DUE CAPITOLI

di Ugo Piscopo

1. Clima di armistizio: sciogliete le righe

L'8 settembre 1943 era per me un pigro, tiepido pomeriggio. Io me ne stavo a letto, cioè nel lettone dei miei genitori, in osservazione di contagiato di influenza, col termometro sul comodino di mio padre, insieme con qualche aeroplanino e qualche barchetta di carta, che mi ero fatto io stesso con orgoglio e con implicito sostegno allo spirito del tempo votato totalmente alla guerra di civiltà, secondo la formula della Triplice Alleanza (Italia, Germania, Giappone).

A un certo punto, non si capì niente più. Le campane si misero a suonare festosamente, come se non ci fosse più una guerra in atto. Mia madre gridò: "E che è?..." e corse verso il balcone, che si affacciava sul Corso Vittorio Emanuele, la via principale del Paese, quella del "paseo" serale, degli strusci e delle celebrazioni di matrimoni. La chiesa, dedicata alla patrona del Paese, la Madonna Addolorata, era quasi lì di fronte e questo riempiva d'orgoglio mia madre, che era una "zelatrice", formalmente impegnata nelle iniziative religiose.

Mia madre se ne stette un bel po' affacciata, senza riuscire a capire gran che su quanto stesse succedendo. Infine, tra meravigliata e un po' allarmata, se ne tornò da me e mi riferì che non si capiva niente di chiaro e che stava per accadere qualcosa di inatteso e di improvvisato, forse, ad esempio, si stava per organizzare una processione, venuta in testa chissà a chi. "Stanno forse," concluse, "per ...", e non finì la frase. Ribaditami la raccomandazione di non scendere dal letto per guardare, perché sarebbe stata sua cura informarmi di tutto, tornò verso il balcone e se ne stette trasecolata a guardare verso la chiesa. Poi prese a parlare sola sola, a tratti a voce alta, a tratti come biascicando le parole. Infine esplose, fuori di sé, rivolgendosi a me come interlocutore principale: "Quisso è ziito Nicola. Dio mio, portano in processione mio cognato!" E si batté con una mano la fronte.

Zi' Nicola per me, Masto Nicola per tutti gli altri del paese e dei dintorni, era un personaggio singolare. Fondatore e gestore del primo locale cinematografico del paese, era uno contro: innanzitutto contro il fascismo, poi contro il clericalismo e le operazioni di potere della Chiesa, ma non era contro il cristianesimo e i Santi. I Santi andavano tutti rispettati, a cominciare da San Giuseppe e dagli Apostoli. Durante, però, le manifestazioni e le celebrazioni ufficiali volute dal PNF al potere, era tenuto sotto controllo sia dalle autorità, sia dai carabinieri della locale caserma. Magari veniva prelevato, per misure cautelari, nella sua bottega e trattenuto dentro per lo stretto periodo necessario allo svolgimento degli eventi. Quindi, inutilmente ammonito, veniva rimesso in libertà.

Aveva sposato una sorella di mio padre, da cui aveva avuto tre figlie femmine e quattro figli maschi. Uno, Silvio, partì per il fronte russo e non tornò mai più in Italia. Gli altri tre, Giuseppe, Sinibaldi ed Ermonde, presto si affermarono come artisti sul piano nazionale e oltre, partendo dalle esperienze maturate nella bottega paterna.

Zi' Nicola gestiva, con la sala cinematografica, una splendida e operosa falegnameria, da cui faceva uscire mobili fatti con un'accuratezza e con materiali, destinati a durare e a valorizzare gli ambienti dove venivano collocati. Ma la sua opera non finiva qui. Era rimasto con i fratelli Angelo e Vincenzo un punto di riferimento per gli apparati e le ornamentazioni delle feste sia di Pratola, il nostro paese, sia di molti paesi attorno, dove aveva estimatori e ammiratori.

Ma la sua attività si estendeva ancora oltre. Ingegno plastico e icastico, si venne gradualmente provando con la pittura a olio naive su tavoletta molto accurata nei dettagli e dagli effetti avvolgenti e gradevoli.

