Cosenza, La Mongolfiera, 2021

GUALBERTO ALVINO

LA PERFETTA

di Carlo Cenciarelli

Per comprendere appieno un testo come La Perfetta di Gualberto Alvino sarà opportuno accennare alla peculiarità del suo lavoro critico-creativo, il cui nocciolo è costituito da un'idea di stile come invenzione linguistica. Donde, nei suoi studi, il privilegiare senza alcun tentennamento e coll'autorevole avvallo di Gianfranco Contini la linea Gadda-Pizzuto-D'Arrigo nella prosa italiana del Novecento. Ed è quasi d'obbligo ricordare l'appassionata e insieme filologicamente scrupolosissima curatela delle opere tarde del Pizzuto medesimo: Ultime e Penultime e Giunte e Virgole, totalmente rimosse dall'orizzonte della critica ufficiale. Donde un romanzo - ma sarebbe più giusto definirlo una non-narrazione - tra i più eterodossi del primo decennio degli anni Zero: Là comincia il Messico. Un romanzo tale da far accapponare la pelle alla maggior parte dei ( relativamente ) giovani - hanno fra i trenta e i quarant'anni - lettori di tante case editrici assai presenti sul mercato ossessionati da "una storia che funzioni", "personaggi ben delineati che divengano subito familiari", "i colpi di scena al momento giusto", "il finale che non ti aspetti e che pure non poteva essere che quello". Il lavoro sul linguaggio? È l'ultima delle preoccupazioni. Un italiano medio basta e avanza.

La pratica critico-creativa di Gualberto Alvino quindi potrebbe essere definita, sia pure in senso molto lato, d'avanguardia. Fra l'altro, egli è stato molto attento all'esperienza del gruppo '63 oggi dimenticatissimo e ha curato l'edizione d'una silloge di Nanni Balestrini: Sconnessioni. Eppure il classico dei classici della letteratura italiana - e non solo - Dante, non era forse un grande inventore di linguaggio ? E Boccaccio? E Machiavelli? E Benvenuto Cellini? In realtà Gualberto Alvino è anche un difensore della tradizione proprio quando più di altri avverte un grande pericolo nella nostra odierna produzione letteraria: il dilagare d'una lingua tepida insipida grigiastra che sempre più scivola verso una specie di basic english italianizzato.

L'argumentum de La Perfetta, ridotto in due parole, è costituito da tutta una serie di vicissitudini, quasi sempre oscene e violente, che una barbona narra per sommi capi, quasi sempre concitata e confusa, a un pubblico teatrale. Chi scrive si pone una domanda di fondo: come è possibile vivere così, portare avanti un'esistenza ai margini, in balia della precarietà più radicale ? Solo creandosi una mentalità paranoica, che si autoesalta continuamente rispetto alle proprie azioni - fossero pure le più miserevoli - e si vede immancabilmente trionfatrice in ogni accadimento. La minima ammissione d'una sconfitta farebbe crollare tutto. Da quel che sappiamo di Gualberto Alvino ne consegue naturalmente che il problema essenziale della sua scrittura sarà cogliere la lingua della paranoia.

Io per me si stava meglio in manicomio, non li chiamano più così ma ci siamo intesi, pensano di cambiare le cose attraverso i nomi. No i cessi allagati di vomito, no le trapunte ruvidecorte razziate ai soldati di cent' anni fa, o i paglioni smollati ostia diarrea, cacchesorcio ai davanzali: questo si sa. Del dentro dico. Vedevo tutto. E se qualcosa scappava mi specchiavo nel culo del cucchiaio e dicevo uhé, che è, vuoi dar ragione a loro? Tutto: chi erano che facevano quale motivo a che ora fino a quando ai comandi di chi se c'era modo di farli smettere e possibilmente punirli. Pure strepiti e lagne erano fissifissi: bassocontinui rotti da picchi ugualmente spaziati. Un grafico, un pentagramma. C'era l'ora del manda giù, del dormi, dell'alzati, del ferma non muoverti, del mettiti così e così, del sciacquasciacqua, dei beccheggi in cortile, coi redditieri linguainfuori appiccicati ai cancelli nel chiasso delle campane sotto volte nerissime raramente spruzzate d'azzurro. Però mi stava bene, perché indovinavo le cose e i loro effetti. Mi stava da pascià anche quando m'empivano l'ombelico di cera rovente mi pestavano i diti nella morsa o m'attaccavano la coda a secco stantuffando in frett' e furia per darsi il cambio prima della visita: "Sta' giù!". (pp. 31-32)

