ETICA DELLA CRITICA

di Francesco Muzzioli

Il rapporto tra etica e letteratura si ripropone oggi all'ordine del giorno. Non vorrei che esagerasse e il politicamente corretto fosse portato a tal punto che, dopo aver abbattuto le statue, si pretendesse di correggere tutti i cattivi personaggi letterari. Tra l'altro, questi eccessi non sono affatto nuovi e si sono manifestati - a partire, volendo, dalla Repubblica di Platone che sconsiglia di dare le "finzioni" ai giovani (chissà che direbbe oggi delle serie TV...) - in forma di censura, con rischi concreti per gli autori. Sarebbe interessante ripercorrere i processi dell'Otto e Novecento, vedendo come, sia dall'accusa che dalla difesa, venga utilizzata la critica letteraria. L'accusa, di solito, è capillare, tende a cancellare qualche componimento ritenuto "spinto", quindi non ha la concezione dell'unità dell'opera e del giudizio complessivo, manca insomma della dellavolpiana contestualità organica. La difesa, di solito, è puntata sulla differenza tra arte e pornografia e quindi sulla trasfigurazione sublimante del potere estetico rispetto alla bruta materia rappresentata. Una strategia a parte - che però l'autore non gradì - è quella dell'avvocato Quinn che difese l'Ulysses di Joyce sostenendo che, tanto, non ci si capiva niente... Non è detto, però, che la letteratura debba essere del tutto sottratta all'etica: negli appunti che Baudelaire affida all'avvocato che deve difendere le Fleurs du Mal, l'autore sostiene che «Il y a plusieurs morales. Il y a la morale positive et pratique à laquelle tout le monde doit obéir. Mais il y a la morale des arts. Celle-ci est tout autre, et depuis le commencement du monde, les Arts l'ont bien prouvé». Ecco, vorrei vedere se qualcosa di simile si possa dire della critica, se possa esistere una morale specifica della critica.

Ma prima non sarà di scarso interesse attraversare la piega che prende il dibattito quando una morale progressista si distingue dal moralismo conservatore. Intendo parlare dell'antitesi tra autonomia dell'arte (o arte per l'arte) e arte impegnata. Questa antitesi dispiega una dialettica storica, ma anche una serie di paradossi. Storicamente, come ha notato Peter Bürger, l'arte autonoma è una reazione ai condizionamenti esterni che finirebbero per ridurre le potenzialità creative; nello stesso tempo, però, sia l'autonomia si può ricondurre a precise condizioni economiche (per esempio il libero mercato che si traduce in libertà di opinione e di parola), sia la creatività e il "libero gioco" delle facoltà possono vantare in seconda istanza un valore sociale. Fino alla visione rovesciata di Adorno che ritiene socialmente utile l'opera d'arte quanto più si distanzia dalla realtà utilitaristica. Scrive Adorno nella Teoria estetica: «Nella sua differenza dall'esistente l'opera d'arte si costituisce necessariamente in relazione a ciò che essa come opera d'arte non è e che solo la rende opera d'arte»; e: «L'arte è l'antitesi sociale della società»; entrando in ribaltamenti senza fine che costituiscono le contraddizioni dell'avanguardia (non senza, in Adorno, qualche nostalgia - o senso di colpa - per l'armonia perduta).

Dalla parte dell'engagement, si può rilevare che il suo massimo veicolo, cioè la nozione di realismo, sia legata indubbiamente a criteri estetici. Solo apparentemente, infatti, il realismo dipende dalla realtà che viene rappresentata, nel qual caso sarebbe facile valutarne la portata e la direzione guardando se coincide oppure no; in gran parte, invece, poggia sulle modalità di rappresentazione. Alla fine, tutto si riduce a una priorità: è quanto afferma Sartre, cioè che

Sulla forma non c'è niente da dire a priori, e noi non abbiamo detto niente: ognuno inventa la propria, e la si giudica in seguito. t vero che i temi propongono lo stile: ma non lo impongono; non ce n'è a priori, al di fuori dell'arte letteraria. (...)Si tratta, insomma, di sapere su che cosa si vuol scrivere: sulle farfalle o la condizione degli ebrei. E quando lo si sa, resta da decidere in che modo scrivere. Spesso le due scelte si confondono in una sola, ma, nei buoni scrittori, la seconda scelta non pre­cede mai la prima.