La sua ostilità al fascismo e alla guerra, affrontata avventuristicamente e guappescamente da Mussolini e dai suoi retoricamente fastosi sostenitori, grazie al consenso pressoché totale del popolo italiano incantato dai gesti e dalle minacce al mondo intero del suo furente e travolgente Capogregge , era nota a tutti in paese. Così, quando a Pratola giunse sull'onda delle radio la notizia che si era sottoscritto un armistizio con gli anglo-americani, zi' Nicola fu un primo, anche se confuso, punto di riferimento. Lo andarono a prendere nella sua bottega e tutti agitati e tripudianti scesero verso la Chiesa, mentre le campane avevano preso, senza una regia, a suonare festosamente all'impazzata. Quando giunsero dinanzi alla chiesa, zi' Nicola fu sollevato più volte in alto come un vincitore, come annunziatore di verità, della verità vera.

"Come è possibile?", si chiedeva intanto mia madre e, poi, continuò a chiedersi in varie occasioni, quando ricapitolava la scandalosa vicenda, che miscelava tutto insieme politica e religione, pace e guerra, sacralità e stato di agitazione popolare. Mio padre, a commento sorridendo concludeva, senza convincere del tutto chi ascoltava: "Tutti i salmi finiscono in gloria".

Piano piano tutto quel ribollimento popolare venne calmandosi, per dare spazio alle riflessioni sul che fare e su quanto veniva profilandosi adesso a livello nazionale e internazionale.

"Ma adesso che succede? Che succederà?", era la domanda più diffusa e piena di meraviglia e i più rispondevano che così, cioè con l'armistizio, andava bene per tutti, sarebbero finiti i bombardamenti diurni e notturni, la gente poteva adesso andare a dormire la notte nel proprio letto, senza continuare a scappare di qua e di là, i commerci di contrabbando si sarebbero placati, i soldati impegnati sul fronte militare sarebbero tornati in famiglia e avrebbero ripreso le loro normali attività, le tessere sarebbero sparite e tutti avrebbero potuto comprare il pane, quello di grano e di granone e non quella stomachevole e non digeribile fetenzia che veniva distribuita secondo le tessere ed era sfacciatamente chiamata "pane", mentre era un orrido impasto di tutto un po' non bene e non facilmente specificabile.

Diffuse, però, erano anche le preoccupazioni e le domande sulla figura che faceva l'intera Nazione, insieme con la Germania e col Giappone, che aveva minacciato le maggiori potenze mondiali di sottomissioni e ridimensionamenti, con l'impegno di ridare un nuovo ordine alle interrelazioni fra le varie nazioni, sotto la guida dei popoli vincitori, che non potevamo che essere noi. E noi adesso ci eravamo ridotti a pezzenti, che avevano bisogno di soccorso dai vincitori, i quali erano stati provocati e aggrediti nientedimeno che da noi, ora ridotti a masse indecorose e informi di affamati e di sconfitti. In pratica, le minacce si erano ritorte contro chi le aveva fatte. Quelli che spavaldamente si erano guardati nello specchio e avevano proclamato di risistemare loro i rapporti economici e internazionali dell'intero pianeta, ora gettavano la spugna e chiedevano umilmente di essere risparmiati.

I medesimi, inoltre, si trovavano di fronte a enormi contraddizioni: con l'armistizio, tutta la realtà politica si capovolgeva. I nemici di ieri, inglesi, francesi, americani e perfino russi diventavano da un momento all'altro, senza avviso e senza preparazione ideale, i nostri amici e protettori, mentre gli alleati e amici, i tedeschi e i giapponesi, con cui ci ripromettevamo di spartirci da vincitori il controllo dei nuovi flussi storici, adesso diventavano i nostri peggiori nemici.