Trattare l'orrenda realtà della reclusione manicomiale con una lingua banalmente, immediatamente mimetica, non farebbe altro che restituirci una visione esterna al personaggio, quella pietistica e sentimentaleggiante dell'intellettuale piccolo borghese medio genericamente umanitario. Invece dobbiamo radicarci nella testa de la Perfetta. Anche se ci dà un disagio che quasi non riusciamo a sopportare. Con ogni probabilità esattamente per questo. Attraverso un linguaggio turgido calloso tracimante ricchissimo che ti immerge in una sorta d'ebbrezza che tutto ottunde e tutto fa accettare.

L'ebbrezza di lei, da cui trae la forza per infierire su un altro essere, ancor più reietto, e sentirsi in un suo modo feroce, una dominatrice di questo basso mondo.

Lè, per esempio (scende dal palcoscenico): la chiamavano Lè perché diceva"lèvati" a chiunque s'accostava fuorché a me e alle mosche; se le faceva pascolare dappertutto, naso collo fronte labbri, cacciava la lingua per farcele atterrare, se aveva fame le inghiottiva trivellando le guance coll'indice a dire che bontà (mima il gesto). Ci vomitavo ogni volta, e dopo vomitato le zompavo su a cavallo (siede sulle gambe di una giovane spettatrice e fa quel che dice), la tenevo ferma coi calcagni, le serravo il rostro sdentato, le scoprivo i seni vizzi come tasche, e vai pacche fino a scuoiarli; mi scorticavo le palme e gliele facevo leccare: "Lecca qua, bastarda schifosa!" Mandava giù il sangue uso marmellata. Qualche volta per svagarmi mi veniva di torcerle i caporelli piantandoci gli artigli mentre le intimavo vocedemonio di non farlo più, mai più: singhiozzava, si disperava, manco avesse visto lo stupro della madre, e la sera me la trovavo accicognata sullo scendiletto,bocca spalancata in un ghigno muto: "Che vuoi?" "Dommocotté, Lè dommecotté". (p.34)

Pura paranoia, considerevoli sprazzi di sadismo. E noi ci siamo dentro, costretti ad assaporarli.

Pure la bellezza più profonda di questo testo è in qualcosa di più sottile. Esiste una differenza tra il semplice bugiardo che mente avendo ben chiaro ciò che è vero e ciò che è falso e chi mette su un'irrealtà il cui scopo è ingannare per primo sé medesimo. La radicale teatralità del linguaggio de La Perfetta nasce da questa esigenza del personaggio. Raccontando agli altri, a un pubblico, tutta una serie di episodi da cui esce immancabilmente vincitrice, evidentemente vuole ingannare tale pubblico ma ben di più, in una assai profonda zona dell'anima sua, vuol ingannare sé stessa. Purtroppo per lei: "... questo è il bello della lingua: dice anche se non dice" (p. 94). E la vera sapienza di Gualberto Alvino, la sua forza espressiva più autentica è costituita dalla dialettica che riesce a creare fra testo e non testo. La sua protagonista può esibirsi in mille modi, dire tutto quello che vuole; noi vediamo chiaramente il povero essere fragilissimo che è stato violentato in mille modi da questo basso mondo.

Dicevamo che La Perfetta è un testo teatrale, ma così denso e scabroso che quale attrice avrebbe la voglia e il coraggio di rappresentarla oggi ? È quasi una provocazione per l'attuale mondo del palcoscenico, abituato a un tran tran ben più tranquillo. Nondimeno una provocazione salutare. Analoga a quella che Gualberto Alvino compie quando ricorda lo spessore linguistico della tradizione e si chiede perché quello che è stato non può essere più.

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