
GIORGIO MOIO
INTERVISTE FANTASMA
Carmelo Bene - Sabilla Aleramo - Annah Arendt

CARMELO BENE
- L'arte sta attraversando un momento di smarrimento. Troppe dispersioni
in questa cultura globalizzata, troppa visibilità strumentale. Come
preservare l'arte dallo sciame di personalismi, dall'immagine di una torre
di Babele?
Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se
editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili,
al contrario. Quando l'arte era ancora un fenomeno estetico, la
sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe
poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l'arte è diventata
decorativa, consolatoria. L'abuso d'informazione dilata l'ignoranza
con l'illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla
carne ha degradato il sesso.
- Che cos'è per lei l'arte?
È decorazione, è volontà di esprimersi. Ciò che nel linguaggio
meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l'intensità, la
modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate.
Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro
questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto
quanto non può essere scritto. Per questo lo scrivere ha così poca
importanza. Nasce così la vera interrogazione che non è della letteratura
ma della filosofia del secolo: oltre Nietzsche e ben oltre Freud,
e ovviamente ben oltre Marx, a confronto con Heidegger, dentro la
coscienza dell'essere detti e del non poter più dire e dirsi ma tuttavia
dicendo e dicendosi.
- Mi scusi: ho bisogno di qualche secondo per riprendermi. Non è facile
stare dietro ai suoi discorsi. Tuttavia stessa difficoltà incontrano i giornali,
troppe notizie inutili: si ricerca il sensazionale, lo scoop come avvoltoi
sui cadaveri. Cosa si sente di dire ad un siffatto giornalismo?
I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo,
sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato, e hanno già il
pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s'inabissa davanti
ai loro taccuini, e tutto quanto per loro è intercambiabile letame
da tradurre in un compulsare preconfezionato di cavolate sulla
tastiera. Cinici? No. Frigidi. Comunque, siamo nell'ambito della libertà
di stampa, anche se spesso frigida: la libertà di stampa mi sta
bene se è libera dalla stampa.
- Un tempo la poesia, che non si distacca dalla stessa sorte dell'arte e
dell'informazione, era il motore della cultura: oggi è decadente e
rinunciataria, rinchiusa in se stessa. Che cos'è per lei la poesia?
La poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia,
delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. È l'abisso che
scinde orale e scritto. È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza
con le parole per non farci fottere dal linguaggio che ci trapassa
senza accorgercene. Si sputa su Einstein, si sputa sul miglior
Freud, sull'aldilà dei principi di piacere; si impugna e si applaude
l'ovvio: avete fatto una minchia di questo ovvio!
- Ma come si fa a comprendere un poeta in questa società globalizzata
e postmoderna?
Per capire un poeta, un artista, a meno che questo non sia soltanto
un attore, ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista. Io per
esempio, di poesia mi occupo (e - purtroppo o per fortuna - si occupano
di me) solo dei significanti, i significati li lascio ai significati:
«Voce mia tua chissà chiamare questo | Mia tua chissà la voce che
chiamare | ventilato è suonar che ne discorre | in che pensar diciamo
e siamo detti | vani smarriti soffi rauchi versi | prescritti da un voler
che non si sa | disvoluto e alla mano intima incisi | segni qui divertiti
disattesi | sensi descritti testi | d'altri che morti fiati | dimentichi 'n
mia tua chissà la voce || Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori |
Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star | inavvenir | Nel sogno che
non sai che ti sognare | tutto è passato senza incominciare | 'me in
quest'andar ch'è stato».
- I giovani o vogliono tutto e subito o se ne fregano dei problemi. È pur
vero che la società non li mette in condizioni di agire, anzi, contrariamente
tende a renderli innocui con la velocizzazione del pensiero e il consumismo
sfrenato. Come ne escono i giovani?
Disprezzo i giovani di questi ultimi trent'anni. Tutto il lager schiamazzante
delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età pericolosamente
volitiva. Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa
di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro,
nidificano nell'autoconservazione.
