fatti, per persuadere la gran parte di noi che eravamo nelle mani di un imbecille. [...,] tutti gli imbecilli d'Italia si sono riconosciuti in lui" (C. Malaparte, Muss. Il Grande Imbecille, 1999).

Autore di due clamorosi capolavori del romanzo italiano primonovecentesco, Kaputt (1944) e La pelle (1949), Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert) lascia, oltre a una cospicua serie di opere di narrativa e saggistica, di teatro e giornalismo militante, alcuni scartafacci pubblicati postumi: tra questi, collazionato da Enrico Falqui, il testamentario Mamma marcia (1959) e il composito Benedetti italiani (1961), sorta di contraltare di Maledetti toscani (1956). Con l'aggiunta di Muss. Ritratto di un dittatore e Il Grande Imbecille, due libelli iniziati e lasciati sospesi, l'uno negli 1931-'33, l'altro nel 1943. Questi scritti sono raccolti, nel 1999, in un unico volume a cura di Francesco Perfetti che del dapprima fascista rivoluzionario Malaparte rileva la successiva presa di coscienza antifascista; mentre individua nel fascismo l'affermazione dell'ideologia borghese per la difesa violenta degli interessi industriali e agrari sostenuta da masse consegnate a un vacuo nazionalismo in contrasto con le spinte internazionaliste prodotte dalla Rivoluzione d'Ottobre del 1917.

È una satira incerta tra il feroce sarcasmo e, a sorpresa, un'insorgente pena quella che, in Muss. Il Grande Imbecille, Malaparte mostra nei confronti di Benito Mussolini, descritto innanzitutto come un personaggio privo di senso del ridicolo e che, giunto al potere, si circonda di mediocri adulatori gesticolanti come lui, che parlano ammiccano vestono come lui; e, tutti insieme, alzano il braccio nel cosiddetto 'saluto romano' che niente ha in comune col sobrio saluto delle antiche legioni del romano Impero. Sono pantomime a contorno di uno spregiudicato progetto propagandistico-autoritario per il quale il novello Cesare o Duce giunge a farsi "dipingere e scolpire nelle pose più melodrammatiche, neoclassiche e barocche, ora a piedi, ora a cavallo, ora vestito da antico romano, ora con la corazza d'argento di un condottiero della rinascenza". Mai - lamenta lo scrittore - "s'era dato prima in Italia che un uomo così volgare, di così cattivo gusto, di tanta stupidità nei modi, salisse al potere".

"Lo chiamo Muss perché mia madre lo chiamava Muss" detta un brano di Mamma marcia posto in appendice a Muss: spiegato, tale nomignolo, con l'abitudine protettiva della madre Edda Ronchi Suckert di estraniare i nomi dei figli denominando Kurt/Curzio, Curtino, chiamando Sciandi il fratello Alessandro, Sciò l'altro fratello Ezio, Mimma la sorella Edda, Mia l'altra sorella Maria; e Scigulina sé stessa. "Credo che lo chiamasse così" continua lo scrittore "direi con affetto di mamma. Gli voleva bene e aveva compassione di lui. [...] Lo chiamava Muss anche quando io ero a Regina Coeli e a Lipari [...]. Non gli aveva serbato rancore di aver messo in prigione il suo ragazzo. [...] E prima di morire, nel dicembre del 1949, mi disse 'Era buono. Ha commesso molti errori, ma ha pagato. E tu non devi serbargli rancore. È morto. Lo hanno ammazzato come un cane. [...] Povero Muss mi ha detto poco prima di morire'".