Nel giro di un pomeriggio, il mondo intero, compreso quel paesino dove eravamo che con il capoluogo e tutte le frazioni arrivava a poco più di quattromila abitanti, acquistava tutt'altro valore e senso. Quei valori e quelle alleanze, su cui si era giurato finora con tutta l'anima e tutto l'effervescente consenso per sempre, venivano dismessi e abbandonati a sé stessi, come materiali di risulta, anche se dentro a quei materiali restavano sogni e prospettive, che avevano suggestionato il nostro immaginario a livello nazionale. Ora la Nazione diventava tutt'altra cosa, da ridisegnare e mettere alla prova sulla griglia di ben altri simboli e valori, su cui, fino a un attimo prima, si sputava e si giocava di scherno. Il rovesciamento delle prospettive e degli impegni era, doveva essere totale e convinto: il bianco diventava nero e viceversa.

Non si capiva niente più. Niente più era scontato e solare. Bisognava ricominciare tutto daccapo. Ognuno per sé, ognuno a rischio personale di fallimento. Naturalmente, ci furono, soprattutto a Sud, anche rifiuti assoluti del nuovo stato delle cose, quindi non mancarono quelli che si dichiararono fedeli ai giuramenti fatti alla Patria in guerra, rimanendo legati a modelli nostalgici, ormai inattuali. Ma tant'è, i laudatores temporis acti non mancano mai, non possono mancare.

Qualcosa di analogo al trauma dell'8 settembre 1943 si sta riproponendo sulla scena dell'intero pianeta a noi oggi, a seguito dell'arrivo inatteso di questo sconvolgente evento, che chiamiamo pandemia da covid-19.

Non si tratta di un fenomeno analogo ai clamorosi episodi di diffusioni influenzali precedenti particolarmente rapinose e tragiche, come, ad esempio, la cosiddetta "spagnola" del primo grande dopoguerra mondiale. Di esso sappiamo molto dal chiacchiericcio, a cui hanno dato belli e intriganti contributi anche molti e notevoli personaggi impegnati nelle ricerche scientifiche, ma poco di fondato su accertamenti di ricerca. In Cina, si parla di cure appropriate sperimentate sui pazienti, in Russia Putin ha dichiarato solennemente che è stato trovato e sperimentato un valido e sicuro vaccino, ma l'OMS mantiene su tutto estreme riserve e intanto il morbo dilaga sull'intero pianeta senza incontrare validi contrasti.

Ad oggi, 23 agosto 2020, nel mondo, secondo dati forniti dalla John Hopkins University negli USA, i casi complessivi di coronavirus di contagio superano i 23 milioni, mentre il numero dei morti accertati supera gli 800.000. C'è da aggiungere che i casi di morti accertati non comprendono quei tanti altri casi causati dal morbo, ma sfuggiti, per varie ragioni e circostanze, agli accertamenti, come quelli avvenuti in vari istituti di ricovero in Lombardia e altrove. In Europa, ora, si tengono gli occhi puntati su Francia, Spagna Gran Bretagna e Germania. In questo Paese, dove all'inizio si è reagito bene al morbo, attualmente i casi di nuovi contagi nelle ultime ventiquattro ore sono stati più di duemila e si è venuta delineando una situazione che il Robert Koch Institut (Rki) ha definito "preoccupante", citando una diramazione del contagio in diversi ambienti come ospedali, case di riposo, scuole e "soprattutto fra viaggiatori e nel contesto di eventi religiosi e familiari". Senza parlare di quanto sta avvenendo in India e in America Latina. In Messico, ad esempio, in breve il numero dei casi di contagio è arrivato a 556.216, mentre il numero dei morti è arrivato a 60.254 decessi.

2. Il negazionismo e la tentazione della festa tribale

Una delle vie di fuga dalla coattiva tragicità del presente è il negazionismo, che apre le porte a scambiare irresponsabilmente l'impegno a ritrovarsi nell'esistente in manifestazioni di tripudio e di esaltazione allo spasimo della vitalità, come se la gioiosità di gruppo potesse apotropaicamente scongiurare e perfino cancellare le tracce del rischio a giocarsi le proprie chance al tavolo dell'azzardo di una presenza individuale e di gruppo responsabile fin dove possibile. Come prova la storia in tutto il suo corso, con la fioritura perfino di riti di assoluta estetizzazione di evenemenzialità e/o di esercizi spirituali terrestremente religiosi, iniziatici, circensi, purificatori, oltre che di voltafaccia a situazioni di malessere o perfino di lutto.

