
L'ULTIMO NATALE
di Maria Sapensa
Mancavano sette giorni a Natale. Il clima era freddo e frizzante, il cielo di un azzurro uniforme. La gente si riversava come tante formiche in strade e stradine per la rituale corsa al regalo. Pacchetti multicolori punteggiavano come stelle in mezzo a quella fiumana , che prendeva la forma della via che occupava, come l'acqua nei recipienti.
Lo scorrere del flusso veniva interrotto talvolta da gruppi di persone che si fermavano per scambiarsi chiacchiere e auguri, oppure dall'improvviso lievitare del numero in rapporto al simultaneo restringimento del percorso.
Gianna era una di quella folla.
Aveva chiesto di uscire prima dal lavoro, per avere tutto il pomeriggio da dedicare agli acquisti, ma già da un po' girava e non aveva ancora concluso niente. La verità era che tutta quella frenesia intorno la opprimeva e piuttosto di infonderle gioia, l'intristiva.
Per tradizione il Natale recava occasione di giubilo, d'unione familiare e di bontà verso il prossimo in una cornice incantata dalla neve. Era già tanto che l'aria fosse frizzante e che la gente avesse la parvenza di andare chissà dove, come il coniglio bianco d'Alice.
Si soffermò davanti ad una vetrina. Lo sguardo le cadde su un grande specchio antico messo in mezzo a delle lingerie, e così si avvicinò per specchiarvisi. Vide l'immagine di una donna che non avrebbe voluto riconoscere: un volto dal colorito spento, con diverse rughe e i capelli corti e grigi.
No, non si trattava di lei. Non poteva essere quella ragazza che le viveva dentro. Lei portava ancora i capelli lunghi e neri, aveva il fisico snello e scattante e il sorriso candido.
Due ragazze le passarono vicino allegre. Quando era stata una di loro?
- Oh, Babbo Natale, per favore, esisti! - implorò Gianna dentro di sé. - Sono una bambina anch'io. Restituiscimi per poche ore la mia gioventù e poi fammi pure morire. Ciò che è stato non era l'Eldorado. Lo so bene. Solo l'onnipotenza idealizzata d'ogni cosa. L'illusione, madre dell'essere e del poter essere. La vita che progetta la vita. Un albero che produce frutti e ancora frutti, senza una fine.
Gli occhi le s'inumidirono senza aver più nemmeno la forza di piangere. Così riprese a camminare fino a che non si ritrovò davanti a quella che tanti e tanti anni prima era stata la sua sala da ballo preferita.
Ne cercò con lo sguardo l'insegna: Sweet Moon. Si trovava ancora al solito posto, ma con i grossi caratteri spenti e scheggiati. Dolce luna, dolci sogni.
La sala era situata sotto il livello stradale. Per accedervi, si doveva superare un piccolo cancello in ferro e poi la porta d'ingresso, da cui nasceva una sequela di ampie scale.
Dopo la prima rampa, stava la biglietteria e il guardaroba. Dopo la seconda, un tendone di velluto rosso, che ricordava un cinema o un teatro e che si apriva su un salone immenso, lucidato a specchio, con tanti tavolini intorno.
Ora tutto lì era buio.
La porta d'ingresso, cieca e diroccata, aveva davanti il cancelletto di ferro arrugginito, chiuso con catena e lucchetto.
Di tutte le festose luci di un tempo non rimaneva che squallore.
Lentamente, Gianna si avvicinò per focalizzare meglio. C'era spazzatura ovunque. D'istinto tastò con la mano il catenaccio, che parve non aspettare altro e insolitamente dolce, scivolò per terra. Lei si guardò intorno furtiva. Nessuno. Allora si diede coraggio e varcò la soglia. Tutto lì era buio e invaso dalla spazzatura. E se qualcuno l'avesse vista e avvisato la polizia...come si sarebbe giustificata? Mentre lo pensava, aveva spostato la malandata anta d'ingresso, trovandosi così all'imbocco della prima rampa di scale.
