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GUALBERTO ALVINO

La perfetta. Soliloquio infame

con un saggio introduttivo

di Dino Villatico

Cosenza, La Mongolfiera, 2021

di Francesco Tarquini

Isolata in una grotta sulla riva di un fiume in mezzo a pantagrueliche provviste di cibo, una donna, la cui un po' sfiorita bellezza è ancora visibile sotto l'aspetto da barbona all'ultimo stadio, rovescia sul pubblico un fiotto inesauribile di parole. Non esiste praticamente azione, tutto passa attraverso il racconto smozzicato, contorto, avvolto su sé stesso, di una voce che erutta un suo "soliloquio infame".

Questa, molto in breve, la situazione drammaturgica in cui spazia il testo di Gualberto Alvino; un testo di scarne dimensioni, come compresso, in cui trova vita una sapiente esperienza linguistica, della quale lei - la ancor bella virago, «e, la perfetta», secondo il nome poverissimo che essa stessa si è data - è la portatrice.

e narra la propria storia di reietta, anarchica nemica della società che si è lasciata alle spalle, in un parlare impetuoso, fluviale, costruito in forma paratattica come si conviene alla categoria dei bui, dei barboni, dei miserabili cui per sua dichiarazione la narratrice appartiene. Attenzione, però: nessuna traccia di linguaggio "mimetico", nessuna imitazione di parlato "popolare", nessuna operazione di calco realistico; piuttosto una inesauribile creazione linguistica fatta di apporti diversi, di elaborazioni e invenzioni dietro le quali sta uno spirito diabolicamente consapevole. Se dunque la struttura sintattica si presenta sotto la forma di una sorta di accumulazione paratattica, si tratta però di una paratassi sofisticata: spero che l'ossimoro riesca a illustrare quanto il discorso appaia sapientemente coordinato nell'apparente semplicità e nell'apparente disordine.

Non è difficile individuare in e un felice avatar della figura definita come "Narratore inattendibile" - o "inaffidabile" -: di cui riproduce, in primo luogo, una smaccata esaltazione di sé stessa. Ma c'è di più: per colpa dei disturbi mentali di cui soffre, la memoria dalla quale la barbona trae il proprio racconto, la memoria che dovrebbe essere, e non è, garanzia di verità di ciò che viene raccontato, è invece zoppicante, fragile; le cose che dovrebbe ricordare, «sfrangiano, pèrdono peso, si fanno fosforescenti, a spizzico, quasiché tutto il passato mi fosse stato strappato». Accorpandosi alla evidente enormità, alla dubbia verisimiglianza di quanto va narrando, questa dichiarazione nega dunque lo statuto di realtà della storia.

Se ne deduce che se non è la strampalata, grottesca vicenda di e con i suoi episodi di violenza splatter, di arraffamento di risorse mangerecce e di sesso spudorato, a costituire la "verità" di questo testo, dobbiamo cercarla altrove. E se pure potremmo dire che un elemento di "verità" sia da riconoscere nella messa in scena dichiarata e descritta con tanta precisione, a me sembra però che la struttura teatrale con la sua scenografia non abbia di per sé alcuna autonomia significante, funzionando più che altro come semplice contenitore spaziale, o cassa di risonanza di un linguaggio. Se dunque e è un Narratore inattendibile, la "realtà" va cercata fuori dei fatti narrati, cioè all'interno del linguaggio che li affabula e li crea dal caos, il linguaggio che non comunica, non trasmette dei fatti, ma li costruisce mentre si va costruendo. E mentre lo si ascolta dalla bocca della simpaticissima barbona sembra - mi sia consentito l'azzardo impressionistico - di sentirlo mormorare dalla voce di un suggeritore invisibile.

Lo stesso che nella lunga didascalia iniziale vuole introdurci all'incontro per mezzo di un piccolo sapiente inganno, definendo sbrigativamente il parlare di e come «costellato d'anacoluti e strafalcioni tra gravi e gravissimi»: il parlare di e è ben altro che questo, e il suggeritore lo sa benissimo; perché l'inattendibilità di e si dissolve quando dalla sua lingua impastata di idiotismi, di prestiti o meglio di furti, di invenzioni spesso lambiccate, infarcita di anacoluti - vorrei citarne almeno uno, strepitoso, «io prima di farmi venire lo sturbo ne devono consumare di suole» -, emergono affermazioni e allusioni che rivelano un precedente stato culturale superiore, alto, da leirigettato insieme al linguaggio che lo connota e del quale il fiume del discorso trasporta relitti. «Questo è il bello della lingua: dice anche se non dice» (p. 94). A pagina 27: «Per me non capire le parole è peggio della forca». Ancora: «Le parole contano, non ne trovi due identiche» (p. 86), dove - fra gli applausi entusiastici dei lettori di Gualberto Alvino - dichiara l'inesistenza di sinonimi.

D'altro canto il parlare di e produce qua e là piccole perle di scrittura "alta", ai bordi dell'espressione poetica: «chiasso delle campane sotto volte nerissime raramente spruzzate d'azzurro»; «ombre dietro veli accesi si fanno fiocchi di roba sciolta a sfiammate temporalesche».