Malaparte l'ha odiato e poi forse no, l'imbarazzante Muss; cui si rivolge così: "Quante volte t'ho sputato in faccia, nella mia cella di Regina Coeli, nella cella n. 461 del 4° Braccio [... e quando] il commissario di notte, seduto dietro una tavola, [...] si alzò, mi venne vicino e senza sapere chi fossi, né che avessi fatto, né che per ragione mi avessero arrestato, mi diede uno schiaffo in pieno viso [...,] tu non sai quanto ti ho odiato, Muss. Chiudevo gli occhi, e ti vedevo grasso, bolso, tronfio camminar dondolando davanti a folle di servi [...]. Ti ho odiato [..., ma] quando ti misero contro un muro, quando tutti ti abbandonarono, quando ti appesero per i piedi, squallido cadavere, davanti a un distributore di benzina [...,] io dissi soltanto 'povero Muss'. [...] Era giusto che io dimenticassi il male che tu mi avevi fatto [...,] che dimenticassi la tua gloria e la mia umiliazione, per non veder che la tua umiliazione"... E "che m'importava se negli anni del [governo mussoliniano] l'Italia era diventata una buffonata [...]. L'Italia, più o meno, era sempre stata così: un mucchio di retorica, una folla di eroi osannati, di eroi graeculi eloquenti, un labirinto d'intrighi e di corruzione"... È la medesima, immutevole Italia stigmatizzata da Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani (1824, 1906; 2021, nella nuova edizione commentata da Vincenzo Guarracino): "Le classi superiori d'Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese s'ingannano. Niuna vince né eguaglia in ciò l'italiana".

L'Italia è un Paese - rincara Malaparte - "fondamentalmente corrotto e avvilito dalla tradizione e dall'educazione cattolica", privo di un'etica pubblica, di senso civico e d'una libera coscienza fondata sulla libertà d'opinione, "la più alta conquista dello spirito protestante" che, decaduto nella Germania luterana, ha favorito l'avvento del degenerato cattolico austriaco Hitler. Insieme al nazismo hitleriano, "il fascismo, nella sua essenza, non è che il complesso dei difetti della civiltà cattolica, l'ultimo aspetto della Controriforma".

"Non si può fare il ritratto di Mussolini senza fare il ritratto del popolo italiano" approfondisce Malaparte attribuendo agli italiani come al vanaglorioso Duce l'esercizio della finzione, dell'inganno/autoinganno e della malafede: "La malafede del popolo italiano lo porta a fingere di credere in cose, in persone, in idee, in cui non crede, e ad agire in conseguenza. Tale era la malafede di Mussolini". Una malafede abdicante il pensiero, malafede della morbosa psicologia fascista, dello Stato totalitario e d'un autocrate che, con caparbia falsa coscienza, pensa o 'de/pensa' per tutti. "Mussolini ha sempre ragione" impongono i decaloghi del fascismo e celia il Vademecum del perfetto fascista (1926) di Leo Longanesi.

Più di tanta storiografia e stigmatizzando l'indole mussoliniana trasfusa nel popolo italiano, Muss spiega cosa sia stato il fascismo, impostosi, prima di finire in un'immensa tragedia, con l'indottrinamento settario della nazione e un blando golpe.

Non è un caso, l'avvento dell'autocrazia fascista: questa, oltre alla reazione contro lo Stato democratico e il socialismo nel momento in cui siano messi in discussione i privilegi e le storture dei ceti economici dominanti, è l'esito d'una fideistica delega a qualcuno che, per carattere, furbizia, interesse opportunistico, egocentrismo, vanità e intolleranza, riassume la posticcia sintesi della maggioranza degli italiani: un fato sempre incombente su un Paese vocato a darsi un 'padrone'.

Pure disprezzando il grottesco culto della personalità alimentato dal Duce, Malaparte professa d'averne compassione anche se quello l'ha fatto arrestare nel 1933 e chiudere nel carcere di Regina Coeli: mandandolo il 5 ottobre al confino di Lipari, traslocandolo a Ischia nel luglio del 1934 e a Forte dei Marmi nell'ottobre dello stesso anno. Tornato in libertà il 2 giugno 1935, adesso almeno sa che gli oppositori, o soltanto critici, il fascismo li arresta e imprigiona; e poi giù "botte, torture, sputacchi, fiammiferi dentro le unghie, o distesi sulla cassetta, e i peli dei coglioni strappati a manciate, e i calci nei coglioni, e le legnate negli stinchi, e la fame, la sete, parla, parla, brutto vigliacco, parla!".