- Non le sembra di essere un po' duro con i giovani?
Perché lei è in grado di confutare questo mio pensiero dimostrandomi
che i giovani di oggi hanno spina dorsale? Sempre rinchiusi in
casa, davanti ad un computer, ad una playstation, ad un telefonino
col quale (se ne avessero l'occasione) ci farebbero anche all'amore.
Timidi, impacciati, insicuri, mammoni o, bulli, squilibrati in solitudine
o in assemblee perditempo. Questa perpetua assemblea è il comfort
della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di
sequestrare se stessi, "desiderando" (è l'etimo di "studio") e progettando
in tutto privato, s'illudono di "okkupare" una scuola pubblica
allo scopo cretinissimo di conferirle "dignità" ed "efficacia"
innovativa.
- Giuseppe Prezzolini diceva che la «scuola è fatta per avere il diploma.
E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto
è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c'è che
il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in
cui ha per fine il bere». Secondo lei la scuola non sa più insegnare ai nostri
figli?
Direi, più che non sappia insegnare, è superficiale, ripetitiva,
perfino didascalica a volte: manca di espressività, di ragionamenti,
di memoria. Una volta le poesie si imparavano a memoria, oggi non
sanno neanche un verso, non sanno chi è Emilio Villa, Edoardo
Sanguineti, Edoardo Cacciatore, Adriano Spatola, Luciano Caruso,
Stelio M. Martini, De Sade, Jean Genet, Samuel Beckett, perché nessuno
si azzarda ad insegnare artisti d'avanguardia, di ricerca del
nuovo. Ma siamo nella scuola e la scuola crea dei guasti; anzi dei
buchi neri. Ovviamente quella odierna.
- Cosa pensa della politica governativa nell'Italia di oggi?
Non mi vergogno di essere nell'equivoco italiota, non mi interessano
gli italiani. Qualunque governo come qualunque arte - o tutta
l'arte borghese - è rappresentazione di Stato, è statale. È uno stato
che si assiste fin troppo, altrimenti alla mediocrità chi ci pensa? La
mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe
smetterla di governare, ecco. Si può dare uno Stato senza governo,
Mi spiego. Non deve amministrare, deve lasciarlo fare a dei privati.
Detesto la nazionale azzurra, però lo dico. Non me ne fotte nulla del
Rwanda, però lo dico. Voi no, non ve ne fotte, ma non lo dite! Non
sono eroico; me ne infischio di me stesso, del governo, della politica,
del teatro.
- E la democrazia? Dove la mettiamo?
Dove vuole che la mettiamo? Nel cesso la mettiamo, dove l'hanno
messa i nostri politici! In democrazia il popolo è bastonato su mandato
del popolo. È la pratica certosina dell'autoinganno.
- Un carattere non facile il suo, anche se condividiamo molto del suo
pensiero. Immaginiamo che con lei le donne abbiano avuto un pessimo
rapporto. Delle donne, cosa ci dice delle donne?
Il culto della donna gravida, della puerpera e della mamma, è la
più manicomiale abiezione della razza umanoide. Questa efferata
"matrice" preferirei ammetterla come madre di Dio, purché fosse disposta
a dimettersi come matrice dell'uomo.
- Ancora duro col mondo!
Dove c'è qualità si muore.
- A proposito: cosa pensa della morte?
La morte, in generale, non mi ha mai fatto piangere. È così incipiente.
È un incipit. Uno come me ignorato in vita non ha paura della
morte. Io sono già dimenticato, meglio ancora ignorato, in vita. Mi
hanno promesso a Otranto i funerali da vivo. Non c'è bisogno di
consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza.
- Abbiamo parlato di molte cose ma non di teatro, la sua arte. È d'accordo
sul pensiero di Eduardo De Filippo che nel «teatro si vive sul serio
quello che gli altri recitano male nella vita»? Quando si è avvicinato al
teatro?