Facciamo degli esempi registrati direttamente nella mia esperienza.

Il primo riguarda un'iniziativa da me coordinata per un mio amico, un poeta di alcuni anni più giovane di me, che se ne era andato via da Napoli con tutta la famiglia a Firenze. Ci tenevamo a contatto per telefono o epistolarmente e ci scambiavamo delle visite. Organizzavamo anche iniziative culturali comuni, con lui pronto a tornare per qualche giorno a Napoli, o con me che salivo a Firenze e magari dormivo con piacere a casa sua su un comodissimo divano, dove si affacciava volentieri un suo bel gattone, che veniva a spiare i comportamenti dell'ospite napoletano. A un certo punto, però, si alzarono nubi oscure e minacciose sulla vita del mio amico per un tumore maligno, che se lo portò infine via. Il mio amico sentiva di essere verso la fine prematura della vita e mi espresse il desiderio di tenere una serata culturale, anche per salutare gli amici, presso una sede molto accreditata a Napoli. Decidemmo per l'Istituto Italiano di Studi Filosofici, col Direttore che fu gentilissimo.

Ne venne fuori una serata davvero interessante e costruttiva, che fu tanto gradita dal festeggiato, con un dibattito vivacissimo e nient'affatto di addio. A un certo punto, però, verso la conclusione, un nutrito gruppo di presenti si alzò e annunziò di doverci lasciare tutto insieme. Se ne andarono compatti e decisi. Noi altri rimanemmo ancora un po', finché l'Istituto rimase aperto, poi ci salutammo e ci demmo la buona notte. Il mattino successivo mi arrivò a casa una telefonata da parte di quello che concretamente aveva fatto da caporione all'uscita del gruppo della sera prima, un artista che godeva di un buon nome anche fuori Napoli e che si vantava di avere relazioni molto significative al di là della città di Partenope. Con molto sussiego e sua gratificazione, mi venne dicendo che la sera precedente tutto il suo gruppo se ne era andato proprio con piacere a cena insieme e così, come il mio interlocutore con grande sussiego veniva sottolineando e ripetendo, aveva provato una grande, ma una grande gioia a festeggiare la venuta a Napoli del nostro comune amico, gustando dei bocconcini deliziosi, bevendo dell'ottimo spumante e cantando qualche canzone in onore dell'amico venuto da Firenze, perché è nella festa e nella gioia che si onora l'amicizia, non nei discorsi filosofici, filologici, linguistici. "Noi siamo per la vita e per il piacere di esserci anche di fronte alla morte e oltre la morte. La serietà, il dolore, il lutto devono solo essere scansati, devono schiattare in un recesso ben chiuso", quello concluse. Non so se abbia aggiunto anche una pernacchia alla mia persona. Io mi limitai a rispondere: "Evviva la gioia!" e non aggiunsi altro, tenendo per me l'avviso ovvio che il tripudio è per la gente più gradito certamente rispetto all'accettazione del dolore.

Secondo la gente della festa, il dolore, il lutto, il malessere devono essere rifiutati in premessa, vanno rottamati come patologie di un tempo e di una società del passato, e la relazionalità intraumana va accuratamente disinfestata di ogni germe e di ogni rischio di accoglimento della sofferenza. La sofferenza va sradicata dal presente e buttata via come erbaccia infetta e invasiva. Essa non va neppure nominata, perché nomen est omen. E', invece, alla festa che occorre spalancare l'ingresso fra gli individui e le comunità.

