
CARLO CENCIARELLI
L'ESDEBITAMENTO

RENE MAGRITTE - OMBRELLO
Quando venni a conoscenza del suicidio di Roldano Luppi, assaporai una sensazione bizzarra, amara, ambigua, per tanti versi difficile da afferrare, poiché avevo previsto il fatto con esattezza assoluta ma non avrei mai creduto - o meglio, mi sforzavo con tutto me stesso di non credere - che prima o poi la mia fantasia sarebbe diventata realtà. Comunque, per fortuna, nessuno sa del nostro ultimo incontro. Di questo sono totalmente certo. Roldano, infatti, aveva poche, anzi pochissime relazioni.
Cerchiamo però di procedere con ordine. Innanzitutto è indispensabile raccontare un po' del mestiere che faccio. Dico mestiere perché io tendo sempre ad essere modesto, a non vantarmi troppo. Ma probabilmente sarebbe più giusto dire professione. Infatti sono avvocato, avvocato civilista. Mi occupo soprattutto di contenziosi commerciali e molto spesso di quelli provocati da situazioni debitorie. In Italia sono infinite le piccole imprese autonome che falliscono, quelle da cui il titolare non ricava nient'altro che umiliazioni e debiti. Soprattutto debiti, debiti schiaccianti. Nei confronti di banche e finanziarie, autorizzate dalla legge all'usura. Che hanno dalla loro avvocati molto bravi ed esperti, specializzati nello spolpare fino all'osso questi poveracci. Ma io sono più bravo, più esperto, più specializzato di loro e, in molte occasioni, riesco ad umiliarli e a salvare le loro vittime. Quando ce la faccio a conservare per uno di questi disgraziati un appartamentino e una piccola rendita pensionistica, mi sento profondamente soddisfatto: mi sembra di aver raddrizzato il mondo.
Chiaramente con clienti di questo genere i miei guadagni sono limitati. Colle mie capacità potrei fare molti più soldi. Ma... non lo so... il fatto è che provo un interesse e una simpatia istintivi per i falliti. Credo proprio perché incarnano l'opposto di quello che sono io.
Ora non più, ma per tanto tempo ho vissuto insieme a mia madre, una donna vecchia gravemente ammalata. Il morbo che la tormentava si chiama anasarca. Una parola per me troppo asciutta e perentoria. Preferisco l'antico nome dantesco: idropisia, ben più fluido e avvicinabile. Le sue viscere non assorbivano i liquidi che andavano a raggrumarsi, abbondanti e incontrollabili, in varie zone sotto la pelle. Specialmente sotto la pelle delle gambe e quella del ventre che ne era sconciato, gonfiato, dilatato oltre ogni limite: quasi fosse tornata ad esser gravida di me. Quindi si muoveva a stento e passava tutta la giornata a letto. Dovevo aiutarla in bagno, farla accomodare nella sua poltrona preferita davanti alla televisione, portarla a dormire in camera sua. E, va da sé, accompagnarla da questo o quel medico. Comunque non potevo certo abbandonarla sola in quelle condizioni.
Continuavamo a vivere nella casa che ci aveva lasciato il padre di mia madre, nonno Ruggero, di cui fra l'altro ho ereditato anche il nome. La casa si trova in pieno centro di Roma, in vicolo del Leonetto, una stradina stretta e tortuosa, che pure discende con un'eleganza e una dolcezza tutta sua da via del Cancello al vicolo della Campana. Il portoncino e le scale - invero abbastanza ripide, vagamente scivolose - possono apparire angusti ma, nel cuore dell'appartamento, le stanze sono molto grandi e le pareti altissime. C'è poi una terrazza smisurata, che da marzo a ottobre, durante il giorno è eternamente avvolta nello splendore - magico e toccante - del sole di Roma. Col passar degli anni, gli altri inquilini sono diventati il parlamentare, l'attore noto, l'anglosassone ricco. Che hanno ristrutturato in modo delirante, ricavando da quelle antiche stanze nuovi ambienti lussuosi e luccicanti. Io e mia madre, no. Casa nostra era caratterizzata da una pulizia impeccabile, non ci mancava nulla, ma avevamo voluto conservare l'atmosfera che vi si respirava ai tempi di mio nonno impiegato regio, quella di una piccola borghesia tranquilla e dignitosa, lontanissima da eccessi e ostentazioni.
Le camere erano tre. La camera da letto di mia madre, la mia e il soggiorno dove mangiavamo e che mi faceva anche da studio. Non sentivo assolutamente il bisogno di una stanza appartata, riempita soltanto dalle mie carte e dai miei faldoni. Mi piaceva lavorare in sala da pranzo, proprio al centro di quella casa tanto amata.
Poco fa ho detto di come accudissi in tutto e per tutto mia madre, liberandola da qualsiasi incombenza pratica. Una cosa, però, le lasciavo fare: preparare il nostro cibo. Mia madre faceva ancora la pasta a mano. Non dimenticherò mai il corposo ricco morbido amalgama di uova e farina che solo lei, con sapienza e pazienza infinite, la battilonta romana a doppia impugnatura fra le mani, sapeva ammorbidire spianare dilatare fino a ottenere una grande sfoglia di pasta sottilissima che copriva quasi interamente la tavola in legno su cui aveva lavorato. Di qui le snelle fettuccine e i più ampi e pesanti riquadri che, l'uno sull'altro, formavano le lasagne. E poi, accortamente commiste a carni tenere imbevute di sugo, altri tagli di pasta fresca, per dar vita agli agnolotti, ai cannelloni. Ma il magistero di mia madre non si limitava ai primi. Mi compilava delle liste molto dettagliate riguardanti quello che dovevo comprare e veniva fuori il girello di vitella arrosto, in salsa aceto, cipolla e rosmarino o tonnata, l'abbacchio alla cacciatora, l'insalata di mare, i filetti di sogliola olio e limone - semplicissimi e straordinari -, le puntarelle alle alici fresche, il gateau di mele in crosta morbida. Non saprei davvero descrivere la voluttà che provavo quando avevo in bocca quei sapori profondi, antichi, eterni.