Fu da quel punto che acuendo i sensi individuò un tenue riverbero di luce. Possibile? Certo si trattava di un'illusione ottica, oppure di qualche clandestino che avrebbe potuto aggredirla. Benché timorosa non desistette e continuò cautamente a scendere.
Raggiunto il piano della biglietteria, si accorse di non aver sbagliato. La luce era accesa davvero, anche se non vedeva nessuno. Guardando meglio, notò che il locale pareva invaso da grossi ferri. Dei borsoni con roba di ricambio e arnesi da manovale erano sparpagliati dovunque. Risultava evidente che vi si stavano effettuando dei lavori.
A confermarglielo riecheggiarono rumori e voci provenienti dabbasso, dove avrebbe dovuto esserci la grande sala. Mentre stava decidendo sul da farsi, si accorse di aver indugiato troppo, perché le voci erano già vicine. Sarebbe stato opportuno mantenere la calma e senza alcun imbarazzo affrontare la situazione dicendo semplicemente la verità: Si trovava lì per la curiosità di rivedere dopo tanti anni un luogo a lei caro.
Invece, si nascose nel vano del guardaroba. Proprio un'ottima postazione.: si poteva controllare tutto l'atrio della biglietteria. senza essere visti.
Le voci, ora, si distinguevano chiare e inframmezzate da risa.
- Sei il solito porcone! Il lupo perde il pelo ma non il vizio - disse uno dal timbro giovane.
- Lo puoi ben dire, caro mio. Noi della vecchia generazione diamo dei punti a voi, così rasati e con l'orecchino.
- Che c'è di male? Anche i pirati avevano l'orecchino.
- Ma va là, te lo do io l'orecchino. Piuttosto sta attento che in questo posto se si materializza un pirata ti può inchiappettare... - e terminò con una risata sguaiata, che gli fece andare la saliva di traverso, procurandogli un eccesso di tosse.
Finalmente li poteva vedere. Erano in tre. Il più anziano, piuttosto mingherlino e con folti capelli brizzolati, arrivato nell'atrio, stava ancora tossendo. Gli altri due sembravano giovani. Quello con i capelli rasati possedeva un fisico prestante. L'altro, un sudamericano, era piuttosto tarchiato.
- Beh, anche per oggi abbiamo finito - disse il più vecchio.
- Che ne dici di andare a bere qualcosa? - domandò il secondo.
- Dici bene, mio caro Dario. - E poi guardando il terzo: - Vieni anche tu Pablito?
- Stasera no.
- Stasera no, stasera no! Sempre così. Non è che la tua Paquita ti matterella come Pedrito el Drito? - E Ugo riprese a sghignazzare, intanto che ognuno di loro si toglieva la tuta da lavoro per indossare gli abiti puliti.
Pablito rimase in silenzio mentre gli altri due continuavano a pizzicarsi. Così terminò per primo di vestirsi.
Ugo si toccò con una mano lo stomaco.: - A proposito, qualcuno di voi ha qualcosa da sgranocchiare? Mi è venuto un languorino.
- Ci sarebbero dei crakers nel mio zaino che ho posato dietro il guardaroba.
- Se vuoi te li vado a prendere - gli rispose Dario.
Gianna spalancò impaurita gli occhi, posando lo sguardo proprio su uno zaino lì vicino.
- No, no. Ci ho ripensato, - affermò Ugo, trattenendo per il braccio il collega. - Mangerò qualcosa dove andremo a bere, tanto è qui vicino.
- Ho capito, - sogghignò Dario. - Bella scusa per palpare la Tina. Così prendi due piccioni con la classica fava.
- Avete finito di sparare cazzate?
I due si voltarono stupiti verso Pablito.
- Finalmente Portobello ha parlato! - esclamò Ugo. - Comunque, devo riconoscere che sei padrone della lingua.
