COME NACQUE LA REPUBBLICA

di Aldo Pirone

In occasione del 75esimo anniversario della nostra Repubblica pubblichiamo un capitolo del libro di Aldo Pirone "I cinque anni che sconvolsero l'Italia 1943-1948. La rivoluzione democratica".

Il testo, edito da Bordeaux, è in uscita in questi giorni. 

L'Italia diventa Repubblica democratica

Il 6 maggio i partigiani sfilano vittoriosi a Milano. Alla testa del lungo corteo dei patrioti c'è il comando del Cvl: Cadorna, Parri, Longo, Solari, Mattei, Stucchi e Argenton. La folla li acclama come ha acclamato l'arrivo degli Alleati che, però, iniziano subito a disarmare le formazioni partigiane e a scioglierle. Il termine per la consegna è il 7 giugno. Dopo si diventa fuorilegge. A ogni combattente, in cambio della sua arma, sono date mille lire, molti elogi e tanti saluti. Non tutti consegneranno le proprie armi individuali. Gli angloamericani raccoglieranno molti ferri vecchi. Moltissimi partigiani porteranno con sé o nasconderanno le armi più efficienti. Tanti lo faranno per puro scopo sentimentale. Non è facile, per chi ha combattuto molti mesi in montagna, separarsi dal proprio fucile, dalla pistola, dallo sten, fedeli compagni di lotta e di combattimento. Non è facile cedere l'arma che, spesso, ci si è conquistati in battaglia, strappandola a tedeschi e fascisti. C'è anche chi nasconde mitragliatrici e mortai, mitra e fucili, con un intento politico. Possono tornare buoni per eventuali rigurgiti reazionari monarchici e fascisti, ma, soprattutto, per una "seconda ondata" rivoluzionaria, per un'ora X cui si spera e si aspira. A questa seconda categoria appartengono molti garibaldini, azionisti, matteottini. A nascondere armi per precauzione, temendo una rivoluzione comunista, sono anche alcuni partigiani "azzurri" e delle formazioni cattoliche, soprattutto osovane. Fra i partigiani comunisti non c'è alcuna contestazione alla linea democratica di Togliatti, perché su di essa c'è l'assenso della Russia di Stalin, un indiscusso punto di riferimento per un domani socialista. Sono molti i comunisti, e non solo tra i partigiani garibaldini, a pensare che la "democrazia progressiva" sia una linea tattica, una sorta di "cavallo di Troia" che serve a preparare le condizioni migliori per uno showdown rivoluzionario, quell'"addavenì Baffone", cioè Stalin,[1]che viene invocato con speranza come vindice di ogni oppressione subìta, e brandito come minaccia nei confronti degli avversari. È una "doppiezza" politica che durerà a lungo nel Pci. Fu il prezzo che Togliatti pagò per l'adesione alla pratica democratica del "partito nuovo" delle masse popolari di sinistra.