Altri momenti particolarmente dolci passati con mia madre erano quelli in cui sfogliavamo insieme vecchi album di fotografie della nostra famiglia. In alcuni - quelli appartenuti a mio nonno - vi comparivano immagini che risalivano all'ultimo ventennio dell'Ottocento.
Oppure quando le leggevo qualcosa. Amava Balzac, si commuoveva alla morte di papà Goriot. E ciò non poteva essere per me che fonte di nuovi piaceri.
Insomma quella fu un'epoca molto felice.
Data la professione di cui vi ho parlato poco fa, sono in contatto vuoi con L'OCC (Organismo Composizione Crisi) competente per il territorio di Roma, vuoi con molti studi privati specializzati. Uno di questi mi segnalò il caso di un certo Roldano Luppi. Lo chiamai. Fui come al solito asciutto e conciso: non amo dilungarmi al telefono, e poi, quasi sempre, è un'inutile perdita di tempo. Gli dissi che dovevamo vederci: così mi avrebbe raccontato in modo esauriente tutti i suoi problemi. Non ricevevo nel mio studio ma potevo raggiungerlo in qualsiasi zona di Roma. Acconsentì e mi diede appuntamento in un bar sulla Casilina, poco dopo Centocelle.
Il bar era davvero un buco. Entrai. Sulla sinistra, dietro il bancone, un incredibile ammasso di carni frolle che ormai ricordava solo vagamente una donna di mezz'età. L'esseraccio stava tirando fuori da acque abbastanza torbide alcuni bicchieri e certe tazzine per poi rasciugarli alla bell'e meglio con uno straccione variopinto e sbrindellato. Dirimpetto a lei uno di quei frigoriferi colla vetrinetta, nei cui scomparti assai sguarniti si notava comunque qualche birra, qualche coca-cola, un paio d'aranciate. Pochi passi più avanti c'erano - semi-immersi nell'oscurità - due di quegli antichi tavolinetti col ripiano in formica cerchiato di zinco e le tre esili gambette in un acciaio ancora lucido, seppure macchiato qui e là. A uno di essi, straccamente sbracato su una sediola, malamente affagottato in un cappottaccio nerastro che sembrava perdere il pelo, vidi un vecchio. Quasi calvo, un naso troppo grosso, aveva le carni delle guance e del sottogola enfiate e insieme flosce, percorse da un reticolo di venuzze fra il bluastro e il rossastro, e un germinare, tutt'intorno al mento, d'una lanugine fitta, dura, bianca bianca, tipica di chi non si è fatto la barba da almeno due giorni. Stava centellinando un liquore con un'aria stupida e triste. Mi presentai. Offrì un cognac anche a me ma alle nove e trenta del mattino preferii un caffè.
Aveva già preparato un ricco elenco di debiti ma io gli chiesi di parlarmi della sua attività, di narrare un po' la sua storia. Un romeno ciarliero e intraprendente l'aveva convinto a metter su un'impresa per la vendita ambulante nella periferia di Roma di indumenti femminili - gonne, camicette, pulloverini, bluse, giacche - a prezzi molto bassi. Cosa consentita dal fatto che la merce veniva messa a disposizione da sartine slave abituate a lavorare per poco. L'unico vero impegno, la sola spesa consistente che Roldano avrebbe dovuto affrontare era rappresentata dall'acquisto di quattro o cinque furgoncini indispensabili per muoversi colla roba nelle tante zone della grande città. Per il resto avrebbe organizzato e fatto tutto lui, Serban: l'unica occupazione del titolare sarebbe stata quella di mettersi in tasca un bel po' di soldi. Dapprima le cose erano andate bene, gli incassi erano stati buoni. Poi Serban cominciò a vendere sempre di meno, a portargli rendiconti settimanali sempre più magri. Volle vedere coi propri occhi. Cominciò ad aggirarsi per i quartieri nei quali dovevano avvenire le vendite. E una bella mattina trovò uno dei suoi furgoncini abbandonato in un pratone colle saracinesche aperte e la merce tranquillamente esposta senza nessuna sorveglianza; cosicché, ogni tanto, qualche poveraccia si avvicinava e si serviva da sola. Roldano chiuse tutto coi lucchetti e tornò sulla strada lì vicino. Non aveva fatto neppure cento metri che, all'interno di un piccolo market di bengalesi, vide Serban insieme a un altro tizio i quali, i bicchieri di carta colmi di birra schiumosa fra le mani, ridevano, strillavano, e sproloquiavano in un gergo incomprensibile. Com'era ovvio, Roldano e il romeno litigarono di brutto e il suo dipendente gli mollò un pugno in piena faccia. Licenziò lui e tutti i suoi amici e li sostituì con degli africani. Molto più onesti ma che non riuscivano a vendere uno straccetto neppure per caso. Poi la scalogna gli si accanì contro.
Un vigile volle controllare la licenza di vendita. Tutto a posto. Era naturale che la cosa finisse lì.
Il maledetto, invece, s'era ricopiati indirizzo, numero di telefono ed e-mail della ditta per poi girarli all'ispettorato del lavoro. Dopo un paio di settimane gli era arrivata la richiesta dei libretti di lavoro elettronici dei due africani che però lui non aveva iscritto da nessuna parte e per i quali non aveva versato il minimo contributo. Ricevette una multa pesante che fu il colpo di grazia per la sua attività.