- Su, andiamo via di qui, questo posto non mi piace e sono stanco.
- Buh! - gli abbaiò Ugo incoraggiato dalla complicità di Dario. - Abbiamo capito sai che sei un fifone superstizioso. Tu senti presenze ovunque, ma bisogna avere paura dei vivi, non dei morti.
Ormai erano pronti e Dario si avviò verso l'interruttore delle luci posto nel gabbiotto della biglietteria, facendolo scattare. La luce se ne andò, rimanendo accesa solo una spia rossa. I tre uomini parlottando salirono le scale servendosi di una grossa pila, e poco dopo tutto fu silenzio.
Gianna indugiò ancora un poco, senza pensare a nulla. Quando si rimpadronì delle sue facoltà, non si preoccupò dell'eventualità di essere rimasta chiusa dentro, avendo un unico obiettivo: visitare la grande sala.
Gli occhi si erano abituati a quella penombra e potevano distinguere qualcosa. Si alzò stiracchiando gli arti doloranti. Rovistando a tentoni nella borsetta, riuscì a recuperare l'accendino. Se ne servì per raggiungere l'interruttore. Tirò su tutte le leve. E la luce fu. Si diresse immediatamente in basso e scostando febbrilmente il tendone la grande sala la fagocitò.
I suoi passi lenti echeggiarono mentre procedeva e si guardava intorno.
Tavolini e sedie erano tutti accatastati sul lato frontale. Alla sua destra c'era il palco dove i complessi musicali si esibivano. Sulla stessa traiettoria, molto più in là, stavano i loro camerini.
Il pavimento pareva un campo di battaglia. Impolverato e impiastricciato di calce, solo in alcuni punti rivelava l'antico splendore.
Si fermò di fronte al palco, cercando con lo sguardo la colonna che gli sorgeva in mezzo. Come fanno gli innamorati su un albero, dovevano esserci le firme degli artisti che si erano esibiti, compresa quella di chi per lei aveva contato tanto.
Aggirò il palco, salendo la piccola scaletta e un brivido la colse: c'erano ancora. Le Volpi blu, i Nottambuli, i Mighels, i Dragoni...e quella di Lui.
Ridiscese i gradini dirigendosi alla sua sinistra, dove nel fondo, quasi l'intero lato veniva occupato dal bar. Il bancone, lunghissimo, non era stato toccato e di dietro l'enorme specchio presentava uno sfregio trasversale. Qualche bottiglia vuota di Martini e di Vov se ne stava rovesciata sui ripiani, mentre altre a mucchi erano buttate alla rinfusa dovunque.
Gianna respirò profondamente per dominare le intense emozioni che provava.
La toilette. Voleva visitare anche quella. Se ricordava bene, si trovava sul lato dell'entrata. Se si fosse girata a sinistra dalla sua posizione, le sarebbe apparsa proprio di fronte.
Giunta alla toilette, ne scostò la porta. La luce era spenta. Pigiò l'interruttore.
Quante confidenze aveva origliato quel luogo! Un vero quartier generale, dove lei e le sue amiche stabilivano le strategie d'approccio con la scusa di rifarsi il trucco.
C'era ancora una sedia e di scatto la trascinò vicino allo specchio rivedendo il volto non voluto.
- Inutile, tutto è inutile. Io sto diventando pazza, questa è l'unica verità.
Mise le braccia conserte sul ripiano della specchiera e vi appoggiò la testa come per dormire. Invece, cominciò finalmente a piangere.
Ad un tratto, si sentì toccare ad una spalla. Meccanicamente sussultò, pur non avendo paura. Voltandosi, vide davanti a sé un omone con barba e baffi bianchi, dal viso rubicondo e simpatico che le sorrideva bonario porgendole un fazzolettino.
- Tieni - le disse - asciugati quegli occhioni pieni di lacrime. Così bella e giovane devi pensare a divertirti. Perché te ne stai qui tutta sola?