Ma lo stile, anche se in seconda battuta, vuole la sua parte. Perfino in Lukács, il realista più dogmatico che ci sia stato, noi vediamo chiaramente che il realismo è sostenuto da una impalcatura in qualche modo "classica", vale a dire dal personaggio "tipico" e dalla unità dell'opera (quando comincia a sgretolarsi l'unità epica del romanzo ottocentesco, per esempio in Flaubert, già Lukács storce il naso: con Kafka siamo all'anatema). L'avanguardia surrealista da un lato e Brecht dall'altro si muoveranno in mezzo a questi scogli, piuttosto pericolosi. E il momento decisivo è la scoperta dell'ideologia della forma. La mia impressione, rispetto al dibattito odierno sul realismo, è che si torni indietro senza considerare le passate discussioni (e i loro errori), finendo in versioni semplificate del problema, sicché - per usare la formula proposta dai Wu Ming - la New Italian Epic si trasformi come niente in una New Italian Ethic, alquanto sommaria.

Il punto che non andrebbe mai dimenticato è la dialettica letteraria, senza la quale la letteratura come tale semplicemente scompare. Intendo dire la necessaria elaborazione del negativo. Mi pare che la parole più chiare a questo proposito siano state scritte, con la sua consueta precisione da Francesco Orlando, riprendendo dalla psicoanalisi freudiana la "formazione di compromesso". Scrive Orlando:

Ora, vedrei la differenza seguente fra un'opera di letteratura, foss'anche la piú impegnata e ideologizzata, e una di pura ideologia; una differenza che aggiunge alle usua­li storicizzazioni una quarta dimensione ‒ talvolta semplicemente una terza. Solo il discorso ideologico può limitarsi a una scelta razionale ed esclusiva fra due intenzioni o due correnti contrastanti o due forze, e quindi fra due signi­ficati; in esso può apparire giusto e ovvio che l'errore, il nemico, ecc. siano pri­vi di voce. Non voglio dire che anche in un'opera di letteratura non possa sa­persi benissimo, alla fine o dall'inizio, chi ha ragione e chi ha torto. Ma il di­scorso letterario tende a lasciare, anche all'intenzione che ha torto, abbastan­za spazio per accordarle magari un po' meno di una mezza riuscita; e infligger­le quindi un po' piú di un mezzo fallimento. Ne saranno piú o meno dimidia­ti riuscita e fallimento dell'intenzione opposta, quella che ha ragione. È im­probabile che il discorso letterario tralasci di cedere la parola al nemico: sia pure temporaneamente, tendenziosamente, indirettamente, ambiguamente. E poiché il discorso resterà nondimeno uno solo, in qualche modo ambiguo do­vrà diventare per intero. 583

Una imbracatura che mettesse del tutto la museruola alla "parola al nemico" perderebbe l'effetto dialettico che ci porta a fare i conti con il male. Con ironia Terry Eagleton, un critico marxista che negli ultimi tempi si è occupato molto di morale, ha sottolineato il fatto evidente che in letteratura i personaggi virtuosi rischiano di essere monotoni, grigi e banali, mentre i cattivi sono intelligenti, vitali e esuberanti: «Il problema ‒ egli scrive nel suo libro On Evil, sul Male ‒ Il problema è che i personaggi normali hanno tutta la virtù, mentre le figure anomale [freakish] hanno tutta la vita». Piuttosto che bere un succo di frutta con Oliver Twist preferiremmo farci una birra con Fagin. Pensando al romanzo ottocentesco, Eagleton rimarca che il diavolo ha avuto «tutti i brani migliori [all the best tunes]».

A farla breve, la prima cosa da escludere nell'affrontare l'etica della criticaè che questa possa risolversi nella mera applicazione della morale dominante. Neppure le recenti teorie che vedono nell'empatia un atteggiamento prosociale e quindi considerano positiva la lettura delle finzioni narrative perché ci allenano a metterci nei panni dell'altro, neppure questa rivalutazione etica (del tutto contraria a quella del vecchio Platone) mi convince, per il semplice fatto che viene, guarda caso, a coincidere con la logica del mercato, quella "poetica editoriale" molto più cogente dell'antica normativa. Nello stesso tempo, però, è impossibile esentare l'attività del critico da ogni vincolo etico. Comunque la si voglia intendere, tale attività è tenuta a una doppia responsabilità, da un lato verso il testo che prende in considerazione, dall'altro verso i destinatari del suo scritto (per quanto di essi non possa presupporre nulla). Nei confronti del testo, il limite della libertà dell'interpretazione è la lettera (questo limite è stato ampiamente esplorato da Eco, nelle sue polemiche contro la "sovrinterpretazione"). Nei confronti dei destinatari, la critica è un discorso argomentativo e quindi deve ottemperare all'etica dell'argomentazione, così come l'ha discussa Habermas. Una assoluta libertà della critica, la porterebbe in uno stato dove non sarebbe più possibile un confronto: è la tesi di Stanley Fish della abolizione del testo, che conduce al relativismo e quindi alla scelta fideistica di un metodo che non è passibile di alcuna verifica se non pragmatica. Il decostruzionismo non arriva a concezioni molto diverse: se noi consideriamo i nostri discorsi come frutto delle rispettive volontà di potenza diventa inutile mettersi attorno a un tavolo a ragionare, si può solo misurare l'adesione (i "mi piace", i followers e via dicendo; ovvero il successo delle opinioni). Se invece consideriamo la discussione collettiva come indispensabile, e doppiamente indispensabile, da un lato, alla formazione di un terreno comune di intesa, dall'altro al miglioramento della funzionalità dei ragionamenti, allora vanno richieste alla critica almeno due elementari modalità.