"La situazione mi è chiara" dissi. "Senta... ho preparato questo piccolo schema che lei mi dovrebbe compilare subito. Da un lato mi deve elencare le sue passività, dall'altro le somme e i mezzi - come ad esempio i furgoncini - di cui può ancora disporre. Mi studio con un po' di calma tutta la cosa e la richiamo la prossima settimana".
Una decina di giorni dopo c'incontrammo un'altra volta nel medesimo bar. Il vecchio, al solito, stava sorseggiando il suo liquore. Non appena mi vide, mi rivolse uno sguardo troppo fiducioso.
Si affidava completamente a un altro con troppa facilità. La cosa non mi piacque. Mi accorsi, non senza un certo stupore, di non provare una grande simpatia per lui.
"Vede, lei i soldi per pagare tutti i suoi creditori non ce li ha adesso e, tantomeno, li avrà in un futuro" cominciai. "Questo ha un lato positivo: semplifica molto tutta la questione. Probabilmente la sola cosa che possiamo fare è chiedere una procedura d'esdebitamento. La contempla l'articolo 283 del nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza del 2018 per il quale, al comma 7, il giudice, vista la meritevolezza del debitore incapiente, può annullarne per decreto le obbligazioni economiche. Il problema grosso è proprio in quella meritevolezza. Lei non ha messo in regola i due africani e il giudice potrebbe ravvisarvi una frode grave che esclude l'emissione del decreto. Quindi deve pagare immediatamente la multa dell'Ispettorato del lavoro, e, in base a una dichiarazione dei due africani che specificheranno il periodo in cui hanno lavorato per lei, saldare tutti i contributi INPS e INAIL dovuti e ottemperare a tutti gli obblighi burocratici previsti con le relative spese: la compilazione e trasmissione dei C.U.D, ad esempio. Ovviamente, se vuole, posso consigliarle un ottimo studio commerciale. Anche per trovare i soldi per tutto questo lei ha una sola strada: vendere i camioncini. E molto rapidamente. Non importa se, nella fretta di realizzare, sarà costretto a darli via magari sottocosto: il ricavato sarà comunque sufficiente per pagare questi debiti che sono i più importanti. La cosa fondamentale è che i contratti d'acquisto siano impeccabili dal punto di vista legale: dobbiamo mostrarli al giudice come attestazione della sua volontà di ravvedimento. Vedo poi che lei altre pendenze consistenti per prestiti non onorati le ha, come quasi tutti, con una grande banca e una finanziaria: precisamente sessantaseimilacento euro e sette centesimi colla banca e ventimilaottocentocinquantacinque euro colla finanziaria. Deve tener presente che, bene che vada, la procedura d'esdebitamento durerà almeno un anno. In questo periodo i loro avvocati tenteranno certamente di pignorarle il conto che lei ha presso un'altra banca ed è sui ventimila euro e la casa di proprietà che è stimata fra i centonovanta e i duecentomila euro. Della sua Peugeot, immatricolata nel '98 del secolo scorso, non sanno che farsene: ormai vale meno di niente. Per cui bisogna fare due altre cose e anche queste piuttosto velocemente. La prima è svuotare il conto in banca. Oggi non è così facile perché con le ultime leggi antiriciclaggio qualsiasi movimento anomalo sul conto corrente viene subito segnalato e si possono creare degli intoppi. Allora lei deve comportarsi in questo modo: vada colla massima disinvoltura da un cassiere con cui ha confidenza e, mentre parla del più e del meno, gli chieda di emettere a carico del suo conto tre assegni circolari da tremila euro ciascuno intestati a lei medesimo. La settimana dopo si rivolga a un altro cassiere chiedendone quattro di assegni: uno da duemila euro, gli altri tre da tremila. Dopo, con ogni probabilità, la convocherà il direttore, le farà mille rimostranze citandole questa o quella legge, magari la costringerà a chiudere il conto presso la filiale. Se ne freghi: sono tutte parole al vento. Ormai l'intera somma è in mano sua e la banca non può né ritirare né rifiutarsi di pagare i circolari. La sua unica preoccupazione è trovare un posto sicuro dove nasconderli. Per quanto riguarda la casa sarebbe molto meglio se lei ne mantenesse soltanto l'usufrutto vita natural durante vendendone la nuda proprietà. Una vendita reale però richiederebbe tempo. Lei questa casa a chi deve lasciarla? Non le ho chiesto ancora se ha moglie... figli..."
"Non ho nessuno".
"Neanche... che so? Un nipote a cui andrebbe comunque e di cui si fida, con il quale si potrebbe organizzare una vendita di comodo?"
"Un nipote così ce l'ho".
"Benissimo. Perché vede, se lei rimane il proprietario della casa, male che vada alla finanziaria che l'ha pignorata, anche se non riesce a cacciarla via per una ragione o per un'altra, alla sua morte, inevitabilmente, ne diventa proprietaria. Quindi, in ogni caso, promuove e porta avanti l'azione legale. Mentre, sebbene, stando al codice, pure l'usufrutto è pignorabile, alla sua morte la casa torna nelle mani di chi gliel'aveva comprata. E allora il gioco non vale la candela.
"Ha intenzione di continuare con un'altra attività?"
"Secondo lei, quanti anni ho?"
"Secondo me, ad esser sincero, sessantacinque o giù di lì".
"Sessantasei e quattro mesi: avrò diritto di essere stanco... ma proprio stanco di tutto!?"
"Certamente. E, fra poco, ha anche diritto alla pensione. Come sta a contributi versati?"
"Mi mancano gli ultimi tre anni".