Non ero (e non sono) ancora mai stato a teatro. Per me il teatro
era solo quello d'opera, il "Margherita" a Bari, l'Arena a Verona, a
Roma "Caracalla", il "Politeama" di Lecce. Mi ci portavano i genitori,
appassionati di lirica, quando andavamo in villeggiatura. Il teatro
era cantato. Lo vedevo e soprattutto lo ascoltavo in radio. Ignoravo
il teatro di prosa. E non ho mai più smesso di ignorarlo. Troppa
attenzione: con Eduardo e Dario Fo, alla mediocrità (ero pressoché
ventenne) abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura
del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, l'abbiamo rimproverato
di non trascurarci abbastanza. Oblio dello Stato, oblio di me. L'artista,
soprattutto il genio, vuole essere trascurato. Fa di tutto per trascurar
se stesso! Già è sfuggito alle apprensioni di sua madre (che
non l'ha lasciato suicidare in una pozzanghera, che l'ha sempre trattenuto
e fermato), alla fine viene un ministro - proprio poliziotto -
che ti si attacca e non smette più. Dico che la mediocrità dei ministri
deve campare, deve sopravvivere anche quella (se no, a quella
mediocrità dello Stato, alla mediocrità di Stato di cui dicevo prima,
"chi ci pensa?"). Lo Stato si occupa della mediocrità della democrazia
(cioè a 65 milioni di Italiani), 65 milioni di Italiani (da imbecilli,
cioè Italiani) votano questo Stato, che è il loro stato di cose, quello
che è stato è Stato e quindi non è stato mai. E i fatti non sono se non
nella stampa (nelle sue falsificazioni e omissioni) o come dice Derrida,
la «stampa informa i fatti non sui fatti».
- La sua arte teatrale è ritenuta "teatro dell'osceno", "teatro pornografico",
"teatro dell'incomprensibile". Che cos'è il teatro pornografico?
Con teatro pornografico intendo una mescolanza e unione tra
enti, in una dissoluzione dell'io e passaggio alla dimensione di
"oggettità carnale" tra gli attori in scena. A differenza dell'erotismo,
che si regge sempre sul dualismo soggetto-oggetto, in un avvicinamento
impossibile [qui Bene sembra riecheggiare la teoria lacaniana sull'impossibilità
del rapporto sessuale tra uomo e donna, tanta è la distanza
tra l'appagamento del desiderio e la nostra costitutiva "mancanza a essere"],
sempre destinato allo scacco dell'identità tra i due poli che si
mantengono in posizione antitetica e inconciliabile. Risultato: dissoluzione
della soggettività e oblio dell'identità nella differenza. Il porno
si instaura dopo la morte del desiderio - morte sacrificale dell'eros -
l'aldilà del desiderio. Quando tu fai qualcosa al di là della voglia, la
voglia della voglia, questo è il porno. È una svogliatezza, è quanto
non è, è quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia. L'osceno
vuol dire fuori dalla scena, cioè visibilmente invisibile di sé.
L'erotismo, invece, è quanto di romanticamente stupido ci possa essere.
Appartiene all'io, il plagio reciproco nella irreciprocità assoluta.
Il porno invece non è più il soggetto in quanto oggetto squalificato,
ma garantisce l'unione tra oggetto e oggetto, non da soggetto a
soggetto.
- Quanto crede di aver ricevuto dal teatro?
Non ho mai cercato il consenso, e quindi non lo so. Non sono nato
per divertire il pubblico con spettacoli teatrali consolatori: ho sempre
rifuggito la vana ricerca di un perché alla vita. Credo che la mia
opera sarà tra le poche che resteranno nella storia del teatro mondiale,
la summa del massacro dei classici per un approccio oltre il
testo stesso che si riflette sulla storia contemporanea.
- Alla faccia dell'umiltà! Per concludere, ci spieghi in poche parole il
suo teatro.