A Gianna non venne di domandarsi perché quell'uomo si trovasse lì e di fronte a lei né chi potesse essere. Sapeva solo che non le incuteva paura e che le trasmetteva fiducia e tranquillità.
- Come faccio a divertirmi, se sono profondamente sola e vecchia.
- Vecchia, tu! Ma ti sei guardata allo specchio?
- In queste ultime ore fin troppo.
- Fallo una volta di più, ora che sono qui con te e vedrai come ti sei sbagliata.
Le poggiò con delicatezza le mani sulle braccia, girandola verso lo specchio, e lei passivamente lo assecondò.
Quella che vide riflessa era una ragazza giovane e bella, la stessa che si portava dentro.
- Ora è il momento,vai. Balla con tutta la tua energia e divertiti ascoltando il tuo cuore...
La voce che parlò non aveva più corpo. Lo specchio le rimandò solo la sua immagine. Si voltò, facendo solo in tempo a vedere la porta della toilette che si richiudeva.
Gianna ritornò a se stessa. Si passò sul volto il piumino della cipria e il rossetto sulle labbra. Aveva la pelle di velluto e senza una scalfittura. Bene, il ritocco era terminato e poteva entrare in sala.
Appena lo fece, rimase frastornata da una marea di gente, dalle luci psichedeliche, dal fragore musicale, dall'aria fumosa. Ma fu un attimo e avanzò per raggiungere le sue amiche. La Enza e la Dina la stavano aspettando.
- Ce ne hai messo di tempo a ristrutturarti - esclamò la Dina, delle due la più bruttina, ma la più loquace e dalla battuta pronta. Era piuttosto bassa e portava gli occhiali.
La Enza, invece, di poche parole, aveva i capelli ramati, le lentiggini e una certa sensualità.
Nessuna delle due, però, poteva tenere testa a Gianna.
- Che ne dite, di andare a bere qualcosa - disse Enza.
- Si, però passiamo davanti a quelli del complesso - aggiunse Dina - così ci spacciamo un po'.
Per parlottare e capirsi dovevano avvicinarsi molto a causa di tutto quel frastuono.
- Balli? - domandò uno a Gianna.
- No, grazie.
- Peccato, non era male - disse Dina seguendo quel tizio con lo sguardo.
- A me l'aveva chiesto prima, ma non mi andava - affermò Enza.
Le tre indugiarono un attimo nel percorso.
- Beh, stiamo ancora qui? La facciamo sta passeggiata fino al bar?
Così Gianna vede il suo Carlo! - continuò Enza.
- Perché ...è qui? - domandò lei, improvvisamente seria.
- Non mi dire che non l'hai visto - sogghignò Enza.
- E piantala - l'ammonì Dina.
- Ragazze, voi mi nascondete qualcosa. Che sapete? Avanti, ditemelo.
Dina cercò di rimediare all'atteggiamento di Enza, usando il savoir faire .
- L'abbiamo visto scherzare con una ragazza.
- Del resto, non vi siete piantati? - aggiunse la più pettegola.
A Gianna passò la voglia di rispondere, ma per non dare soddisfazione disse:
- Tanto, non mi importa. L'unica cosa di cui adesso ho voglia è...farmi un bel Martini.
E tutte e tre proseguirono verso il bar ridendo.
Nel frattempo, non persero l'occasione di pavoneggiarsi raccogliendo qua e là varie tipologie di apprezzamenti.
- Martini bianco con ghiaccio - ordinò Gianna.
- Anche per me - le fece eco Enza.
- Come siete monotone - aggiunse Dina. - Per me, un bel Vov.
- Così ti tiri su - commentarono due ragazzi.
- Spiritoso - rispose quella.
La serie di battute scherzose che seguì, innescò il solito processo di socializzazione tra le parti.
Solo Gianna pareva interessata al drink.