" Bene. Utilizzi quel che le rimane dalla vendita dei furgoni per saldare anche i suoi di debiti INPS. Fra l'altro è in corso un condono per cui si paga soltanto la sorte, senza sovrattasse, more e interessi. E se ce la fa ad estinguere tutto con un pagamento unico evita anche gli interessi di rateazione. Una casa e una pensione sia pur modesta sono le due cose con cui si sfugge al baratro".
"Le posso fare un'ultima domanda?"
"Certo".
"Pensava sinceramente che vendere abitucci confezionati da sarte slave in periferia fosse qualcosa di davvero fruttuoso?"
"L'idea mi attraeva. Deve sapere che io sono stato allevato dai miei zii, Anselmo e Zoe, che erano piccoli sarti di quartiere. Pensi che avevo chiamato l'impresa: Il Fiocco di Zoe".
"I suoi genitori erano morti?"
"No... no ... quei due, quando mi hanno ceduto allo zio Anselmo, erano peggio che vivi".
All'improvviso mia madre cominciò ad essere inappetente, a rifiutare il cibo. Cosa stranissima per lei che, invece, casomai aveva sempre mangiato troppo. Poi ad avere delle fitte al bassoventre contro le quali nessuna medicina reperibile in farmacia poteva nulla e che le rendevano tormentosa la notte. E, soprattutto, a venire presa e vinta da una sorta di abulia malinconica e stolida che aveva cancellato la sua fresca vivacità che tanto amavo. Addirittura a pranzo mi presentava spaghetti o rigatoni burro e parmigiano e uova all'occhio di bue in tegamino.
Non era più lei! La portai dal professor De Marco, uno dei primari d'un grande ospedale, il San Giovanni, che la seguiva da tempo, per una visita approfondita.
Il medico uscì dal suo studio con un sorriso eccessivo sul volto e, altrettanto smodatamente, abbracciò mia madre. Io, che ero rimasto nella sala d'aspetto, trovai tutta la cosa poco gradevole.
Poi mi si avvicinò, e:
"Qui ci sono i farmaci da prendere immediatamente" disse e mi sventagliò sotto il naso un foglietto ricoperto dalla grafia involuta e svolazzante tipica dei dottori.
"Però avrei bisogno di osservare sua madre con più calma e quindi di ricoverarla nell'istituto che dirigo. Rifletteteci un momento e fatemi sapere qualcosa al più presto".
L'idea del primario mi sembrò del tutto fuori luogo. Erano bastate le medicine prescritte perché mia madre si riprendesse. I dolori al bassoventre erano cessati, l'appetito si era almeno un po' risvegliato ed era tornata dolce e allegra come al solito. Aveva anche cominciato a preparare di nuovo piatti particolarmente gustosi come i cannolicchi tonno, capperi e porcini. Comunque, in fine settimana, richiamai De Marco. Dopo qualche convenevole mi disse:
"Senta, prima del ricovero, è meglio che lei passi da solo nel mio studio".
"Ma quale ricovero?! Proprio coi farmaci indicati nella sua ricetta mia madre ha risolto tutto ed è ridiventata quella di prima".
"Ci sono cose di cui non è opportuno parlare al telefono. Mi creda: è necessario che lei, appena le sarà possibile, venga da me".
"Allora lo faccio oggi: almeno mi tolgo subito il pensiero. Va bene nel tardo pomeriggio, quando ho finito di lavorare?"
"Benissimo: l'aspetto alle diciannove".
Quanto mi dava ai nervi l'aria austera e solenne che aveva assunto quel medicastro: quasi che tutto, nell'universo mondo, dipendesse da lui. Incominciò:
"Capisco perfettamente l'amore che porta a sua madre ma lei deve pensare che, a ottantaquattro anni..."
"Per favore, mi dica quello che ha senza preamboli inutili".
"D'accordo: ha un tumore alle ovaie".
"A ottant'anni?"
"È proprio in tarda età che maturano i mali che abbiamo incubato per tanto tempo. Sua madre quanti figli ha avuto?"
" Solo uno: io".
"Probabilmente sarebbe stato meglio che ne avesse fatti di più. Ma è solo un'ipotesi: non è possibile rintracciare una causa scientificamente esatta per una fibrosi uterina maligna. Spesso le cellule, come gli uomini, impazziscono senza una ragione precisa. Comunque, all'età di sua madre, non si può pensare ad un intervento chirurgico: quasi certamente rimarrebbe sotto i ferri. C'è solo la chemio coordinata con altre terapie che presuppongono ella sia continuamente sotto osservazione medica: quindi il ricovero è ineludibile".
"Ma... le possibilità che riesca a salvarsi come sono?"
"Limitate".
Mentre tornavo a casa avevo un chiodo conficcato nel cervello. Il tumore di mia madre era colpa mia. Io avevo voluto occupare da solo il suo ventre per goderne fino alla sazietà.
Intanto dovevo dare gli ultimi tocchi alla procedura d'esdebitamento del signor Roldano: l'udienza decisiva era fra un mese. Tutt'a un tratto fui come affascinato da un'idea amara e perversa: egli era ormai nelle mie mani perché non rovinarlo definitivamente? Per fortuna la vecchia e solida coscienza professionale prevalse.
Tutto andò benissimo e il giudice concesse l'esdebitamento. Per giunta, con stupore mio e suo, la pensione gli fu regolarmente assegnata ad appena un mese dalla domanda. Erano quattro soldi: ma sicuri e per sempre. Roldano sembrava non star più nella pelle dall'entusiasmo e mi invitò a una cena con lui per festeggiare.
"Ci saranno anche altri?" gli chiesi.
"No. Solo noi due".
