ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI

PASCOLI, SEGANTINI

di Marcello Carlino

Nell'ultimo scorcio dell'Ottocento Giovanni Segantini furoreggiò. Lo si può asserire senza tema di smentite.

I fatti parlano da soli, del resto: Angelo Conti, il doctor mysticus della cerchia dannunziana, poggiò su di lui molto della estetica, a base sincretistica, che andava formulando e che raccolse nella Beata riva, pubblicata nel 1900; Pascoli scrisse su di lui un articolo ospitato dal "Marzocco", che lo ricordò in una sezione monografica, e D'Annunzio, sempre nell'area del simbolismo italiano, gli intitolò un componimento dedicato, poi rifluito in Elettra; le suggestioni dei suoi paesaggi dipinti arrivarono fino a Campana, che lo cita negli scritti, tra critica e poetica, che accompagnano i Canti orfici.

Per sua sfortuna, però, il pittore trentino meritò l'onore delle cronache culturali e pure l'omaggio in versi dei poeti di grido, i poeti laureati in quel torno di tempo, in ragione della morte che nel 1899 - al termine di una malattia fulminante lassù inarginabile - lo colse nelle solitarie alture montane dell'Engadina, dove aveva scelto di stare durevolmente a dimora. Una morte così, infatti, fu facile caricarla di un fascio di significati da trasferire, sotto il segno del mito, in dote alla cultura letteraria di fine secolo, quale potenziale premessa, e forte incentivo, all'esperienza creativa: il mito dell'artista romito che aborre le convenzioni e il contesto sociale abitato dagli "uomini della folla", il mito del déraciné alla ricerca dell'assoluto dell'esistenza, il mito dell'autenticità del sentire che rifiuta orpelli e sospinge verso il ritrovamento di una condizione come originaria, il mito del divino primitivo benedetto dalla semplicità aurorale della povertà di spirito e dell'infanzia, il mito di una concentrazione ascetica prossima al misticismo, il mito francescano (che fa breccia in tanti; e pure D'Annunzio strumentalmente se ne fa interprete), il mito di un ritorno severo e inappellabile alla natura (con il ripristino di una gerarchia che la premia, relegando in subordine, con netto distacco, la cultura), il mito della purezza della montagna (che è la voltura, per antonomasia, del mito della campagna preordinata alla città), il mito di una fedeltà ai propri convincimenti che non arretra di fronte ad un estremo sacrificio.

Segantini finiva per incarnare, insomma, recandoli a piena manifestazione con la verità del suo vissuto, alcuni valori di senso dei quali erano frequenti, e sostenute, la professione e la circolazione nel dibattito ideologico-artistico, particolarmente ricco e vivace nella seconda metà del XIX secolo, e che trovavano accoglienza, per esempio, così nel movimento dei preraffaelliti, come in talune linee di tendenza interne al simbolismo europeo; che il caso specialissimo della sua morte, dunque, facesse ombra al suo catalogo di pittore affascinato da suggestioni simbolistiche e che il mito aggregato alla sua vita nella fruizione pubblica e anche presso la classe dei colti arrivasse a "contaminare", fino a sostituirla, la "qualità-tendenza" della sua pittura, si spiega con tutta evidenza.

Segantini è tra le figure che più apre ad alcune esperienze novecentesche. Quando nell'ultimo decennio del secolo matura convintamente la scelta per il divisionismo, egli imbocca un percorso di rimarchevole interesse, che si segnala per una sua specificità innovativa, tale da non trovare riscontri né in Italia né in Francia. La sua opera non è semplicemente un'alta definizione di paesaggi esterni con una tecnica nuova, scientificamente garantita, che ottiene la ricomposizione dell'immagine e un suo fermo, d'assetto pre-geometrico, discosto dalla percezione e dalla lettura impressionistiche (come nel puntinismo di Seurat, il titolare del primo brevetto, le cui figurazioni, benché manifestino un che di enigmatico, che comunque preannuncia rappresentazioni meno pervase da furori dinamici - e più introflesse -, non esautorano intenzioni descrittive e puntualità geografico-ambientali); e neppure, per via di realismo sociale, in compagnia di Pellizza e poi di Balla e Carrà, presta forma e materia di movimento al futurismo, che in pittura nasce divisionista; e neppure si astrae nei cieli della metafisica volando sulle correnti ascensionali di Gaetano Previati.