Io che sono nato e cresciuto in un piccolo borgo contadino irpino, so bene che cosa voglia dire essere per la festa. Il tempo stesso veniva calcolato in rapporto a una grande festa, prima di Natale e dopo Natale, prima di Pasqua e dopo Pasqua, prima della festa del Santo Patrono e dopo la festa del Santo Patrono, prima di Carnevale e dopo Carnevale. Prima di Carnevale, ad esempio, si calcolava tutto in rapporto all'evento della panza mia fatti capanna, bisognava come allenarsi a non chiedere e a non volere se non prove di sacrificio, di rispetto della misura non solo nel mangiare e nel bere, ma anche nella gioia e nel riso, perché infine, con la venuta della festa, sarebbe poi in compenso esploso legittimamente il piacere senza limitazioni di esultare, bere, mangiare, strafottersene dei limiti, dei tabù, delle partizioni rigide della qualità e della quantità, delle norme di comportamento. Carnevale, per sé e per tutti, riservava auree occasioni di risarcimento delle attese. Al suo arrivo, i maschi si potevano impupazzare da femmine e viceversa, tutto si sarebbe potuto rovesciare nel giocoso, nello scherzoso e perfino nello schernevole. Si poteva, si doveva perfino fare opera di dissacrazione e di banalizzazione dell'individuo per eccellenza, che si celebrava. Carnevale, infatti, alla fine della sua festa, veniva messo in scena sotto forma di pupazzo da schernire, in quanto personaggio morto e celebrato come eroe eccezionale di imprese straordinarie di sovversione di ogni buon costume. Vittima di sé sul filo dell'eccesso e dell'involgarimento senza limiti e senza vergogna, veniva portato su una rozza portantina funebre tutta sbrindellata come un morto del sottoproletariato finito per ingordigia e brutalità di istinti mangiatori. La processione funebre, dopo aver percorso in lungo e in largo il nostro piccolo paese, imboccava una mulattiera, che portava a Montefalcione, dopo aver attraversato un ruscello, il San Marco, che raccoglieva le acque provenienti dalle coste settentrionali delle montagne di Chiusano e, quando era in piena, esondava dal suo letto e allagava i territori circostanti con una sua forza dirompente e terrorizzante. Nei pressi dell'incrocio fra la mulattiera e il ruscello, localmente detto 'o Vallone, c'era un tratto scelto dalle donne del paese come lavanderia della loro biancheria, mentre più in là, di sotto, l'acqua sprofondava in un fossato buono per i tuffi di giovanissimi e spericolati nuotarci, ma anche per i suicidi, che vi si andavano ad affogare e a chiudere la partita con l'esistenza. A quell'incrocio arrivavano i finti confratelli della buona morte e scaraventavano fra strida e compianti il pupazzo di Carnevale al quale più volte avevano ritualmente rivolto parole di pesante insultante compianto: "Carnovale pecché si mmuorto / pe nno strunzo re cane e nn'uosso re puorco? /Pane e acqua nun ti mangava / la nzalata steva a l'uorto. /Carnovà, pecché si mmuorto?!".

Comunque, Carnevale moriva, lasciando nella memoria e nell'esperienza della gente un netto tracciato temporale per sistemare gli accadimenti successivi, il giorno dopo, la settimana dopo, due settimane dopo. Moriva, ma per ritornare tutto trionfante di nuovo l'anno successivo. La morte, così, diventava solo un'occasione per il ritorno. E il ritorno era per tutti e per ognuno una scomparsa momentanea di rito dalla scena e, insieme, l'evento per eccellenza dell'esistente, perché, come afferma la Vulgata latina della Bibbia, nihil sub sole novi. Morte compresa.