Non faccio mai di queste cose con i clienti e poi il rivederlo ancora non mi attraeva particolarmente. Tuttavia, da quando mia madre era stata ricoverata, mi ero dovuto adattare a panini, birra e yogurt pranzo e cena. Per cui, spinto soprattutto dalla voglia di mangiare in modo più succulento del solito, quella volta accettai.
Mi aveva invitato in una trattoriola vicina al bar dove c'eravamo già incontrati.
Pochi tavoli, poche cose in lista, prezzi bassi. Ordinai uno spaghetto all'arrabbiata che spesso appaga più nei localacci che nei ristoranti blasonati dove non osano mai la dose di peperoncino vicina all'eccessivo anche se non con esso coincidente che dà al piatto il suo gusto speciale. Poi saltimbocca alla romana, un carciofo alla giudìa, fragole zucchero e limone, un caffè, una sambuca. Devo dire che, tirate le somme, la cena fu meno peggio di quel che mi sarei aspettato, anche se i saltimbocca erano fatti coll'arista di maiale invece che colla vitella e le fragole, cresciute a forza in una serra climatizzata, del tutto insipide. Il mio ospite mi seguì nella scelta ad eccezione del secondo che per lui fu costituito da tre grosse fette di polpettone trasudanti sugo. Confermò la mia opinione che si fidava davvero troppo degli altri: chissà da dove provenivano quelle carni impastate insieme in modo da formare un unico malloppo. Sicuramente da avanzi. Avanzi di bistecche, di piccatine, di straccetti, di saltimbocca macinati, amalgamati e poi serviti per la seconda volta. D'altronde guardarlo mangiare non risultava molto gradevole. Era sguaiato avido concitato frettoloso: ti domandavi se sentisse almeno un po' il sapore di quel cibo che stava ingurgitando. Nondimeno, dopo la seconda sambuca, un certo climax, una certa complicità si creò fra noi e cominciò a parlarmi della sua vita. Proprio non doveva avere molti amici per raccontare tanti particolari intimi, talvolta anche dolorosi, a quello che per lui rimaneva sostanzialmente uno sconosciuto.
Era nato da una coppia che più malassortita era impossibile immaginarla. Il padre, uno sciamannato della Trionfale, negli anni '50 ancora quartiere molto popolare; la madre una piccolo borghese, figlia d'un notaio, che abitava in via Ripetta, al centro. Chissà perché per un brevissimo periodo s'erano piaciuti. Le era rimasta incinta e, come usava a quei tempi, erano stati costretti a sposarsi in fretta e furia. L'uomo si confermò uno scansafatiche capace soltanto di frequentare le osterie; la donna, troppo viziata in famiglia, non aveva né un mestiere né un diploma scolastico. Cominciò a ricevere uomini in casa, in maniera piuttosto artigianale ma abbastanza proficua. Il marito le reggeva il gioco; anzi, per quel poteva collaborava, magari diffondendo la voce. Poi, ogni inizio settimana, passava all'incasso. In questa situazione né il padre, né la madre, si affezionarono a lui. Forse anche perché era uno dei rarissimi bambini brutti. E comunque per la coppia costituiva da una parte un intralcio, dall'altra una spesa. Si trovò la soluzione. La sorella di sua madre, Zoe, non poteva avere figli e stava per adottare un bambino. Fu quindi con gioia sincera che insieme ad Anselmo, suo marito, accolse il piccolo Roldano di due anni con il quale almeno un legame di sangue esisteva. Il breve periodo di cui aveva parlato la madre non finì mai. Esattamente all'opposto dei suoi autentici genitori carnali, gli zii s'attaccarono profondamente a quel bambinetto brutto e triste che, grazie a loro, divenne assai meno triste. Roldano avrebbe sempre rammentato con infinita tenerezza quel salottino adibito a sartoria, col pavimento pullulante di fili di tutti i colori, di spille casualmente cadute, di lacerti di stoffa sfrangiati... e poi, al tavolone da lavoro che si trovava in mezzo alla stanza , fra le poltrone, la zia che, inforcati dei grandi occhiali tondeggianti, cuciva; mentre lo zio, posato il modello in spessa carta marrone sulla stoffa, con un imponente gesso bianco, tracciava delle strane linee curve che ne seguivano il contorno per poi tirar fuori delle forbici enormi, aguzze e scintillanti, che un po' a Roldano bambino facevano paura, e cominciare a tagliare, a tagliare senza pietà. Ma forse gli zii di bene gliene avevano voluto troppo. Erano con lui assai indulgenti e, cresciuto, prese il vizio di alzarsi tardi e trascorrere il resto della giornata così come capitava, senza molto costrutto. Si abituò a una vita inconcludente e, al tempo stesso, solitaria. Nondimeno riuscì a terminare il liceo. Poi si iscrisse a Lettere soprattutto perché aveva fama di essere una facoltà facile. Al ritmo molto blando di uno o due esami l'anno si laureò dopo la trentina. Ottenne quindi l'abilitazione all'insegnamento e qualche supplenza. Ma, in classe i ragazzi non lo seguivano: facevano chiasso e lo sbeffeggiavano, e lui non era capace di reagire. Si fece la nomea di principiante debole e inaffidabile. Rinunciò a tentare la carriera di professore. Si limitò a qualche lezione privata tanto per giustificare in qualche modo il suo vegetare in casa come al solito. Un brutto giorno lo zio Anselmo morì d'infarto e sua moglie Zoe lo seguì un paio di mesi dopo sempre per complicazioni cardiache. In un primo momento Roldano fu sopraffatto da un dolore smisurato e