Amo il monologo, anche per le parti dialogate, la perdita del senso
del dialogo o del discorso, il senso della direzione. Nelle mie performance
ha un ruolo importante l'urlo lanciato con veemenza ma
non per spaventare bensì per auto-spaventarmi, come una eco che
rimbomba per ritornare al mittente svuotato di significato. Una perdita
del senso di identità come nel Riccardo III, quando sputo allo
specchio dove mi sto mirando, pensando o facendo credere di essere
sputato. È la causa ed effetto, perdita dell'identità del ruolo, non
sempre corrispondente al copione. È inutile cercare il senso, il significato,
un messaggio, poiché si è sempre in balia dei significanti. Ciò
anche quando scrivo versi.

SIBILLA ALERAMO
- Lei è conosciuta soprattutto per i suoi numerosi amori (Cena, Cardarelli,
Boccioni, Cascella, Boine, Campana, Papini, Quasimodo, Matacotta) e
per il romanzo Una donna dove si affronta il tema della condizione femminile
nell'Italia dei primi anni del '900, portando la sua testimonianza sulla
difficoltà di farsi accettare dalla società come donna e non solo come
moglie o madre di qualcuno. Quando nasce il suo impegno femminista?
Un fatto di cronaca mi indusse un giorno di scrivere un articoletto
e mandarlo a un giornale di Roma che lo pubblicò. Era in quello
scritto la parola femminismo, e quella parola, dal suono così aspro,
mi indicò un ideale nuovo, che io cominciavo ad amare come qualcosa
migliore di me. Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile
in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si svilupparono
nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia
per quelle creature esasperate che protestavano in nome della
dignità di tutte, sino a recidere in sé i più profondi istinti: l'amore la
maternità la grazia. Sempre più il mio pensiero cadeva sulla parola
emancipazione, che ricordavo di avere sentito nella mia infanzia, da
mio padre seriamente, ma poi sempre con derisione da ogni classe di
uomini e di donne.
- Come mai dopo qualche tempo decise di distaccarsi dal movimento
femminista?
Ormai lo giudicavo una breve avventura, eroica all'inizio, grottesca
sul finire; un'avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata.
Ma proseguii il mio impegno civile una volta iscrittami al
PCI.
- Cosa le rimane delle partecipazioni a manifestazioni per il diritto di
voto, per la lotta contro la prostituzione?
L'affermazione di una vita libera e consapevole in contrapposizione
alla costrizione e all'umiliazione dell'esistenza che un'ipocrita
ideologia del sacrificio intende imporre alle donne.
- Qualcuno l'ha definita "mangiatrice" di uomini. Ma per una donna
che ha collezionato un considerevole numero di amanti, che cos'è l'amore?
L'amore è una fusione assoluta, al di sopra di ogni differenza: è il
miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso.
Non so se sono stata donna, non so se sono stata spirito. Son
stata amore. Tutto questo, sì, è un compito immenso, eppure non è
che la superficie: bisogna riformare la coscienza dell'uomo, creare
quella della donna! Ogni selvaggio istinto, ogni violenza di desiderio
e anche ogni superbia di pensiero, naufragava in quella semplice ma
infinita e perfetta affermazione d'amore. L'amore fu la ragione della
mia esistenza e quella del mondo. Amo, dunque sono.
- Lei si è battuta per tutta la vita in favore dei diritti delle donne, rivalutando
la loro partecipazione alla vita sociale, ne più ne meno di un uomo. È
riuscita a realizzare la sua missione dando dignità e diritti paritari alle donne?
Come si può diventare donna se i parenti la danno, ignara, debole,
incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; l'usa
come un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l'abbandona
sola, mentr'egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a
baloccarsi come nell'infanzia? Per questo dico alle donne: ribellatevi
ai soprusi, ai maltrattamenti, riconquistate la vostra dignità di donne,
di madri, di figlie, di sorelle.
- Cosa resta di quella donna forte ma infelice?