In quel momento le note di Io mi fermo qui, dei Dik Dik, la catturarono. Con una scusa si allontanò dal gruppo per ascoltarsela in pace. Quanti ricordi in quella canzone di lei e di Carlo. Già Carlo... Lui a quanto pare, l'aveva sostituita in fretta.
Ci pensava, quando, dal lato opposto adocchiò Carlo che ignaro della sua presenza conduceva una ragazza a ballare. Allora si avvicinò al suo gruppo e fece gli occhi dolci a uno dei due ragazzi.
Aveva raggiunto il suo intento: farsi invitare a ballare.
- Vieni - gli disse - qui non mi piace, andiamo più avanti. - Con la mano lo condusse proprio dove le interessava.
Iniziò una nuova canzone, la famigerata "Je t'aime moi non plus".
Le due coppie erano vicinissime. Gianna si fingeva interessata all'occasionale compagno, che intanto cominciava a stringerla mettendo in atto lo scontato iter dell'approccio ballerino. Avvicinamento. Fiato vicino all'orecchio. Respirazione frequente, che ricordava quella di un gatto contento. Dulcis in fundo, inturgidimento e avvicinamento dell'arma nascosta.
Lei lo incoraggiava, mentre con lo sguardo cercava di calamitare l'attenzione dell'altro. Tanto fece che ci riuscì. Carlo si accorse della sua presenza e d'impulso si scostò dalla ragazza con cui stava ballando.
Gianna spostò da lui lo sguardo e prese ad accarezzare delicatamente la nuca del suo partner, che subito tentò di baciarla senza riuscirvi poiché lei lo bruciò sul tempo, manifestando l'intenzione di voler raggiungere le sue amiche.
Non aveva fatto i conti, però, col grado d'eccitazione di costui, il quale, innervosito per l'interruzione della sua performance, la trattenne con determinazione per un braccio. Ignorando le sue proteste, pareva non aver intenzione di mollarla, finché qualcuno non intervenne in suo aiuto. Si trattava di Carlo.
- Lasciala! Ho detto di lasciarla, hai capito?
- Senti, senti. Ma chi cazzo credi di essere? - gli rispose l'altro.
- Uno che fa come gli pare. - E poi rivolto a Gianna: - Vieni, andiamo via di qua.
Ma quello non desisteva e prese a spintonarlo. La ragazza non sapeva che fare, si sentiva mortificata per ciò che inconsapevolmente aveva provocato.
Carlo, che non era certo accomodante e diplomatico, si era intanto sbarazzato del rivale mollandogli un pugno in faccia. Altri erano intervenuti per dividere i due, e tutto intorno si era formato un capannello di gente. La musica continuava a suonare e la maggior parte non si era accorta di nulla, a causa dell'ordinaria confusione e per la vastità della sala.
La zuffa fu sedata solo dal tempestivo e autorevole intervento di Roger, il mastodontico controllore buttafuori.
Scordandosi della compagna di prima, Carlo prese per mano Gianna e insieme si appartarono in fondo alla sala, dove si trovavano delle piccole arcate, nell'ombra, che fungevano da separé.
Percorrendo il breve tragitto, la ragazza colse lo sguardo in tralice delle sue due amiche. Come la invidiavano!
Raggiunta la meta, Gianna e Carlo rimasero qualche minuto in silenzio.
Fu lei a parlare per prima.
- Perché l'hai fatto?
- Fatto cosa? - rispose lui distrattamente, per guadagnare tempo.
- Non fare lo gnorri, con me non attacca.
- Perché mi andava, ecco.
- Bene, e la tua amichetta dove l'hai lasciata? Perché, se non ho visto male, eri lì che te la sbattevi.
- Gianna, sai che mi sorprendi, non ti riconosco più. Sei così ...spavalda, aggressiva persino.
- Non era quello che volevi, o sbaglio?