sincero; poi però si rese conto che ereditava una casa e un conto in banca cospicuo: gli zii erano sarti di quartiere ma non guadagnavano male. Fu conquistato dall'idea che finalmente poteva riscattarsi da una vita scialba e mediocre mettendosi in proprio, creandosi un'attività autonoma. Alla fine, però, si risolse per l'intrapresa meno coraggiosa. Comprò un'edicola. Aveva pensato che sarebbe stato piacevole starsene tutto il giorno lì senza far troppo e potendo leggere tutti i giornali, le riviste e i fumetti che voleva. Invece, quel mestiere non gli piacque per niente. Bisognava alzarsi prestissimo anche d'inverno, col freddo tagliente, perché i quotidiani cominciavano ad esser distribuiti alle sei; c'era, ogni giorno, la rogna infinita delle rese; e poi, dopo i primi entusiasmi dovuti all'infinito numero di pubblicazioni che poteva sfogliare liberamente, constatò che rimanere tante ore in quell'angusta casamatta di metallo, un po'stordito dagli odori grevi e malsani della carta stampata, mentre magari non si vedeva l'ombra d'un cliente, era tediosissimo. Dopo molti sforzi riuscì a cedere l'edicola e aprì una botteguccia di abiti da donna a prezzi molto convenienti. Che era poi stata la principale attività della sua vita prima dell'avventura della vendita ambulante, quella che il suo avvocato conosceva così bene. Colla botteguccia c'era andato avanti tanti anni ma con guadagni molto modesti. E poi quante ansie per le scadenze delle tasse e delle fatture dei fornitori! Magari proprio non avevi i soldi per pagare e allora le angosce raddoppiavano, fino a non farti prendere sonno la notte. E quanti litigi coll'unica commessa che teneva e che cambiava di frequente, capitando sempre colle peggiori: quelle che volevano tutte le garanzie e che poi erano invariabilmente stanche e scostanti con i clienti. E quante discussioni coi commercialisti che se la volevano cavare con un semplice conticino aritmetico: due + due fa quattro e dunque deve versare questo, ed erano incapaci d'inventarsi qualcosa per sborsare di meno. Un inferno quotidiano. Adesso però, grazie a lui, al suo avvocato, tutto questo era finito. Apparteneva al passato. Adesso, colla sicurezza della pensione, non avrebbe avuto più né problemi, né assilli. Era totalmente libero di fare quello che più gli risultava gradito. Si apriva per lui una nuova epoca felice: come la seconda infanzia passata insieme agli zii.
Il vecchio traboccava d'un entusiasmo senza senso. Mi sembrò di vedere in lui, del tutto fuori tempo massimo, un bambinone sgraziato, grasso, sciocco; che non riusciva ad imparare niente da quella vita che, d'altronde, aveva già in gran parte consumato.
In seguito, per un certo periodo, mi telefonò tante volte, chiedendo di rivedermi. Ma io rifiutai sempre e alla fine si stancò.
Mia madre, intanto, per più di dodici mesi, con coraggio e resistenza incrollabili si oppose al male che la corrodeva e arrivò a festeggiare il suo ottantacinquesimo compleanno.
Ma, ahimè! le cose oramai volgevano al peggio.
Il pomeriggio di una domenica di febbraio particolarmente fredda. Posai una mano sul termosifone: gelido. E non sarebbe stato riparato prima di lunedì. Comunque dovevo andare a trovare mia madre. Mi affrettai. Uscii. Il cielo era occupato da una nuvolaglia sudicia e triste, anche se, per il momento, non pioveva. Salii in macchina. Le vecchie, stanche strade del centro di Roma erano vuote e immerse in una strana luce grigiastra. Non ci misi molto ad arrivare. Purtroppo nell'istituto non c'era nessun giardino. Qualche panchina in un'orrenda plastica rigida multicolore era stata fissata su una sorta di stretto marciapiede rialzato dalla forma vagamente circolare che attorniava lo spiazzo davanti all' ospedale quasi sempre affollato di automobili. Per fortuna, in quel pomeriggio domenicale, risultava totalmente deserto. Nei festivi le visite erano numerose soltanto al mattino. Da parte mia, la macchina l'avevo sistemata fuori. Mia madre mi stava già aspettando sulla scalinata che conduceva all'edificio. Indossava una vestaglia rossa sopra la camicia da notte biancastra, sformate ciabatte marroni e lanosi pedalinacci malamente arrotolati in basso. Non si era vestita per accogliermi come ancora qualche volta faceva. Stava cedendo, si stava lasciando andare. Era peraltro molto dimagrita, quasi non fosse più idropica. Era diventata una vecchia piccola sottile scarna ingobbita, dai capelli orribilmente diradati. Ci abbracciammo, ci baciammo. In modo struggente. In breve eravamo presso una delle panchine. Mi sentivo in dovere di rincuorarla, per cui, tutto sorridente, con un buonumore eccessivo, esclamai:
"Fra poco, quando sarai di nuovo a casa, non credere che ti permetterò di tornare subito ai tuoi fornelli. Devi riposarti per un po'. Prenderemo una cameriera. Italiana. Lei preparerà il nostro cibo. Magari, quando ti sentirai meglio, potrai dirigerla e svelarle qualche segreto prezioso".
Mia madre alzò le spalle: chi poteva crederci? e, con uno sguardo implorante:
"Figlio mio, lasciami andare via con serenità, senza il rimorso d'averti abbandonato".
A queste parole, fui travolto da un dolore selvaggio e straziante, quasi mi piegai in due ed esplosi in un pianto dirotto.
Poco dopo accadde quel che era impossibile non succedesse.