Le rispondo con una mia poesia, Guardo i miei occhi: «Guardo i
miei occhi cavi d'ombra / e i solchi sottili sulle mie tempie, / guardo, e
sei tu, mio povero stanco volto, / così a lungo battuto dal tempo? / Mi
grava l'ombra d'un occulto sogno. / Ah, che un ultimo fiore in me
s'esprima! / Come un'opaca pietra / non voglio morire fasciata di
tenebra, / ma d'un tratto, dalla radice fonda, / alzare un canto alla
ultima mia sera».
- Cosa l'ha tormentata nella sua vita?
Ho dato tutto me stessa alla poesia ma la poesia spesso mi ha
abbandonata al mio destino. Ho fatto molto anche per la questione
femminile con le amiche Fausta Cialiente, Natalia Ginzburg, Alba de
Cespedes, Anna Banti, Ada Gobbetti, Elsa Morante e Camilla Ravera,
ma ho raccolto molto poco rispetto a quanto penso di valere. Ho
dovuto difendermi dalle critiche negative che mi etichettavano soprattutto
come l'amante di molti letterati e che grazie a loro sono
riuscita a ritagliarmi un ruolo importante nella cultura italiana. Quanto
è meschina certa gente! Il mio più grande tormento è essere condannata
a sparire senza che nessuno possa veramente tramandare
la mia essenza nonostante tutte le parole che ho scritto e detto, nonostante
tutto l'amore illimitato che ho nutrito per i singoli, per l'umanità
e la poesia. La solitudine, invece, mi spaventa, anche se siamo
state sempre buone compagne.
- Se può consolarla, siamo in due a pensarla in questo modo. Una
donna è forse il suo libro più noto, ma secondo lei qual è l'opera che più di
altre la connota?
Endimione. Un poema drammatico dedicato ad uno dei miei amori
che durò fino alla sua morte, nel 1922. Quando lo rileggo gli occhi
mi si riempiono di pianto: è pura poesia! In nessun'altra mia opera vi
è tanta purezza d'animo. È il vivere nell'alone della morte che trae
alla luce la mia essenza più alta. Vivevo a Napoli (ci ho vissuto dal
1920 al 1922), e nell'allucinata visione del golfo, la libertà da ogni
cruccio materiale mi permise (e fu l'unica volta) la trasfigurazione
fantastica della mia vicenda intima. Spesso mi assale un'ondata di
più cupa tristezza. Nessuno a cui poter dirla, nessuno che possa tentare
di confortarmi, tentare almeno. In tutto il mondo, nessuno.
- Uno dei poeti che ha amato (poeticamente parlando, s'intende) è
stato il poeta francese Paul Eluard (le confesso che è anche uno dei miei
preferiti). Come ha conosciuto Eluard?
La prima volta fu a Roma, nella primavera del 1946, quando venne
a leggere le sue poesie, presentato da Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Allora, del poeta francese conoscevo soltanto Liberté. Scandiva le
sue poesie con mirabile intensità. Io ero seduta accanto a Palmiro
Togliatti, anche lui attento ad ascoltare quei versi, che erano e saranno
affermazioni di felicità, come scrisse un giorno Aragon, di
fraternità, un impeto sovrumano di gioia per la vita, d'amore per la
vita di tutta l'umanità. Oggi è proprio questo quello che manca: l'amore
per la vita e per l'umanità.
- Cosa si aspetta dal futuro?
Poeticamente parlando, mi piacerebbe rispondere alla sua domanda
con la mia piccola lirica Ironica e pallida: «Ironica e pallida /
da un cielo bianco, d'inverno / la luna mi guarda, / è quasi sera, / io
sono tanto stanca / e povera come la più povera... / Mendicare ancora,
perché? / Son sola e senza più giovinezza, / S'irride ai miei canti
/ e pallida e di pietra, / come da un cielo d'inverno, / la vita mi guarda,
/ è quasi sera...». Ritornando con i piedi per terra, infrantomi il
sogno di vedere un'Europa comunista sin dalla mia iscrizione al PCI,
mi aspetto un mondo non soltanto senza più guerre né odii, ma di
intima pace per tutti i cuori. Intenti, i cuori, a creazioni meravigliose,
emule delle stelle e delle rose, senza affanno, senza fretta, fra lunghe
sognanti pause, lunghi colloqui senza parole con lo spirito dell'universo.