- Un momento, non giriamo le carte in tavola. Io ti ho sempre rimproverato un'eccessiva ritrosia nei miei confronti. Una scarsità d'iniziativa nell'approccio...ehm...affettivo, dovuto alla tua immaturità, all'educazione e alla diffidenza che ti porti dietro. In fondo hai solo diciotto anni e...
- E tu sette di più. Lo so a memoria. Ma come vedi stasera ho cercato di rimediare.
- Si ma con un altro, e guarda che risultato.
- Comunque non siamo più insieme e posso fare quello che mi pare. O sbaglio? Sai, voglio emanciparmi anch'io. Voglio seguire i tuoi lungimiranti consigli e non desidero affatto che tu ti esibisca come poco fa, rischiando di farti male per causa mia.
- Allora t'interesso ancora.
- Non sono cose che ti riguardano. Piuttosto, è meglio che tu vada. C'è qualcuna che ti sta aspettando e...
Non le fece terminare la frase. Se la prese tra le braccia e la baciò con passione. Stavano suonando la canzone Concerto, degli Alunni del sole.
Una volta un bacio simile l'avrebbe imbarazzata, indotta ad abbassare lo sguardo, impedendole di andare oltre. Adesso qualcosa era davvero cambiato in lei. Non era più tesa, ma morbida e arrendevole, e non gli fermò la mano mentre le accarezzava i seni.
Senza che quasi se ne rendessero conto i due innamorati si trovarono in pista, a ballare quella melodia. Fu un abbraccio sospirato. Come bere un bicchiere di vita da assetati. I loro corpi si concedevano l'uno all'altro, in una simbiosi che pareva mescolare il sangue, superando la stoffa degli abiti che li separava. I baci furono tanti, con una passione da succhiare l'anima.
Lei di preciso non ricordava, ma era consapevole di essersi liberata di colpo di tutti i condizionamenti bacchettoni ricevuti. Solo, voleva sapere una cosa da lui e glielo sussurrò all'orecchio:
- Carlo devi dirmi chiaramente cosa provi per me.
Lui la guardò con tenerezza:
- Ti amo. Ti ho amata dal primo momento che ti ho vista. Non lasciarmi mai.
Se fosse vero o no, in un altro momento se lo sarebbe chiesta e avrebbe comunque dubitato. Non adesso. Sentiva che non c'era più tempo e che quella sarebbe stata la sua ultima possibilità.
- Vieni, - E questa volta fu lei a dirlo. - Ho voglia di te.
Lui la guardò stupito. Come se non la riconoscesse. Ma la seguì.
Alla loro destra, in fondo a un breve corridoio, si apriva un piccolo disimpegno, che Gianna un giorno aveva adocchiato. Vi venivano depositati oggetti in disuso e c'era anche un piccolo divano. Lei controllò che non ci fosse nessuno nei dintorni e poi mise la mano sulla maniglia della porta per aprire.
- Che fai? - le domandò Carlo - c'è scritto sopra Privato.
Lei gli riservò un sorriso birichino: - Si, ma non sai... cosa c'è dietro, e poi tutti hanno paura di Roger.
Così entrarono e si chiusero dentro.
- Anch'io ti amo - gli disse - ...e se ora non te lo dimostrassi, potrei rimpiangerlo per tutta la vita.
- Gianna, ma che ti è successo, non mi posso capacitare, non sembri in te. Io, io non voglio approfittarne...Lei gli tappò la bocca con un lungo bacio. Quando si staccarono lo osservò, fotografandolo: come era bello e caro quel volto, come era forte nella giovinezza!
Si commosse notando che portava ancora al collo il medaglione che lei gli aveva regalato.
- Ti prego Carlo, amami ora, non rimandiamo più. Non voglio in futuro avere rimpianti né rimorsi verso di te e la mia gioventù. Concedimi questa mia ultima possibilità.