Squassato dalla sofferenza, non potevo lavorare ed anche il solo rimanere a casa, ora vuota di lei, mi dava una pena indicibile. Che non riuscivo a sopportare. Addirittura mi si affacciava alla mente il desiderio atroce di non vivere più nemmeno io. Dovevo reagire. Escogitai una sorta di stratagemma. Quando stavo particolarmente male, prendevo un autobus a caso che mi portava in una zona a me totalmente sconosciuta. D'istinto cominciavo ad osservare l'architettura, i passanti, i negozi. Talvolta mi veniva voglia di addentrarmi nei giardini. La cosa mi distraeva, mi rasserenava almeno un po'. Tornato a casa, ce la facevo ad arrivare al giorno dopo.
Una volta capitai nella zona dove avevo conosciuto Roldano. Presi a bighellonare. Improvvisamente lo incrociai di nuovo. Notai il suo colorito terreo, l'espressione fiacca e scorata: mi rispecchiavo perfettamente in lui. E poi, rivedendolo, accadde qualcosa che ancor oggi non riesco a spiegarmi. Come dire?... diventai un altro... un altro tipo di persona... proprio il tipo di persona che più detesto. Divenni ciarliero, volutamente spiritoso, trasbordante, smaccatamente seduttivo. Dapprima guardingo e freddo - fatto abbastanza insolito in lui - Roldano si lasciò alla fine convincere e venne a cena con me. Dicevo che volevo contraccambiare quella che mi aveva offerto qualche tempo prima.
Mangiammo, bevemmo. In abbondanza. I bicchierini si moltiplicarono e mentre io ancora chiacchieravo del più e del meno il vecchio cominciò a lasciarsi andare.
"So che lei comprende da sé tante cose... quindi non posso che essere sincero: l'idea che con quattro soldi assicurati ogni mese avrei passato serenamente gli ormai pochi anni che mi restano è stata l'ultima delusione della mia vita. A parte il fatto che vorrei veder lei vivere con seicentotrentasei euro e novantasette centesimi! Le angustie, le ristrettezze, i calcoli ansiosi sono tutt'altro finiti! Ma poi non c'è più una prospettiva, non esiste più alcun futuro: solo un accumularsi di giorni grigi tutti uguali l'uno all'altro. Sa che le dico? Avevo sempre pensato che gli infiniti fastidi, i mille impicci che mi procurava la mia attività di mediocre commerciante fossero il mio inferno quotidiano. E invece no. Erano il mio piccolo paradiso personale. O almeno una specie di oppio a mio uso e consumo che non mi permetteva di vedere con la stessa nettezza di oggi quale squallida vita di merda io abbia sempre portato avanti".
In quel momento non so che abisso si spalancasse dentro di me. Divenni addirittura folle. Travalicai ogni limite di umana saggezza.
"Mi raccomando" sibilai insinuante come il diavolo, "non prenda sul serio quello che sto per dirle. È solo il vaneggiamento di uno che ha bevuto troppo. Affinché lei viva almeno un giorno davvero vibrante, autentico, pieno di cose nuove, in un certo qual modo perfetto, lei, dico, deve uccidersi. No no... via quella faccia terrorizzata, la cosa è molto meno orrenda di quanto può apparire a prima vista. Certo, la notte prima non chiuderà occhio, divorato dall'angoscia. Ma già il mattino dopo, mentre si prepara per uscire, avrà chiarissima la sensazione che sta per compiere qualcosa di finalmente importante. Che è degno di comparire sui giornali. Una volta in strada, tutto - la chiesa solenne, quel negozio di abiti particolarmente sofisticato, il signore dall'aria così sicura di sé, la vecchia che invece si muove a fatica, con quella borsa della spesa troppo pesante, addirittura le innumerevoli automobili che intasano la via - tutto, le assicuro, avrà un sapore più intenso, un fascino inaspettato, inaudito, quasi insostenibile. È l'ultima volta che vede queste cose. Ormai senza più problemi economici si recherà in quel lussuosissimo ristorante del centro dove desiderava andare da tanto tempo. Per mangiare oltre la sazietà. Per ubriacarsi senza più nessun freno. Adesso i problemi del suo fegato di vecchio la fanno sorridere. Tornato a casa, cadrà in un sonno profondo, tranquillo, ristoratore. Di nuovo sveglio si sentirà fortissimo, inflessibile nel suo proposito. È giunta la sera: lei sta uscendo di casa per l'ultima volta. Il futuro non esiste più e, con lui, non esiste più nemmeno alcun dovere. Può palpeggiare in tutta comodità il culo di una bella ragazza, rivolgere dei complimenti incredibilmente osceni a un'altra, dare un pugno a uno che le stava sul cazzo da un sacco di tempo, venir picchiato da un tale che ha offeso senza motivo... ormai lei è il padrone assoluto della realtà. Di nuovo a casa. Accenderà la televisione a un volume altissimo. Probabilmente disturbando molti altri inquilini. Ma chi se ne cura più? Riderà a crepapelle davanti al più oscenamente stupido dei programmi. Arriverà addirittura a piangere per le troppe risate, per la devastante allegria che si è impadronita di lei. Nondimeno, all'improvviso, sentirà che è arrivato il momento. Ora è in camera da letto. Ha già staccato e messi via i ganci e il tendaggio. Ha già strettamente annodato intorno alla massiccia barra d'acciaio poco sopra la finestra la cintura della sua vestaglia. Monta su una sedia. Infila la gola nel cappio. Se lo aggiusta ancora un po'. Bene: adesso è impeccabile, aderisce perfettamente alla pelle tenera del collo. Abbandona la sedia, che s'abbatte a terra con un colpo secco. Comincia a dondolare, non senza una certa dolcezza. Poi a scalciare nel vuoto. In modo sempre più affannoso. Viene il momento peggiore: lei soffoca, il respiro si trasforma in un gorgoglio stridente mentre sembra che la testa le stia per scoppiare. Ma, fortunatamente, la strozza non ci mette troppo a schiantarsi ed ecco... ecco... lei si è già dissolto in una pace senza limiti..."