Questo nostro tormento, questa nostra solitudine, questa nostra
esistenza da caverna, questo nostro tragico balbettio, questi
smarriti sguardi nel vuoto, questo brancolare impotente o un raro
lampeggiare di grazia quale appare sul volto d'un neonato, lasceremo
in eredità alle generazioni future?

HANNAH ARENDT
- Ho letto due volte il suo La banalità del male, ma non ho ancora
capito perché ha definito radicale la banalità del male.
Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale",
ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione
demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero,
perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso "sfida" come
ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità,
di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è
frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il
bene è profondo e può essere radicale.
- Ho sempre pensato e agito con la convinzione che ogni azione debba
tentare di rendere possibile l'impossibile. Ma leggendo Le origini del totalitarismo
la mia convinzione incomincia a mostrare delle crepe; già ne
aveva tante; comunque, una in più o una in meno cambia poco. Allora è un
problema di comunicazione?
Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male
assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso
e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità,
dell'invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva
vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire.
- Allora sto sbagliando tutto. Quindi, secondo lei le possibilità umane
sono un danno, no una soluzione.
Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato
soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla
in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci
sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare.
- Lei parla così perché è una donna piena di rancore, che non ha amato
nessuno tranne gli studi filosofici.
Ha perfettamente ragione. Non sono animata da alcun amore di
questo genere, e ciò per una ragione: nella mia vita non ho mai amato
nessun popolo o collettività, né il popolo tedesco, né quello francese,
né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo
genere.
Io amo solo i miei amici, e la sola specie d'amore che conosco e in
cui credo è l'amore per le persone.
- Oggi viviamo in una società dove il significato è dato dal totalitarismo
economico imposto da pochi nei confronti di molti, costringendo ad una
vita precaria. In La disobbedienza civile e altri saggi lei ritiene che la
disobbedienza civile sia il rimedio migliore contro l'impotenza dei controlli
governativi. Ci può spiegare meglio questo concetto?
La nostra ricerca di significato è ad un tempo stimolata e frustrata
dalla nostra incapacità di creare significato. Per coloro che hanno
a cuore la ricerca del significato e della comprensione ciò che è
sorprendente nel sorgere del totalitarismo non è che esso sia qualcosa
di nuovo, ma che esso abbia portato alla luce la rovina delle nostre
categorie di pensiero e dei nostri criteri di giudizio.
- Qual è il maggior paradosso della realtà odierna?
Il paradosso della situazione moderna sembra consistere nel fatto
che il nostro bisogno di trascendere la comprensione preliminare e
l'approccio prettamente scientifico nasca dalla perdita degli strumenti
di comprensione.
- Lei sostiene che la novità è il regno dello storia. Perché?
Perché a differenza di quello dello scienziato, che fa riferimento
ad ogni evento ricorrente, occupandosi di eventi che capitano una
sola volta, la storia non ha fine. Solo quando è accaduto qualcosa di
irrevocabile possiamo tentare di tracciarne la storia: l'evento illumina
il suo passato ma non può mai essere dedotto da esso. È compito
dello storico scoprire in ogni periodo dato l'imprevisto ed il nuovo
con tutte le sue implicazioni e scoprire il pieno potere del suo significato.
E la Storia è una storia che ha molti inizi ma nessuna fine.
- Ne La banalità del male ha analizzato i modi in cui la facoltà di
pensare può evitare le azioni malvagie. Vuol dire che gli intellettuali sono
avulsi dalle azioni malvagie? In che modo, se c'è un modo?