- Perché dici questo, Gianna. Tu, così giovane e bella! Abbiamo tutta la vita dinnanzi per fare l'amore. Ci sposeremo e avremo dei figli. Avevi ragione quando mi accusavi d'essere precipitoso.
- No. Ti prego, taci. È giusto solo ciò che in questo momento il cuore desidera. E io ti voglio Carlo, al di sopra di tutto e di tutti, al di sopra delle leggi del tempo, perché ti amo e perché...
Sorrise amaramente. - Ho avuto modo a sufficienza per riflettere su di noi. Ti voglio e voglio essere tua. Questo però se ... veramente anche tu mi ami e mi desideri.
I loro sguardi s'incrociarono ancora. Poi ... fu solo amore.
- Come ti senti? - le chiese lui.
- Felice. Terribilmente felice.
- E'ora di andare. Rivestiamoci e mentre usciamo facciamo attenzione.
Aprirono la porta lentamente. Non c'era nessuno fuori. Ma lo strano era che non si udiva alcun tipo di rumore. Percorsero abbracciati il piccolo corridoio sbucando in sala: Vuota. Completamente vuota.
Se n'erano andati tutti. Il locale doveva essere chiuso. Come avrebbero fatto ad uscire?
Avevano trascorso assieme gran parte della notte, e non se n'erano accorti.
I loro passi rimbombavano sul pavimento a specchio. Ora che ci pensavano, tutte le luci risultavano spente, eppure ci vedevano normalmente.
- Che bello! - disse lui. E' tutto nostro. E si diresse sul palco.
- Ricordi? Quando ci siamo conosciuti io suonavo e tu mi passavi davanti ancheggiando e facendo la civetta.
Lei gli rispose da sotto, malandrina:
- Già, però tu mi guardavi e hai anche ceffato con la tastiera.
- Che vuoi, il mio animo poetico mi aveva portato lontano...
- Guardicchiavi anche le altre. La poesia non c'entra niente - aggiunse lei fingendosi imbronciata.
Carlo saltò giù dal palco e agilmente la raggiunse.
- Adesso in qualche modo dobbiamo uscire e non ci fermerà certo una porta chiusa.
Gianna si ricordò dell'uomo con la barba bianca e la consapevolezza fu totale.
- No, non fermerà te e il tuo sguardo di cielo, che in cielo è andato prematuramente. Ma solo me. Per ora.
Lui tacque e il sorriso gli morì in volto.
- Tieni- disse togliendosi il medaglione - mettilo.
Lei fece segno di no perché era stato un suo dono. Una parte di lei che gli rimaneva.
Carlo con un tono che non ammetteva repliche la bloccò:
- Tranquilla, me lo restituirai tra breve.
Poi fissò il vuoto e lei capì che anche lui ora sapeva.
- Il momento è arrivato - disse - è ora che io vada. Sai che non ho scelta.
Ci fu l'abbraccio struggente fra due mondi che nello sguardo divennero un'unica anima.
Lei annuì senza più parole, mentre lui le voltò le spalle per andarsene e la sua immagine venne assorbita dall'aria, lasciandosi dietro il nulla.
Gianna si rivide nuovamente fra tutto quello squallore. Cenerentola sola e stanca, tanto stanca.
Le palpebre le si chiudevano dal sonno. Si trascinò verso una parete e, appoggiandovi contro la schiena, si lasciò scivolare fino a sedersi sul pavimento. Non aveva più la forza di pensare a niente, solo tanto sonno.
Rivide l'uomo con barba e baffi bianchi che da lontano la guardava e le sorrideva. Ebbe il tempo di dirgli grazie e poi si addormentò in pace.
- Brr...che freddo - lamentava Pablito.
- Io con questo clima mi ringalluzzisco - disse Ugo.
- Se questo non ci mette il doppio senso, non è contento - commentò Dario.
- Ho appena bevuto un gotto di bianco e mangiato un bel panino col salame - continuò il secondo. - Così mi carico un po'.