Un Paese in pezzi

L'Italia che esce dalla guerra è una nazione vinta e tale rimane agli occhi dei vincitori nonostante la Resistenza, la Guerra di Liberazione e l'insurrezione nazionale antifascista e antinazista. Il Nord rimane sotto il controllo dell'Amg angloamericana fino alla fine dell'anno. Il Paese ha subìto danni enormi dalla guerra. Soprattutto nelle infrastrutture di comunicazione. Una grande quantità di strade, ponti, gallerie e linee ferroviarie è distrutta. I due terzi di locomotive e vagoni se li sono presi i tedeschi. Per arrivare da Modena a Milano ci vogliono dodici ore. I collegamenti ferroviari tra il Nord e il Sud sono da ripristinare. I fiumi si attraversano su ponti di barche o con traghetti improvvisati. Il paesaggio è popolato di rottami bellici: carri armati, camion, jeep, cannoni. La marina mercantile è al 10% di quella del '38. Nelle città i bombardamenti hanno aperto larghe ferite: interi quartieri demoliti dalle bombe. Centinaia di migliaia di persone sfollate e senza casa abitano in scuole, capannoni fatiscenti, gallerie inutilizzate, tuguri e grotte di ogni sorta. Ma i danni non sono solo materiali, sono anche morali. Non c'è famiglia su cui la guerra sia passata indenne. Morti, feriti, prigionieri, deportati ce li hanno avuti quasi tutti; chi più, chi meno. È stata una guerra che ha toccato non solo i combattenti ma tutta la popolazione civile con i bombardamenti, le privazioni, la fame, le malattie, la paura per il terrore nazifascista, le angosce per mariti, fratelli e figli di cui non si ha più avuto notizia. L'apparato produttivo al Nord è stato sostanzialmente salvato dagli operai durante l'insurrezione, tuttavia anch'esso ha subìto devastazioni. La produzione di carne è il 10% dell'anteguerra, mentre l'ammasso del grano, la cui produzione è diminuita al 70%, fallisce per l'anno '45. A far funzionare la gran parte delle fabbriche sono ora i consigli di gestione dei lavoratori. Molti dirigenti e manager, compromessi con il fascismo o doppiogiochisti, si sono dileguati per timore di ritorsioni operaie e condanne partigiane. La ripresa produttiva dipende da materie prime che solo gli Alleati possono assicurare. La produzione industriale è scesa al 29% del 1938. A diminuire il potere di acquisto di salari e stipendi è l'inflazione galoppante che dal Sud si estende rapidamente al Nord liberato. Perciò, a dominare il mercato è sempre la "borsa nera" di piccoli e grandi speculatori. Il reddito medio è la metà di quello del '38. L'indice dei prezzi ha subìto un balzo stratosferico: fatto 100 quello del 1938 nel 1945 è a 2060. Manca il lavoro. Il bilancio dello Stato è in un baratro pauroso, gravato dal dover far fronte all'assistenza immediata delle famiglie dei deportati e al mantenimento dei livelli occupazionali per gli operai del nord. E poi c'è il ritorno dei prigionieri: quelli provenienti dai campi Alleati sparsi in Africa, in America, in India; quelli sopravvissuti nei lager tedeschi e i prigionieri provenienti dalla Russia. Più di un 1.300.000 persone inizia ad arrivare fin dall'estate del '45 e va a ingrossare la schiera dei disoccupati che è di circa 2 milioni. Si crea, a margine di questa massa di reduci e anche in quella dei combattenti smobilitati, il fenomeno di persone che non riescono a reinserirsi nella vita sociale e danno luogo a bande di malavitosi dedite a rapine e grassazioni. Il problema più grande è che il paese è diviso. Nel Centro-nord, pur tra difficoltà materiali e sociali, le forze scaturite dalla Resistenza, con i Cln ancora operanti politicamente, riescono a incanalare le proteste e le lotte sociali salvando sul momento l'occupazione degli operai. Mentre nel Meridione la protesta sociale è dominata e in parte sviata dalle forze conservatrici che fanno riferimento al ceto proprietario agrario e latifondista. Nel Sud i partiti di sinistra e popolari sono ancora in fieri.

Torna la speranza.

L'insurrezione al Nord ha sprigionato una grande energia democratica. Le difficoltà materiali sono tremende, le ferite della guerra ancora sanguinanti, ma fra la gente sopravvissuta agli orrori e ai traumi del conflitto, torna anche, con la libertà riconquistata, la gioia di vivere e la speranza in un domani migliore. Nel Nord appena liberato si torna a ballare nelle balere, nelle piazze dei villaggi, sulle aie contadine. Durante tutta l'estate uomini e donne - gran parte è stata partigiana - si abbandonano con la danza alla felicità di essere sopravvissuti alla guerra, alla feroce occupazione tedesca, alla fame e ai bombardamenti. Subito ci si torna ad appassionare al campionato di calcio e alle corse ciclistiche. I due sport più popolari. Il campionato di calcio per due anni non si è svolto. Riprende nel '45-46 con due gironi: al Nord e al Centro-sud. Lo vince il "grande Torino" che si era aggiudicato anche l'ultimo giocato del '42-43. Ricomincia anche il Giro d'Italia. Si era interrotto nel 1940 con il duello Coppi-Bartali. Riprende esattamente da lì. Lo vince Bartali. Con la sua bici ha partecipato alla Resistenza portando, nascosti nel telaio, documenti falsi per gli ebrei. L'Italia, fra tante divisioni negative, si divide anche fra chi tifa Coppi e chi Bartali. Ma questa volta con allegria.

Il sogno americano.