Rassicurati da salde certezze analoghe, anche i negazionisti si muovono nel teatro della vita come personaggi intrepidi, che scommettono tutto sull'hic et nunc, su un qui e ora sacri, anzi già sacralizzati per loro. Baldanzosamente sono pronti a scendere perfino in piazza e ad accendere delle sedizioni contro le amministrazioni per le misure di contenimento e di disciplinamento a fini igienico-sanitari e a portare per le strade e per le piazze la loro testimonianza di intrepidezza come di tanti superuomini o superdonne, che hanno armi affilate per sfidare e sfondare le barriere imposte di comportamenti di astensioni quaresimali, esprimendosi con la medesima esuberanza che dall'antichità in poi ha preteso di innalzare i livelli di significato dei gruppi ribollenti di spiriti vitalistici verso i cieli della sapienzialità illuminata di riflessi mistico-religiosi, come accadeva nelle congreghe dionisiache dell'antica Grecia, nei movimenti di invasamento di gruppo da parte delle verità eterne e insopprimibili, nelle esperienze collettive di teatralizzazione degli insopprimibili istinti vitali. Essere loro tra loro è uno stato di grazia concesso solo a chi sa essere in ascolto della spontaneità e delle opportunità dell'attimo fuggente. Questo stato di grazia va marcato fortemente, proprio per marcare la grande distanza che corre tra loro e quegli altri, che appartengono alla società ordinaria, con tutto il suo patrimonio di mediocrità e di pratiche ripetitive. Essi, invece, aurati di elettrizzante reattività e imprevedibilità si sentono lanciati sulle spiagge della vita come magma vulcanico infuocato e in via di metamorfosi in continuo cambiamento, come frecce accese per incendiare la vita, promettendo perfino sedizioni nelle strade e nelle piazze cittadine, come si diceva sopra. Ma codeste loro "sedizioni", poi in concreto finiscono per significare semplicemente "sé-dizioni", cioè dizioni interminabili del proprio sé, che appartiene al sé e non alla comunità, al momento in transito non al tempo dell'attualità, che è complessa e richiede coraggiosi e decisivi interventi di cambiamento, ai fini della costruzione di una società che dia respiro anche ai marginali, anche ai deboli e ai diseredati, il cui numero viene paurosamente crescendo di giorno in giorno nel mondo contemporaneo. Di fronte a una tragedia del genere, essi si sentono in dovere semplicemente di dire in libertà di sé di sé e di sé che sono individui liberi di pensare e gestirsi come essi credono e vogliono, liberi di camminare, liberi di fare chiasso, liberi di esultare nella movida, liberi ora e sempre, di notte e di giorno, ma soprattutto di notte per tutte le occasioni e le ispirazioni, strafottendosene delle esigenze e delle interconnessioni sociali. E lo fanno con grande sussiego e orgoglio, rivendicando, un po' postsessantottescamente che il loro sesso è il loro, la loro voce è la loro, il loro urlo è il loro, che la loro visione è la loro e che nessuno può consentirsi il diritto di limitare la loro libertà, senza neppure lontanamente sospettare che la libertà del singolo deve consentire che anche gli altri, tutti gli altri possano convivere nel medesimo tempo e nei medesimi spazi.

Questa loro proiezione verso un teatro universale dell'esistenza umana, osservata e premiata nelle fenomenologie unicamente dei singoli eroi prevalentemente notturni e dirompentemente rumorosi e invasivi degli spazi pubblici, ne fa dei pupazzi orgogliosissimi di sé. Un loro eroe, diventato estremamente popolare grazie alla penna di Alessandro Manzoni che ne parla con grande sapienzialità nei Promessi Sposi, ci fa capire tutta la faticosa e sterile vacuità della propria esistenza di codesti eroi nei panni di Don Ferrante, un dottissimo nobile esperto di astronomia o meglio di astrologia e degli influssi stellari sulla vita sul nostro Pianeta. Quando, alla fine degli Anni venti del diciassettesimo secolo dell'E. V., scoppiò in Europa il morbo della peste bubbonica, che colpì senza risparmio nobili e non nobili, giovani e vecchi, maschi e femmine senza distinzioni e senza pause, egli si distingueva, anzi ci teneva a distinguersi da tutti gli altri che credevano nella grande contagiosità del morbo, sostenendo che la vera causa proveniva dal cielo, cioè dagli influssi stellari. E, quando fu colpito lui stesso dalla peste, fino alla morte continuò a ripetere a chi gli stava vicino che si trattava di nient'altro che di influssi delle stelle. E se ne andò di là, in grande fierezza di sé.


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