- Per l'amor di Dio, piantala, che sei già tanto carico al naturale - rincarò Dario. - Io preferisco focaccia e caffè.
Tutti e tre si stavano dirigendo verso la vecchia sala per riprendere i lavori.
Era un mattino veramente gelido e secco. Gli aliti fumavano e gli arti, toccando alcuni oggetti, spesso accusavano piccole scosse elettriche.
I tre entrarono.
- Ti dirò caro Ugo che stamattina non mi dispiace affatto stare qui, col freddo che fa fuori.
- E' perché siamo appena entrati. Vedrai tra poco. Ci salverà lavorare, caro Dario.
- Giù nel ripostiglio ho visto un paio di stufe - disse Pablito.
- Voi giovani, voi giovani pappe molli.
- Ugo, ricominci con la solita solfa? Fino ad ora non era mai stato così freddo. A proposito Pablito, vai giù a controllare se ci sono veramente le stufe, se no le chiediamo al capo.
- Perché proprio io? Andiamo insieme.
- Il solito fifone,- esclamò Ugo. - Certo, che ci andiamo insieme. Ti raggiungiamo tra poco, il tempo di cambiarci. Tu che come al solito sei il più veloce, devi solo precederci.
Ugo e Dario si strizzarono l'occhio e indugiarono apposta.
Ad un tratto un urlo lacerò l'aria, raggelando i due operai più del clima.
- Che sarà mai? Andiamo a vedere - disse Ugo.
Velocemente furono in sala. Pablito voltava loro le spalle. Era immobile.
Gli si avvicinarono.
- Che succede? - gli domandarono.
Ma Pablito non rispondeva e puntava l'indice verso qualcosa.
Una donna. Se ne stava seduta, con le spalle alla parete. Gli occhi chiusi e la testa reclinata da un lato.
- Chi sarà mai? - domandò Ugo.
- Una barbona, che piuttosto di andare sotto un ponte o in stazione, ha preferito venire qui - disse Dario.
- Ma che barbona e barbona, - continuò l'altro - non vedi che è vestita bene? Piuttosto, come avrà fatto a entrare senza farsene accorgere? Dobbiamo svegliarla e farla uscire da qui.
- No. Non andate. E' morta!
- Ma va là Pablito, non vedi che sta dormendo? - diceva Ugo mentre si dirigeva verso la donna seguito da Dario.
- Ha un leggero sorriso sulla bocca. Guarda che strano medaglione ha al collo - constatava quest'ultimo.
- Non mi sembra strano. E' un normale monile, forse fuori moda e non adatto a una signora d'età. Beh, proviamo a svegliarla. Signora, Signora!
Poiché non rispondeva, Ugo le scrollò una manica del cappotto.
Come una bambola di pezza, la donna si reclinò tutta d'un fianco. Lui le toccò il volto. Era gelido.
- E' morta, è morta! Non l'avete ancora capito? - urlava Pablito da laggiù in fondo verso l'uscita dove, nel frattempo, era arrestrato.
Ugo non voleva arrendersi. Le tastò la vena del collo. Poi abbassò il capo, mentre Dario attendeva con ansia una risposta.
Era vero. Pablito aveva ragione. Era proprio morta.
- Dobbiamo chiamare la polizia - disse, e Dario eseguì.
Le forze dell'ordine giunte sul posto effettuarono tutti i rilievi necessari e i giornali il resto, intitolando quel triste episodio: "Misteriosa morte di Natale".
Prima che le feste finissero il caso venne chiuso ed archiviato: Morte dovuta a cause naturali, nello specifico a infarto.
Si sorvolò, invece, sulle circostanze che avevano condotto quella signora proprio lì. Nessuno seppe mai che durante quella tragica notte molti avevano fatto lo stesso sogno.
Per quanto riguardava coloro che purtroppo non potevano più sognare...Chissà.