Prendiamo ad esempio le atrocità dei nazisti, nella fattispecie quelle
del tenente colonnello che al processo del 1962 in Israele, tentò di
difendersi con una laconica espressione. Disse che in fondo lui si
era occupato soltanto di trasporto, coordinatore dei trasporti degli
ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. Non vi è dubbio
alcuno che quelle azioni furono mostruose, ma chi le fece era pressoché
normale, né demoniaco né mostruoso. Insomma di un uomo
comune, incapace di pensare sotto la pressione degli ordini superiori.
E sotto l'influenza dell'hostis humani generis (i nemici del genere
umano), commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono
di accorgersi o di sentire che agisce male.
- Quindi la tradizionale conoscenza del male va a scontrarsi con la sua
affermazione, cioè se la dimensione di male sia o no una condizione necessaria
per arrivare a fare del male. Dunque parliamo di male assoluto che
non può essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo,
avidità, bramosia, risentimento, sete di potere e codardia. Vuole dire che
siamo succubi del male, a prescindere?
Al contrario! La mia opinione è che il male non è mai "radicale",
ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una
dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo
perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto,
il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità,
andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato
perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene ha
profondità e può essere integrale.
- Passiamo ad altro. Oggi, con una politica che mostra i muscoli solo
contro i più deboli, pare che stia montando una disobbedienza civile. Ricordo
che, quando lessi il suo La disobbedienza civile e altri saggi, mi
rimase impresso il nucleo del discorso, cioè il rimando all'obbligo politico e
alla partecipazione con azioni innovative e rivoluzionarie. Due azioni che
oggi sembrano sparite dalla società.
Perché manca l'associazionismo volontario, cioè una partecipazione
attiva alla vita sociale tra consenso e contestazione, il rimedio
tipicamente americano al fallimento istituzionale, all'impossibilità di
fare affidamento sugli uomini e alle incertezze dell'avvenire. La politica
ha istituito un processo di auto-comprensione per la ricerca di
un significato delle sue azioni al limite del totalitarismo perché la
gente è abituata a non prendere mai decisioni, li abitua ad accettare
immediatamente qualunque regola di condotta vigente in un dato tempo
e in una data società.
- Dunque le società sono diventate delle convenzioni? Ritorniamo al
discorso del pensiero pericoloso del male: non dovremmo aspettarci dall'attività
di pensiero alcuna proposizione o comando morale, alcun codice
definitivo di condotta, e meno che mai una definizione nuova e
dogmaticamente asserita di ciò che sia bene o male?
Se è vero che il pensiero ha a che fare con degli invisibili, ne
segue che è fuori dalla norma, perché normalmente siamo in un mondo
d'apparenza nel quale l'esperienza più radicale della disapparenza
è la morte. Si è sempre ritenuto che il dono di occuparsi di cose
che non appaiono richiedesse un prezzo, cioè rendesse cieco il
pensatore o il poeta nei riguardi del mondo visibile. Non ci sono
pensieri pericolosi, ma è il pensiero in sé ad essere pericoloso, anche
se il nichilismo non è un suo prodotto. Esso non è che l'altro lato del
convenzionalismo; il suo credo consiste nella negazione dei valori
correnti, cosiddetti positivi, a cui rimane legato. Anche il non pensare,
che sembra essere una situazione tanto raccomandabile in campo
politico e morale, comporta i suoi rischi.
- Mi sta dicendo che ognuno vuole fare del bene ma per circostanze ad
essi ignote non ci riesce, almeno non come vorrebbe?
Posto che la collera non può vendicare, la carità sopportare, l'amicizia
perdonare, la legge punire, nessuno fa il male volontariamente.
- D'accordo, ma il male è radicato e si espande sempre di più. Dunque,
la realtà non può portare niente di nuovo perché la riflessione ha già
anticipato tutto. Ma questo non è bello!
Ciò che appare paradossale di ogni cosa che viene semplicemente
definita bella è il fatto che appaia.
Allora siamo solo apparenza. Che bella vita ci attende!