La presenza degli americani dischiude un mondo nuovo agli italiani. Dai carri armati, dalle jeep, dai camion con cui sono entrati nelle città e nei paesi, i soldati statunitensi hanno lanciato e fatto conoscere alle folle le loro sigarette avvolte in eleganti pacchetti di carta stagnola e assaggiare la loro cioccolata. Poi è stata la volta del cibo. Nei barattoli e nelle scatole che hanno in dotazione c'è di tutto: dal latte in polvere alle uova, dal bacon (pancetta) alla frutta sciroppata, dal roast beef ai fagioli. Molti ragazzi, per imitazione, iniziano a indossa re come vestito le tute dei carristi yankee comprate alla "borsa nera" e a masticare chewing gum. I cinema, che non hanno chiuso neanche durante la guerra, sono inondati di pellicole americane, per lo più ispirate all'ottimismo del New Deal o al genere western. Registi come Frank Capra, John Ford e registi-attori come Charlie Chaplin, diventano ancor più popolari. Insieme a loro, attori come Clark Gable, John Wayne, Humphrey Bogart, James Stewart, Gary Cooper, Spencer Tracy. Sugli schermi furoreggiano personaggi come Stanlio e Ollio, attori-ballerini come Fred Astaire e Ginger Rogers, attrici che fanno sognare come l'impareggiabile "Gilda" Rita Hayworth, e le sexy Lana Turner, Ava Gardner, Ingrid Bergman, Judy Garland e Bette Davis. Nelle balere della prima estate di pace straripano la musica di Glenn Miller e il boogie woogie. Nei ceti più colti dilaga la letteratura americana, dopo tanta tronfia retorica fascista si apprezza il realismo asciutto di Hemingway, Steinbeck, Melville, Faulkner, Dos Passos, London ecc. Molti italiani, soprattutto giovani, anche di sinistra e comunisti, sognano lo stile di vita americano, le sue libertà, soprattutto i suoi livelli di consumo, quelli che si vedono sulle pellicole. La gente capisce subito che i vincitori della guerra, ricchi e influenti, sono gli yankees. Non si sbagliano. L'Italia è sfamata attraverso l'Unrra [2]finanziata in gran parte dagli americani. Washington stanzia 450 milioni di dollari nel '46 in aiuti alimentari e materie prime. Non è solo buon cuore, come vedremo.

Governo Parri, breve interludio.

Il vento dell'insurrezione nazionale è benefico. Come avevano auspicato le forze di sinistra e popolari sposta a sinistra l'asse del governo. Bonomi vorrebbe rimanere in carica fino alle elezioni dell'Assemblea costituente, ma non è cosa. Nessuno lo appoggia, neanche gli Alleati. Tutti capiscono che dopo il 25 aprile occorre voltare pagina e ritornare a un governo di unità nazionale con tutti e sei i partiti del Cln. È Nenni che propone per sé e il suo partito la presidenza del Consiglio. Ma è bloccato dal veto di De Gasperi e della Dc che, appoggiati dagli Alleati, lo vogliono per loro. La reciproca elisione produce uno stallo in cui s'inserisce l'autorevolezza del Clnai che propone l'azionista Ferruccio Parri, "Maurizio", uno dei capi più popolari della Resistenza partigiana. Il 12 giugno Bonomi si dimette, non senza aver lasciato i suoi "consigli" agli Alleati per fare un referendum popolare su monarchia o repubblica. Il 21, dopo quasi due mesi dall'insurrezione vittoriosa, Parri forma il nuovo governo. Bisogna iniziare la ricostruzione del Paese e andare rapidamente alle elezioni dell'Assemblea costituente. "Maurizio", che dietro ha un partito debole e diviso, non ce la fa a fronteggiare sia i problemi sociali ed economici immediati sia quelli politici di prospettiva. Le forze moderate, Pli, Dc, demoliberali, intanto, vogliono subito archiviare i Cln. Inoltre, premono per liquidare l'Alto commissariato all'epurazione che non è riuscito a smantellare i vertici della burocrazia dello Stato monarchico, la cui continuità strutturale è stata il prezzo pagato per l'unità nazionale nella Guerra di Liberazione. L'epurazione, poi, ha preso una strada controproducente. Nell'amministrazione pubblica sono stati gli "stracci" a volare, mentre i pesci grandi sono rimasti al loro posto. Solo 403 alti burocrati sono stati colpiti. Ciò ha messo in orgasmo gli impiegati pubblici e quella massa di afascisti o ex fascisti che costituisce la vera base sociale dell'Uomo qualunque. Il loro capo, Giannini, basa la sua propaganda sulla contrapposizione tra "folla" e "uomini politici", che, guarda caso, sarebbero quelli dei partiti antifascisti. Le forze moderate e monarchico-conservatrici convergono anche su altre due questioni di non poco conto. La prima: vogliono modificare l'accordo sull'Assemblea costituente. Non deve essere essa a scegliere tra monarchia e repubblica, ma un referendum popolare. La seconda: le elezioni amministrative devono precedere quelle per la Costituente.