Ugualmente, vorrebbe compatire Mussolini maldestramente fucilato il 28 aprile 1945 in una frazione dalle parti di Como e dopo esposto - cosa che terrorizzò il sodale Hitler rinserrato nel cupo Führerbunker - al pubblico ludibrio a Milano in Piazzale Loreto: luogo dove, all'alba del 10 agosto 1944, un plotone di esecuzione composto da fascisti della Rsi comandati dal capitano delle SS Theodor Saevecke, ricordato come "il boia di Piazzale Loreto", fucilava quindici partigiani italiani.

"Povero Muss" ripete Malaparte, senza riconciliarsi o temere di contraddirsi; e gli scrive: "Ti ho odiato come un uomo può odiare un altro uomo, povero Muss. [...] Ti avevo voluto bene, quando non eri ancora che un uomo solo, taciturno, il figlio di un operaio, un operaio, un popolano, un uomo semplice, che non sapeva stare a tavola, né salutare, né fare un complimento, ti avevo odiato quando tu eri un uomo potente, una specie di re rifatto, che non sapeva stare a tavola, non sapeva vestirsi; ma ora ch'eri appeso per i piedi al distributore di benzina io ti volevo bene, povero Muss, ti volevo bene perché io voglio bene agli uomini caduti, umiliati".

Nell'altrettanto umiliata Italia del Primo dopoguerra e con la crisi dei partiti della Sinistra incapaci di unirsi contro i reazionari, è perfino facile al fascismo, all'inizio un movimento senza "programmi definiti, né idee chiare, né scopi precisi", oscurare la coscienza popolare con la folcloristica Marcia su Roma dell'ottobre 1922 allorché il giornalista e politicante Mussolini, dal 1921 in rotta col grande intellettuale nonfascista D'Annunzio, entra nella Capitale giungendovi in treno alla Stazione Termini.

Segue la monopolizzazione delle istituzioni, piegate all'idolatria del Capo imbonitore del popolo italiano". Un popolo, in gran parte supino e religiosamente fanatico, che il pagano Malaparte non manca di condannare insieme alle complicità con la Germania dell'imperialismo hitleriano... Peraltro, riflettendo sull'epoca storica, continua ad affermare che non si possa ritrarre Mussolini senza descrivere per analogia tutta un'Italia fallita e con solo "una minoranza di gente seria, scontenta, delusa, di fronte a un popolo in miseria, nell'ignoranza, curvo sotto una banda d'ignobili profittatori. Di cortigiani, di traditori, di vigliacchi, di sbirri e di preti, di bravi e di spie"... Nessuna alternativa ostacola tanto squallore, né per il nichilismo malapartiano esisterebbero, nell'immediato, possibilità di cambiamento in un Paese nella sua maggioranza consegnatosi ciecamente per un ventennio alla tirannia e al delirio di uno che "si pavoneggiava al balcone, si metteva le mani ai fianchi, faceva la bocca a culo di gallina, tirava in dentro la pancia, si molleggiava sui ginocchi": per poi abbandonare l'Italia nello strame e, sconfitto, svignarsela vestito da tedesco fino ad essere catturato dai partigiani e subire un fin troppo impietoso castigo.

Mamma marcia vuol rappresentare, alla fine della Seconda guerra mondiale, un titolo-metafora della condizione dell'Europa ("L'Europa è ormai una mamma marcia") che l'autore proietta nel racconto della morte sonnolenta della propria madre con la quale, come non ha mai fatto, prende a intrattenere uno struggente dialogo.

La vecchia, ricoverata in un ospedale fiorentino al poggio di Bellosguardo, "Sei tu?" gli domanda; e gli dice se è contento di essere tornato nel proprio Paese da cui è fuggito all'età di sedici anni per andare a combattere nella Grande Guerra, rimpatriando con i polmoni devastati dal gas.

"Perché piangi? Sei contento di rivedermi viva? [...] Perché piangi? - e io mi misi a piangere in silenzio".

Piangendo sommessamente anche lei, gli chiede di confidarsi, lui che con nessuno si è mai aperto. La donna lo sapeva che quel figlio sempre lontano, prima o poi le avrebbe parlato. E anche Curzio aspettava di poterlo fare.

"Quando hai saputo che stavo per morire," dice lei prendendogli la mano prima con forza e poi allentando per stanchezza la presa "e che volevo vederti per l'ultima volta, prima di morire, tu sapevi che mi avresti detto tutto, che ti saresti confessato a tua madre?".