GIOVANNI SEGANTINI - LA SPINA

La pittura segantiniana ha una carica visionaria ad alta gradazione, che sembra precorrere il surrealismo che verrà. L'ossessione tematica che si esprime nel ciclo delle lussuriose e delle madri, la sostanza metamorfica che permea i personaggi nel loro farsi prolungamenti di rade presenze arboree (rami o foglie) o nel loro levitare o adagiarsi su di un tappeto naturale come sul fondo di una teca, il bianco accecante che assolutizza lo spazio alpino e sospende il tempo cancellando qualunque tipologia sociale degli attanti per lo più solitari e assorti e come ripiegati in un loro mondo (il bianco di Segantini affascinò tanti, da Buzzi a Campana), l'effetto graffiato-polvere di portata antirealistica ottenuto dalla sua applicazione dei procedimenti divisionisti: un'altra realtà, parallela, tutta inscritta nell'io dell'autore, e forse irretita nelle sue dinamiche profonde, e forse riemersa come per un ritorno del represso, s'accampa sulle tele di Segantini. E lascia definitivamente a distanza quel verismo lombardo, in predicato di bozzettismo, e ritocca, fino a renderlo totalmente altro, quel naturalismo agreste, mutuato in parte da Millet, che inizialmente, negli anni di formazione all'Accademia di Brera, aveva condiviso con l'amico Emilio Longoni; e sfugge a suggestioni metafisiche, sia quelle codificate da precetti confessionali (si perde infatti qualunque commistione delle sue storie con capitoli delle storie sacre del nuovo testamento, che pure possono ritenersene fonti), sia quelle connesse ad una religione della natura e delle montagne.

La pittura di Segantini è attraversata da una intentio operis che la porta lontano dalle filosofie e dalle logiche artistiche del suo tempo e che appare, essa sì, degna di specialissima attenzione. Ed echi della conduzione attanziale preraffaellita - di riflesso dalle epifanie angeliche, per esempio - nonché del gusto liberty, da sovrabbondanza floreale, lungo le opere degli ultimi anni della sua esistenza pervengono mutati, riconvertiti, trascesi in un affaccio su di una realtà seconda, irriconoscibile, non più confinata tra le coordinate consuete della vague simbolista.

Ma il mito vince su tutto, in particolare se rafforzato dal pathos che esala da una morte giovane. Segantini, pertanto, diviene un testimone, suo malgrado, di come e di quanto il mito sovrasti la coscienza nella determinazione delle poetiche degli scrittori di successo, premiati dall'audience, a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

AVE MARIA A TRASBORDO, 1886

A tale riguardo chiamo a deporre Pascoli per un altro accoppiamento giudizioso.

Il divisionismo racchiude una tecnica che, quando adattata ai modi della versificazione e della partizione strofica e della focalizzazione variata, il poeta romagnolo sembra considerare con particolare attenzione ed eleggere funzionalmente. Non è soltanto Il gelsomino notturno a darne prova, benché questo pezzo dei Canti di Castelvecchio spicchi per la sua prossimità al trattamento divisionista delle immagini.

Epperò, allorché, ancora in chiave divisionista, Segantini viene ri-attinto visibilmente come una fonte pittorica della rappresentazione pascoliana, dentro un testo dal forte significato metapoetico, intitolato non a caso La poesia, è una tela come Le due madri ad essere recuperata in molti dei suoi costituenti. Una tela, cioè, in cui, su di un plafond di segni e colori primari fittamente allineati, sembra potersi professare il mito della natura e di un'autenticità contadina (una semplicità da coltivatori diretti, aveva detto Pascoli, estimatore delle Georgiche,nel suo manifesto di poetica) e di uno stupore bambino e di una verità dei sentimenti e di una originarietà francescana che apparenta in un solo universo il mondo animale a quello umano; e in cui, di ritorno ad un naturalismo agreste pressoché idillico, può celebrarsi il mito della fondazione della poesia su valori eterni di assolutezza metastorica, il mito della sua luce che rischiara il cammino degli uomini, come la lampada che tocca radente e illumina l'interno di ambientazione delle Due madri,proprio al centro della conversazione sacra di due maternità

Segantini, tanto più con la sua morte segnata da una appartatezza come sacrale, è prescelto per convalidare in Pascoli il mito del fanciullino. E non ha udienza alcuna il pittore degli scorci di una incipiente surrealtà, di un Novecento artistico-letterario che con i suoi rovelli insoluti bussa alle porte.                           

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