Pensano così di allontanare il voto politico, avvicinando quello amministrativo giudicato più favorevole alle loro liste, specie nel Sud. Parri è un asceta. Non abbandona il Viminale se non per andare da qualche parte per dovere istituzionale. Riceve spesso delegazioni di partigiani con cui discute a lungo. Nel suo studio ha fatto sistemare una branda da campo per dormire. I pasti sono brevi e frugali, spesso consumati al tavolo di lavoro. La sua faccia scavata emerge, dietro la scrivania, tra pile di documenti che la occupano in lungo e in largo. E tra quelle scartoffie si perde. La burocrazia statale, sentendosi protetta dalle forze moderate, ha rialzato la testa e gli è ostile [3]. I comunisti lo sollecitano a prendere qualche provvedimento significativo, come la riforma agraria, ma non li ascolta. I socialisti non lo sostengono come dovrebbero; pensano sempre che abbia usurpato il loro posto. Quelli del suo stesso partito passano il tempo a polemizzare fra liberal socialisti e liberal democratici. De Gasperi, che è ministro degli Esteri, impiega le sue forze a convincere l'ambasciatore americano Kirk[4] ad appoggiare le richieste dei moderati per la precedenza delle elezioni amministrative su quelle politiche. Se durante la lotta di liberazione il principio dell'unanimità che regola l'"esarchia" ciellenistica era stato un fattore di unità, ora che quel cemento è venuto meno, è diventato un elemento paralizzante. Come tale è usato dalle forze moderate e quelle conservatrici per frenare il processo in corso della rivoluzione democratica. Così il governo si attorciglia in discussioni interminabili anche sulle cose meno importanti. A rianimarlo non serve l'istituzione della Consulta nazionale che si riunisce il 25 settembre. Sono 440 membri nominati in rappresentanza di partiti, sindacati, reduci, associazioni culturali, libere professioni, quadri aziendali, ex parlamentari e senatori antifascisti. È un organo consultivo in attesa dell'elezione dell'Assemblea costituente. Alla fine, l'azione dell'esecutivo perde slancio e si arena.

L'ultimo campanello d'allarme lo suonano, il 27 settembre, i comunisti sull'Unità con un editoriale dal titolo eloquente: "Sveglia Parri!". A svegliarsi, invece, sono i liberali che hanno assunto ormai la funzione di apripista alle forze moderate, in particolare alla Dc. Il 21 novembre ritirano i loro ministri e, a ruota, De Gasperi intona il de profundis per Parri, dicendosi non disponibile a continuare senza un governo di Cln a sei partiti. "Maurizio" lascia la presidenza denunciando il pericolo di un'involuzione democratica e lamentando lo scarso appoggio avuto dai partiti di sinistra.

Potsdam, la grande Alleanza al capolinea.