Comunque la notizia della terribile fine del vecchio che appresi scorrendo la cronaca romana di un giornale fu per me una sorta di mazzata definitiva. Ero evidentemente colpevole sia della morte di mia madre che di quella di Roldano. In modo diverso avevo abusato di entrambi. Dovevo espiare. Dovevo uccidermi anch'io. Anche per me il giorno della morte sarebbe stato un glorioso giorno di redenzione. Io però volevo spararmi alla tempia destra. Volevo spararmi alla tempia destra davanti all'enorme, rilucente specchiera del soggiorno. Chissà se avrei visto la mia faccia esplodere in mille brandelli sanguinolenti. Ma no... ma no... probabilmente non avrei visto nulla. Magari il mio volto scontornato da una smorfia ridicola.
Tuttavia mi limitai a vagare per le stanze istupidito e inconcludente, incapace di fare qualsiasi cosa. Non so quanto tempo passò. Forse anche più di un giorno. A un certo punto fu la stanchezza a vincere: mi abbattei sul letto e sprofondai nell'assoluto oblio di tutto.
Quando riaprii gli occhi assaporai una sensazione antica e dolcissima: quella del risveglio naturale del bambino che ha dormito quanto voleva, quanto gli era necessario, completamente libero dalla schiavitù degli orari. Dalla persiana solo socchiusa penetrava una luce vivace e dorata. Che era un invito a buttar via le coperte, ad alzarsi, ad uscire. Anche se, una volta fuori, m'accorsi che non avevo deciso dove andare. Non avevo nessuna voglia di perdermi a caso per le strade come pure tante volte mi era piaciuto fare. Pensai allora di recarmi alla cancelleria del tribunale civile: era da un po' di tempo che dovevo ritirare alcuni atti.
Salii su una metropolitana molto tranquilla, con poca gente e tanti seggiolini vuoti. Nondimeno, sebbene reggessi colla destra una borsa piuttosto pesante a causa delle infinite scartoffie indispensabili per svolgere la mia attività, preferii rimanere in piedi colla sinistra che stringeva saldamente l'apposita barra d'acciaio verticale. Avevo bisogno d'una certa tensione fisica.
Nella fila, peraltro insolitamente breve, davanti alla cancelleria, c'era il praticante d'uno studio commerciale con cui avevo già avuto un gran numero di rapporti.
"Avvocato, l'abbiamo chiamata tante volte in questi ultimi giorni ma non ci ha risposto nessuno" mi disse. "Volevamo proporle un caso che sembra fatto apposta per lei: quello di una certa Ludmilla Lust, una originaria di... adesso non ricordo più quale nazione dell'ex-Unione Sovietica. È la padrona d'un grosso salone di bellezza sull'orlo del fallimento e avrebbe proprio bisogno di qualcuno che l'aiuti ad evitare i guai peggiori".
Preso da non so quale bizzarra impazienza, appena fuori dal tribunale la chiamai col mio telefonino. Una fresca voce di donna. Fantasticai d'istinto fosse giovane. E notevolmente bella.
Più tardi, a casa, mentre apparecchiavo per il mio modesto pranzo freddo comprato al supermercato, mi accorsi di essere pieno d'aspettative - sia pure vaghissime, sia pure confusissime - riguardo l'appuntamento fissato con lei.
Avevo deciso di rimanermene tranquillo a casa quel pomeriggio, invece, vinto da un'eccitazione strana, uscii un'altra volta. Mi venne voglia di andare nella zona dei negozi. Magari avrei comprato qualcosa.
Ero davanti a una delle raffinate, luminose vetrine del centro quando fui invaso da una sensazione spiazzante: tutto il dolore che mi sembrava assolutamente sincero provato per la morte di mia madre era scomparso, non esisteva più. Anzi, mi sentivo sollevato, liberato da un peso enorme. E, anche se per me era molto difficile ammetterlo, non ne avevo nessun rimorso. Roldano aveva espiato per me. Mi venne un pensiero orribile: per andare avanti bisogna sacrificare qualcun altro - più debole - al posto nostro. In breve, però, tutte queste elucubrazioni mi vennero a noia. Il fatto concreto, importante, decisivo era che mi sentivo leggero, leggerissimo: sul punto di spiccare il volo.
Ludmilla non era così giovane come l'avevo immaginata: aveva sicuramente superato la quarantina (io comunque, ancora non ve l'ho detto, di anni ne ho cinquantadue). Rimaneva però bellissima: una mora dell'Est dai lunghi capelli neri neri, i tratti marcati ma dolci, il seno prorompente, le gambe perfette. Scollata e con una gonna corta. Mi parlò della difficile situazione economica in cui si trovava. Probabilmente per la prima volta in vita mia fui coraggioso con una donna e a un certo punto le posai la mano su un ginocchio. Lei mi lasciò fare.
Ormai da qualche tempo Ludmilla è venuta a stare da me. Dormiamo insieme in quella che era la camera da letto di mia madre. Una bella mattina mi fa:
"Senti, adesso che non hai più bisogno d'una stanza tua potremmo buttar giù il muro che la divide dal soggiorno e ottenere un salone bello grande! Mi piacerebbe proprio: adoro l'open space".
La guardo terrorizzato. Lei dapprima è sconcertata, poi ride di cuore. Sembra una mamma che si burli affettuosamente delle ingenuità del suo piccolo.
"Cambiare... è difficile" mormoro.
"Ma si può... si può".
E mi abbraccia e mi dà un bacetto dolce dolce sulle labbra.