ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI

CAMPANA E CARDUCCI 

di Marcello Carlino

«Questa è, vecchio mio cuor, la vecchia storia, / Far, disfare, rifare; / Per l'ozio, per la fame o per la gloria, / È tutto un lavorare»: così Carducci nell'Intermezzo.

Lo stile di cui si fa impiego in questo testo appartiene, ingaglioffito, ad un registro scapigliato; nondimeno il lavoro di cui qui è detto resta quello della ricerca per la conquista della migliore soluzione espressiva: un "rifare", ovvero un laborioso trattamento del linguaggio secondo collaudata tradizione, che costituisce garanzia, comunque, del prestigio indiscusso, e della inattaccabile tenuta, illuminato da aureola, del poeta. Del resto, non soltanto nei suoi ultimi sussulti maledettistici, ma anche quando presceglie atmosfere da crepuscolo e tinte decadenti, con sentori di morte, o quando si fa bozzettista come di riflesso da un gusto impressionistico, la voce di Carducci non rinuncia alla puntualità e alla sostenutezza figurali, alla ritagliata definizione dell'immagine, ad una compiutezza ben remunerativa della scrittura in versi: non rinuncia, cioè, ad una pronuncia impettita e ad una disposizione classicheggiante, che appaiono perfettamente in linea con le istanze e con le ideologie letterarie che lo fanno poeta civile, che lo eleggono vate.

In una lettera a Sibilla Aleramo Campana cita Carducci, rimestando, aggiungendo di suo e frattanto omettendo un verbo adoperato nell'Intermezzo, "rifare": «Fabbricare fabbricare fabbricare / Preferisco il rumore del mare / Che dice fabbricare fare e disfare / Fare e disfare è tutto un lavorare / ecco quello che so fare».

Campana cita a memoria e varia soltanto per isbaglio la fonte carducciana? O intende segnalare in tutta consapevolezza un suo distinguersi e un suo dirazzare? O vuole semplicemente suggellare con tale ripresa variata, dichiarandosi senza infingimenti, e riferendosi ad un momento della sua storia d'amore, un suo modo travagliato di vivere passione e sentimento? Come che sia, questa annotazione contenuta in un testo epistolare può essere estrapolata - l'ha estrapolata a suo tempo Falqui, con una provvidenziale decontestualizzazione poco curante di rigore filologico - e quindi usata per marcare uno scostamento del poeta di Marradi dalla tradizione egemone (il "disfare" come messa in esponente della esperienza di crisi e di decostruzione della scrittura - non più il "fabbricare", piuttosto il sintonizzarsi con il sonoro lavorio erosivo del mare) e per indicare, così, un palese suo indirizzo di poetica.

"Disfare" in luogo di "rifare" quale verbo apicale: ecco, l'antica ipotesi di Contini, che ricovera Campana sotto l'ala protettiva di Carducci, privilegiando nei Canti orfici la qualità visiva delle immagini composte in intervalla insaniae,una ipotesi che variamente ritorna nelle pagine più recenti di storia della critica, subisce una smentita già per effetto di questa citazione. E la coppia scoppia, l'accoppiamento giudizioso finendo a malpartito, rovesciato in una manifesta sentenza di divorzio.

Di fatto anche nelle pagine dell'opera campaniana del 1914, tra i Notturni e La Verna, in cui la componente paesaggistica è presente e si inquadrano scorci di Firenze e di Bologna e delle terre intorno alla Falterona, tutto è sospeso e come preso in una trama di relazioni incongrue, quasi consentanee alla pittura metafisica, e come avvolto in uno sfumato che risuona di astrattezze musicali, che sovverte certezze e pienezze figurali. Valga ad esempio, tra i tanti, questo squarcio della Notte: «Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell'adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città».

Campana, da onnivoro autodidatta, legge anche Carducci, che appartiene alla sua stessa geografia culturale e che non manca di essere citato nei taccuini; epperò, per la ricchezza e la complessità delle posizioni letterarie e delle idee estetiche frequentate con generoso trasporto e con utopica volontà di sintesi, affatto irrealizzabile, non può accontentarsi di una pittoricità da scene di provincia che si vuole contenuta nella semplicità di un ritratto ristretto sulla superficie di una mera visività. E dunque il suo "lavorare" procede da un "disfare": disfare la tradizione convenuta, disfare le stabilità del dire, disfare pratiche di affido a nobili famiglie, disfare apparentamenti per convenienza, non disdicevoli, rassicuranti.

Cadono nel mentre, scoppiata la coppia con Carducci, anche le ipotesi di altri accoppiamenti giudiziosi: ovvero che la visionarietà campaniana possa accomodarsi in compiute certezze orfiche, magari facendo strada all'ermetismo nostrano, o risolversi in una liberazione assoluta del canto, in fuga da intenzioni semantiche, come, a partire da Bo, in tanti hanno sostenuto a riguardo della poesia del poeta marradese.

Il movimento, l'instabilità, il progettare un'opera totale e lo sperimentarne la dispersione in frammenti, la ricerca di un senso illimite e verificarne la distanza abissale e il decadere, il seguire e il tentare una combinazione di arti e culture e sopportarne cortocircuiti: tutto ciò fa dei Canti orfici un testo esemplare che interdice il poetese lungo le tappe di un viaggio pieno di choc che non ha soste, dentro un continente grottesco che cambia senza posa.   

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