Il nome in codice è "terminal" e, involontariamente, definisce bene il risultato politico della Conferenza di Potsdam. Sarà l'ultimo incontro dei "tre grandi" e anche la fine sostanziale dell'alleanza antifascista. Alla fine l'unico superstite del trio, rispetto a Teheran e Yalta, è Stalin. Roosevelt è morto il 12 aprile. A succedergli è stato il suo vice Harry Truman. Un "destino cinico e baro" ha colto, invece, l'inglese Churchill. È uscito vincitore in Europa da un conflitto tremendo in cui ha guidato i britannici con mano ferma. Per più di un anno "Winnie" [5] è rimasto solo a fronteggiare, nell'"ora più buia", gli hitleriani. La sua popolarità è enorme, non solo nel Regno Unito ma in tutto il mondo. Durante i giorni della conferenza si svolgono le elezioni politiche in Gran Bretagna. Lui pensa di vincerle facilmente. Tanto facilmente da sbagliare la conduzione della campagna elettorale. Tratta il suo antagonista, il Labour Party di Clement Attlee, che l'ha sempre lealmente appoggiato sobbarcandosi ogni responsabilità nel governo di unità nazionale, come un pericolo per la democrazia. Proclama alla radio che il socialismo laburista è «inseparabilmente connesso al totalitarismo e al culto abietto dello Stato» foriero di una «qualche forma di Gestapo». Insomma il povero Attlee come Hitler, anche se Winston ha in mente il profilo di Stalin. Non ha capito, il grande statista, che il popolo inglese, che pure l'ha seguito disciplinatamente con grande affetto e grande stima, rispecchiandosi nelle sue dita a V di "Vittoria", vuole veder riconosciuti i propri sacrifici con un balzo in avanti nel progresso sociale. Churchill è giunto a Potsdam piuttosto arrabbiato con gli americani. È angosciato dall'arrivo nel cuore d'Europa dell'Armata Rossa, per la prima volta usa il termine "cortina di ferro" con il neo presidente Truman. Gli chiede di non ritirare le truppe americane dai territori tedeschi assegnati all'occupazione sovietica. Almeno fino a quando non siano state evase tutte le pendenze aperte con Stalin: dai confini occidentali della Polonia alla natura dei regimi che devono governare gli Stati occupati dalle truppe sovietiche, dalle riparazioni di guerra della Germania alla fissazione dell'intervento sovietico contro il Giappone, dai trattati di pace con le nazioni vinte alla questione del confine orientale fra Italia e Jugoslavia. Ma non viene ascoltato. Tuttavia il 17 luglio, il giorno dell'apertura della conferenza, è messo al corrente, mentre è a pranzo con Truman, che «i bambini sono nati normalmente». Cioè, l'esperimento atomico di Alamogordo nel deserto del Nevada è riuscito: gli Stati Uniti hanno la bomba atomica. Il premier britannico ne comprende subito la valenza strategica sia per il confronto con Stalin in Europa sia perché per mettere in ginocchio i giapponesi non saranno più essenziali i sovietici. La conferenza va avanti per otto giorni tra le assicurazioni di Stalin che in Polonia ci saranno libere elezioni, come negli altri Stati della Mitteleuropa e dei Balcani - non ha alcuna intenzione di sovietizzarli, dice - e il fermo rifiuto di arretrare i confini occidentali polacchi sulla Neisse orientale. Inoltre, "zio Joe" annuncia l'intervento contro il Giappone per l'8 agosto. Il dittatore sovietico in quei giorni è euforico, propone a Truman e Churchill di rivedersi fra qualche tempo a Tokyo. Anche la notizia che gli Stati Uniti hanno una «nuova arma dalla potenza distruttiva senza precedenti» datagli da Truman non cambia il suo umore di vincitore, almeno in apparenza. Il 25 luglio la conferenza si sospende per dare modo a Churchill e Attlee di tornare a Londra ad apprendere il risultato delle urne. Il Labour stravince e "Winnie" commenta a suo onore: «Hanno tutto il diritto di votare per chi gli pare. Questa è la democrazia. È per questo che abbiamo combattuto». Nella foto finale della conferenza al suo posto ci sarà Attlee. Le decisioni dell'incontro non registreranno una rottura, ma è evidente che il clima è cambiato [6]. Alla fiducia di Yalta, sebbene già soffusa di qualche circospezione da parte inglese, sono subentrati sospetti e sfiducia reciproca. Il risultato più evidente è che con il possesso della bomba atomica gli Usa sono diventati militarmente una superpotenza mondiale, mentre la Russia lo è sul piano continentale asiatico e in parte europeo. Dalla loro i sovietici hanno il grande contributo in vite umane dato alla guerra: 26 milioni di morti e il riconoscimento generale in Europa di avere invertito le sorti del conflitto a Stalingrado. Hanno subìto una guerra di sterminio come nessun altro in Europa. L'Armata Rossa è l'esercito più grande e potente sul terreno europeo ma alle spalle ha un Paese che è stato distrutto dalla guerra di sterminio nazista. Come potenza la Gran Bretagna passa definitivamente in seconda fila. La speranza che la grande alleanza antinazista dei "tre grandi" possa assicurare, tramite l'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) un mondo di pace e di democrazia, inizia a vacillare. A Potsdam non siamo ancora alla "guerra fredda" ma se ne sente già qualche gelido spiffero. Il 6 e il 9 agosto gli Stati Uniti inceneriscono con l'atomica Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone si arrende. L'8 agosto Stalin aveva mantenuto la sua promessa e l'Urss aveva dichiarato guerra al "Sol levante". In pochi giorni i sovietici avevano inflitto al nemico 80.000 morti e catturato mezzo milione di prigionieri, avanzando rapidamente fino in Corea. Ma l'opinione pubblica mondiale capisce, giustamente, che sono stati gli americani a piegare i giapponesi con la loro nuova arma atomica. Una bomba che chiude una guerra, quella mondiale, ma che è già brandita dagli americani per un'altra: quella "fredda".