1) Il rispetto del testo. Che non significa affatto rinunciare alla critica come valutazione negativa. E nemmeno accettare il verdetto del tempo sul testo classico, come suggerirebbe l'ermeneutica di Gadamer. Con il rispetto del testo non è neppure che siamo tenuti ad accettare l'intenzione dell'autore o la logica della sua poetica (men che meno l'attestato di una presunta ispirazione come garanzia del suo risultato): non dobbiamo però fargli dire quello che non ha detto. Anche l'dea decostruzionista che il testo, per effetto dell'ambiguità del linguaggio, significhi sempre il contrario (oppure: fa sempre il contrario di quello che dice), se pure è dotata di un certo fascino, deve accettare almeno la differenza la lectio facilior e difficilior. E ammettere lo sforzo che fa - non già l'autore, ma il testo stesso - per essere coerente con se stesso. La contingenza del significato non dimostra che il significato è sempre instabile, ma che dobbiamo operare il confronto tra un significato storico-oggettivo (dove l'etica della critica è eminentemente filologica) e un significato attuale-soggettivo, che nasce dal confronto tra il passato e il presente e determina la problematica emergenza dell'opera nel momento della lettura critica. Risolvere tutto, come oggi si tende a fare, con la legge del piacere, non mi pare soddisfacente: va bene che il piacere è un fatto oggettivo, tuttavia è un calcolo che sottostima molte altre variabili (un testo può creare disagio, ma questo disagio tradursi in riflessione e acquisizione culturale, mentre un intrattenimento momentaneo svanisce presto senza lasciare traccia). Del resto, una etica della critica non dovrebbe far molto conto del risultato edonistico. Il "rispetto" del testo contiene anche l'istanza a non ridurlo a una macchina produttrice di piacevolezza.

Direi che il rispetto dovuto al testo da parte del critico è più o meno lo stesso di quello cui è tenuto un traduttore. In fondo, la critica non è altro che una traduzione, della Volpe parlava di "parafrasi", dal linguaggio creativo a quello argomentativo. Solo che, a differenza del traduttore, il critico può prendere qualche distanza in più, anzi, direi che deve prenderla e in questo, consiste, come vedremo più avanti, un altro risvolto etico.

2) L'enunciazione delle coordinate. Il giudizio del critico può essere più o meno manifesto, a volte è tutto interno alla scelta di parlare di un testo invece che di un altro. Ma giudicare è sempre connesso alla critica, che ha nel suo etimo il setaccio. Ora, comunque si disponga e si esplichi la valutazione, sono convinto che il critico sia tenuto ad enunciare le proprie coordinate, i propri "metri". Per questo, un giudizio implicito in una descrizione di "dati" è sempre meglio di un giudizio categorico emesso senza motivazioni. Capisco che non si possa premettere ad ogni recensione un riassunto dei parametri e sta al lettore desumerli di volta in volta; e però non può bastare un verdetto emesso di autorità sulla base insindacabile che il gusto del critico è il migliore e deve essere preso ad esempio. Deve essere chiaro, anche nel modo con cui il giudizio di esprime, che ogni approccio deriva da premesse teoriche (ancorché nascoste nel vago del senso comune) e si serve di alcuni strumenti - per poco che sia, di un vocabolario - e che a partire da essi il dialogo con il testo perviene a un certo risultato. Etica dunque vuole che il critico presenti le sue credenziali. Si tratta semplicemente di una esigenza di trasparenza.