La perfetta è definita come soliloquio infame. Infame, parola forse consunta dall'uso ma di ampio spettro semantico. Se infame in prima accezione «è detto di persona che, per aver compiuto azioni particolarmente turpi e spregevoli, si è resa indegna della pubblica stima», come recita il Dizionario Treccani, la sua origine latina ci dice solo di qualcosa non degna d'esser ricordata: ma ecco che dal fronte opposto avanza il perverso, lo scellerato, il traditore; ultimo, affiora da un uso familiare, quotidiano della parola, un criterio di giudizio estetico: un libro infame, ahimè, è un libro di nessun pregio. In qual senso, dunque, è lecito domandarsi, questo soliloquio è infame? Forse dietro l'aggettivo si occulta un sorriso divertito? Potrei dire serenamente di sì, soprattutto avendo compiuto una veloce, superficiale indagine sul lessico, che chiede di essere approfondita assieme a quella sulla struttura grammaticale e sintattica di questo testo che, come ogni testo "di ricerca", è inesauribile.

Da questa breve indagine deduco la presenza di parole dell'uso volgare, come scacazzare e altri; trovo fra molte altre appropriazioni dialettali come il romanesco alberipizzuti per 'cimitero', sgnaccata, dialettale probabilmente veneto per 'cacciata, ficcata': ricordo l'espressione militare "ti sgnacco in cella"; e sgnacchera, geniale invenzione per l'organo femminile; ed ecco un sistema planetario di parole riferite al sesso, a cominciare da mungere, per 'masturbare', grilletto, che da bambino sentivo senza capire bene, per 'clitoride'; e una invenzione da premio, becco cirano per indicare il membro virile, con doppio livello di connotazione perché evoca il naso di Cyrano de Bergerac; poi ecco caporello, creato per 'capezzolo'; scalcagnate, termine di uso raro per 'colpire col calcagno'; ammalagnire, credo inventato per 'irritare' o simili; accicognata, inventato per 'accucciata', ma quanto più espressivo; e quel magnifico fottisterio che mi riporta a Stefano D'Arrigo e che scopro proveniente dal dialetto siciliano. Per finire la brevissima rassegna cito accanto al becco cirano solo un altro costrutto stupefacente, un pitone col sanvito, riferito allo strisciare scomposto del mendicante senza braccia.

Se non è divertimento questo. Che si rivela sghignazzante nella parlata dei watussi, e raggiunge l'acme nel momento in cui e racconta del suo rapporto orale dentro il cimitero col figlio del becchino, critico letterario: con saporosa frecciata dietro la quale sta l'arco di quel suggeritore di cui sopra.

Bui. Così e definisce i derelitti come lei. Penso alla costellazione di fenomeni e parole che ruota attorno alla parola buio: relazioni di significato, relazioni linguistico-lessicali. Bui per 'miserabili' ben si adatta alla grotta che fa da scena al soliloquio; e l'assenza di luce evoca un'espropriazione, non soltanto di classe, ma di sapere, di intelligenza, di capacità di comprensione. Che e rivendica in più punti, quasi a contrastare - con quelle rivendicazioni - e con lo stesso maniacale fluire ed esondare della parola l'incubo della propria malattia.

A esondare, alla fine, sarà il fiume: anzi, Fiume, maiuscolo al contrario di e, simile a un dio in agguato. «Io e lui siamo la stessa cosa - dichiara lei all'annunciarsi dell'inondazione -: parla quando parlo, dorme se dormo, s'imbestia se m'abbestio». Si definisce così in modo chiaro la relazione di senso fra il fluire del linguaggio e lo scorrere del fiume: o meglio di Fiume, come, fino a che non è andata perduta la parlata romanesca, si è chiamato il Tevere.

Nel testo è fortemente presente l'immagine del cibo. Mangiare, divorare, un insaziabile ventre divorante: cibo e sesso. Il cibo - ci conforta il pensiero di Lévy Strauss - è una forma di linguaggio che contribuisce all'espressione della percezione umana della realtà. Ma nella Perfetta il cibo viene spogliato del suo simbolismo culturale, del suo senso di interazione comunitaria, in sostanza del suo ruolo di definizione di sé e del proprio rapporto con l'altro, e destinato al contrario, prima ancora che a un solitario divorare, a un forsennato immagazzinamento. Lasciando da parte il fatto che il ventre divorante è un potente simbolo femminile, concludiamo che passa in modo assai vistoso dal cibo il rifiuto globale di e, che è in primo luogo ripudio di quella lingua formalizzata che costituisce in origine la chiave della sua identità sociale. L'atto di mangiare comporta dunque mangiare il linguaggio, assaporare e degustare la lingua con la lingua, prima di "sgnaccarla" a decomporsi nell'apparato digestivo, in un fremere di quello spirito carnevalesco in cui il genio di Bachtin ha ravvisato una delle strade maestre della scrittura. Uno degli esempi più calzanti sta secondo me in certi fiori barocchi come quello a pagina 92: «due bagasce scimmiesche colle ciocce come otri in damaschi imbarocchiti da toppe solferine appiccicati alle pelli umide, carreggiate anali a tre corsie».

Quel ventre divorante inghiotte dunque anche il linguaggio: e il linguaggio stesso è divorante, essendo l'unica cosa "vera" di questo testo, l'unica alla quale si possa attribuire uno statuto di realtà. Il divorare come rappresentazione allegorica di un linguaggio che straripa come Fiume nella voluttà di ingoiare e digerire ogni altro linguaggio.

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