In Italia è l'ora di De Gasperi

Le crepe nei rapporti a livello mondiale fra i "tre grandi" hanno un pesante riverbero sulla situazione italiana. Il Belpaese è indiscutibilmente nella sfera degli Alleati occidentali. Le forze moderate, in primis la Dc, e quelle conservatrici, Pli e demolaburisti, cercano l'appoggio della superpotenza americana. A sua volta, essa, non avendo in simpatia né la monarchia né le vecchie forze liberal monarchiche e conservatrici, cerca forze nuove e moderate su cui appoggiarsi in Italia. Gli inglesi, senza più Churchill, si adeguano. De Gasperi è il principale interlocutore e suggeritore degli americani. Ha l'appoggio conservatore e anticomunista del Vaticano che ha sciolto i suoi dubbi. È, in fieri, una combinazione fortissima, nazionale e internazionale, in cui il segretario della Dc cerca di svolgere un ruolo anche di mediazione. A proporre De Gasperi per la presidenza è Nenni. Togliatti, che coltiva sempre il pallino dell'intesa fra i tre partiti di massa e del dialogo con i cattolici, non solleva obiezioni. Anche azionisti e demolaburisti non si oppongono. A fare le bizze sono, invece, i liberali che pur non avversando De Gasperi ripropongono, con arroganza, le loro pretese ministeriali: due ministeri e l'allargamento del governo ai grandi vecchi del prefascismo. Al che fanno infuriare tutti gli altri che si predispongono a fare un governo senza di loro. A quel punto interviene il luogotenente. Sorprendentemente, si fa difensore del principio dell'"esarchia" ciellenistica. Cosa che si era ben guardato di fare l'anno prima, quando era stato Bonomi a varare il suo secondo governo senza azionisti e socialisti. De Gasperi acconsente ed escogita, con una lettera a Cattani, il modo per far rientrare nella nuova compagine governativa il Pli che, intanto, viveva con terrore l'ipotesi dell'esclusione. Il governo s'insedia il 10 dicembre e gli Alleati lo premiano subito con l'allargamento della sua giurisdizione alle regioni del Nord. Il presidente Parri, in precedenza, l'aveva richiesto insistentemente e inutilmente.

Una corsa contro il tempo

Con il governo De Gasperi vengono al pettine nodi fondamentali, sia sul piano economico sia in quello politico, che Parri non è stato in grado di districare. L'offensiva dei partiti moderati appoggiati dagli Alleati ha già conseguito il risultato di far precedere le elezioni amministrative rispetto a quelle dell'Assemblea costituente. Il governo ha votato il suo assenso il 25 settembre. Sul piano economico le sinistre insistono sul cambio della moneta per fermare la speculazione e l'inflazione e dare alla ricostruzione un carattere socialmente più equo e democratico. Sul piano sociale, unica nota positiva è l'accordo sindacale alla fine dell'anno fra Cgil e Confindustria in cui nelle fabbriche del Nord sono introdotti il cottimo, i minimi salariali, la parità salariale e normativa per le donne e l'introduzione della scala mobile ma a condizione del ripristino dei licenziamenti. L'accordo sarà esteso nel maggio seguente anche al Sud. Intanto, si diffonde nell'opinione pubblica antifascista e fra i partiti della sinistra l'allarme per l'apparire di attività eversive anche armate di gruppi clandestini fascisti [7], in combutta con forze monarchiche. Il 23 aprile un piccolo gruppo trafuga la salma di Mussolini dal cimitero di Musocco a Milano. Il pulviscolo fascista si solidificherà, alla fine del '46,