Ogni giudizio perentorio e inverificabile si basa infatti sul presupposto di un consenso generale sui criteri, del quale il critico sarebbe soltanto l'interprete più fedele in quanto esperto del ramo. La trasparenza invece esige che si esca da questa "finzione dell'accordo" e si metta subito in chiaro che ci si trova nel campo di un dissidio. Se la letteratura è attraversata dal conflitto (e non può essere diversamente, se lo è la società nel suo insieme), allora la cosa più importante che deve essere messa in chiaro è la posizione del critico. Per trovare ciò che ci unisce è necessario prima sapere bene ciò che ci divide. Altrimenti ci si trova a maneggiare nozioni imprecise e falsamente affratellanti (poesia, bellezza, ecc.). Tornare a leggere il campo letterario in termini di tendenza (riprendere il Benjamin de L'autore come produttore), vale anche a sfatare i patemi dei narcisismi autoriali nei confronti delle critiche negative, delle esclusioni dalle antologie, perfino dei rifiuti editoriali. Forse tra poco bisognerà stare attenti a fare una stroncatura per non trovarsi citati per diffamazione (chiedo anche per la critica uno "scudo legale"!). Nessuna delusione, invece, a prendere la cosa esattamente come una presa di posizione. Pensare la critica come uno schieramento strategico in cui la tendenza del critico si rapporta alla tendenza che riconosce nel testo, elimina la pesantezza di un giudizio che sembra provenire dall'alto dei cieli dell'estetica e comportare l'esclusione dal paradiso. Non c'è nessun paradiso della letteratura, ma una imbarcazione precaria, per giunta divisa tra ciurme discordi e gruppi di ammutinati.

In un modo o nell'altro, la critica è sempre partigiana. La buona volontà dell'ermeneutica ha nascosto questa elementare verità. Ma la buona volontà non deve essere esercitata soltanto nei confronti del testo, per cercare di capirlo e di comprenderlo (non a caso la comprensione, ha un doppio significato, uno semantico e uno un po' troppo pietoso), oppure, come oggi si preferisce, incentivando l'empatia. Una corretta visuale dell'ermeneutica è stata formulata da Fausto Curi nel folgorante abbrivio di un suo saggio:

Quando un libro arriva per la prima volta ai lettori non chiede soltanto di essere letto, né soltanto di essere giudicato. Esso, in primo luogo, interpella i lettori per essere riconosciuto da coloro dai quali è atteso, e per riconoscerli a sua volta. È que­sta doppia vocazione, che fa nascere una scrittura perché vi sia una lettura, e che suscita una lettura per istituire una scrittura, ciò a cui diamo il nome di attività letteraria. Che il libro sia at­teso non significa peraltro che i lettori sappiano con precisione quale libro, e quando, giungerà fra le loro mani. Esso è l'atteso-inatteso e la sua epifania è insieme prevedibile e portentosa. Ma, una volta riconosciuto, ciò che immediatamente esige è un consenso che lo aiuti a prevalere sui suoi antagonisti. Giacché, prima ancora che lettori, un libro ha appunto degli antagonisti, e solo a patto di batterne l'opposizione può sperare di sussiste­re al di là del suo primo incontro con il pubblico. L'idea che fra le opere prodotte da scrittori della stessa generazione, o di generazioni diverse, intercorrano rapporti tematici e linguistici che consentono agli studiosi di parlare di influssi, di lasciti, e, più tecnicamente, di intertestualità, è un'idea che corrisponde alla realtà effettuale dei processi di scrittura, ma che non deve in alcun caso, come troppo spesso avviene, mettere in ombra l'aspetto della conflittualità genetica dei testi. Che è, si capisce, conflittualità o meglio ancora antagonismo appunto di testi, non di autori.

Invece di una trafila "valore sancito dalla tradizione-ascolto volenteroso-cura del testo" abbiamo una diversa trafila: "appello antagonista-complicità-schieramento", che però potrebbe anche con uguali probabilità risolversi in quest'altra: "seduzione-discordanza-rifiuto". Se ho sostituito, nel caso della critica negativa, "appello" con "seduzione" è perché l'esempio di Curi è quello di un testo d'avanguardia che chiama a raccolta proprio perché nel contesto dove cade si sente aggredito e si difende come è logico che sia. Invece, la quantità di testi che, per capirci, dirò "di sistema" godono tutto l'appoggio e anzi sono progettati per il mercato già in base a un presupposto di accoglienza. Sono testi piuttosto "di seduzione", basati su effetti previsti in partenza per trovare empatia. L'etica della critica in questo caso deve evitare di "lasciarsi sedurre" (vedi che viene utile il vecchio avvertimento brechtiano!) e guardare sotto gli effetti di superficie per cogliere i modelli ideologici che passano inavvertiti, proprio grazie a quegli "attrattori".

Si obietterà che questa lotta è ormai perduta e sarebbe il caso di arrendersi... Ma Benjamin ci avverte che abbiamo di fronte in ogni caso una sia pur minima chance rivoluzionaria. In fondo di fronte anche a una semplice recensione, siamo di fronte a un bivio. È proprio in virtù di questa localissima responsabilità che ancora si può parlare di un'etica della critica.

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