Allora lui inizia a rievocare gli orrori della Seconda guerra, le violenze, i cadaveri dei soldati invasi dalle formiche, il ricordo della spoglia di una donna,"una mamma morta, una mamma marcia" che partoriva "un essere vivo, un figlio vivo".

Testimone di due conflitti mondiali, parla delle ignominie anche della Prima guerra, cui è sopravvissuto - gli rimprovera sua madre - "profondamente mutato. Eri un altro. Da allora non ti ho più capito. [...] Duravo fatica a pensare che eri mio figlio [...,] mi parevi un estraneo, uno sconosciuto".

Quattro anni (1914 - '18) è durata per gli italiani la mattanza della Grande Guerra, dopo la quale - dice Curzio - "siamo tornati [...] con un odio selvaggio non per i nostri nemici, [...] ma per quelli della nostra parte, che ci avevano fatto soffrire, che ci avevano umiliato in mille modi, senza necessità. [...] Noi eravamo in trincea, ma il nostro nemico non era là, di fronte a noi; era dietro di noi, alle nostre spalle. Questa porca Italia, grassa, stupida, sadica, malvagia, vile; [...] che trattava i suoi soldati come servi, come schiavi. [...;] io, dietro la stazione di Belluno, nei fossi intorno a Treviso ecc., ho visto fucilare dei poveri siciliani, dei poveri sardi, dei poveri calabresi, giunti con ventiquattro ore di ritardo dalla licenza solo perché la loro tradotta era giunta in ritardo. Li ammazzavano come cani rognosi, ed erano tutti là i rappresentanti della porca Italia, erano tutti là, con i loro berrettoni gallonati, le loro tonache decorate, i loro stivali, le loro sottane, le loro pance, le loro emorroidi, i loro codici. [...,] e guardavano con disprezzo quei poveri soldati sardi, siciliani, calabresi, pugliesi, la cui tradotta era giunta in ritardo. 'Fuoco!' e i soldati cadevano, e i generali ci dicevano: 'Vi servirà d'esempio a voi' e non ci davano da mangiare"... O i feriti senza assistenza, morti dissanguati; e quel misero soldato con le mani legate dietro la schiena che a Coltano, un paesino presso Pisa, in attesa di essere fucilato per qualche burocratica mancanza, si abbandona a un riso irrefrenabile e non fa che ridere, ridere? Ridere come un folle che, impazzito a causa di un'orrida oppressione, vuole a sua volta schernire la follia della guerra, l'autoalienazione delle masse fanatizzate dalle dittature, convertite all'assassinio, a uccidere e morire in nome di falsi princìpi, idee di dominio e d'una Patria scelleratamente retorica... Pressoché prossimo alle rabbiose considerazioni di Malaparte è Nights of love and laughter (1955) di Henry Miller, che fa dire a un suo personaggio: "Nessun figlio di puttana al mondo venga a dirmi che per rendere migliore la vita bisogna prima accoppare un milione o dieci milioni di uomini". Un milione, dieci milioni? Nella Prima guerra, i morti sono 65 milioni, comprese le vittime, lasciate senza cure, della pandemia influenzale 'spagnola' (1918 - '19); e, nella Seconda guerra, sono circa 68 milioni.... Ma Dio? "Dio è buono" dice la madre.

"Dio è matto" risponde il figlio. "Ed è inutile, pregarlo, supplicarlo, buttarsi ai suoi piedi. Se ne infischia". Non meno della natura di Spinoza e Leopardi, Dio resta muto, indifferente; e, nella sua inesistenza, incomprensibile. Né è vero che possa amare gli uomini: perché mai dovrebbe? Intanto, nell'orto dell'ospedale, un usignolo nascosto tra le foglie lucenti d'un magnolia sta cantando. "Ascolta, - disse mia madre - è un angelo".

Somiglia infine a un presagio la sfiduciata conclusione di Malaparte sul destino di un'Europa che, dopo due guerre genocide, dopo il nazifascismo doppiato dal 'fascismo rosso' stalinista, appare incapace di cambiare il proprio destino: "Un'Europa piena d'ingiustizia". 

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