nella nascita del Msi, il partito dei nostalgici del fascismo e dei sopravvissuti della Rsi. Nel Sud e in Sicilia cresce l'agitazione qualunquista e monarchica. Il fronte moderato-conservatore fa perno sulla Dc e riceve il crescente appoggio degli angloamericani, mano a mano che sul piano europeo aumenta il loro contrasto con l'Urss. Il fronte ha obiettivi precisi. Sul piano economico vuole una politica liberista, rifiuta il cambio della moneta e auspica la liberalizzazione dei cambi e del commercio estero. Sul piano amministrativo mira alla sostituzione di prefetti e questori di nomina Cln con personale di carriera appartenente al vecchio apparato burocratico monarchico. Sul piano politico vuole la fine dei Cln, l'istituzione del referendum istituzionale e, soprattutto, un'Assemblea costituente che non abbia poteri legislativi ma solo redigenti della Carta costituzionale. De Gasperi, e con lui tutti i moderati e i conservatori, ha in orrore un'assemblea che possa somigliare anche lontanamente a una sorta di Convenzione rivoluzionaria giacobina. Su questo, quando era ministro degli Esteri, ha chiamato in aiuto gli americani che il 16 novembre hanno presentato a Parri un parere di giuristi statunitensi che esprimono le stesse posizioni del segretario Dc. "Maurizio" non ne ha fatto parola con i suoi ministri. Il leader dc, neo presidente del Consiglio, ai primi di gennaio invita l'ammiraglio statunitense Ellery Stone, capo della Commissione alleata (Ac), a "rammentarglielo". Il 24 febbraio lo rende noto al governo. Comunisti, socialisti e azionisti sono contrari e denunciano l'interferenza straniera. Ma son posti di fronte a un ricatto: o mangiano quella minestra o saltano dalla finestra, nel vuoto di una crisi di governo con il rischio di rinviare sine die le elezioni per l'Assemblea costituente. Inoltre, le sinistre sanno che la monarchia non vuole altro che questo per mandare tutto all'aria: referendum e Assemblea costituente. Infine, hanno la sensazione che nel Paese, anche per effetto dei crescenti contrasti internazionali fra angloamericani e sovietici, più ci si allontana dalla scelta e più aumentano le chance per casa Savoia di restare al potere. L'obiettivo delle elezioni politiche da fare al più presto diviene, perciò, strategico. È Nenni a rompere ogni indugio e il 25 febbraio lo confessa al suo diario: «Mi pare chiaro che se prolunghiamo la polemica sui poteri della Costituente e sul referendum, avremo una crisi ministeriale, un sussulto della piazza contro le nostre lentezze e diatribe, qua e là delle provocazioni fasciste e monarchiche, l'intervento degli alleati, e forse un intervento non soltanto politico, come in Grecia». Togliatti è più che d'accordo. Ha già fatto osservare, a suo tempo, che c'è «qualcuno più forte di noi e più forte anche del blocco di tutte le forze democratiche» che condiziona la situazione italiana: gli Alleati. E questa volta, poi, il blocco non è di tutti i partiti antifascisti è solo di Pci, parte del Psiup e del Partito d'Azione. Perciò, le sinistre accettano sostanzialmente tutte le pretese moderate pur di dare voce al popolo. Sperano in una larga messe di voti che riaggiusti i rapporti di forza fra moderati e progressisti in favore di quest'ultimi. Il 27 e il 28 febbraio il governo decide il referendum istituzionale e lo abbina, su richiesta delle sinistre, all'elezione dell'Assemblea costituente i cui poteri sono limitati alla sola redazione della Costituzione salvo che per il conferimento della fiducia ai governi, l'approvazione delle leggi elettorali, dei trattati internazionali e di quelle leggi che il governo vorrà sottoporle. L'unica cosa su cui s'impunta Togliatti è la pretesa di liberali e democristiani di rendere il voto obbligatorio, pena sanzioni. I partiti moderati e conservatori, nonché il Vaticano, sperano molto nell'elettorato femminile ritenuto più conservatore e, specie nelle campagne, più influenzabile dai preti [8]. L'obbligo ci sarà lo stesso, ma senza pene per i contravventori. Inoltre, è approvata, sempre a febbraio, la sostituzione di prefetti e questori di nomina Cln entro il 31 marzo e l'abolizione dell'Alto commissariato all'epurazione. Sul fronte economico si lascia cadere il cambio della moneta mentre si liberalizzano, alla fine di marzo, gli scambi commerciali. Se a tutto questo si unisce il ritorno dei proprietari - scappati durante l'insurrezione - al comando delle aziende salvate dai lavoratori, si ha un quadro abbastanza esatto di una controffensiva liberista e padronale, moderata e conservatrice, che dà la sua impronta all'avvio della ricostruzione del Paese. Su questo le forze progressiste concedono troppo.

I congressi dei partiti maggiori.

Mentre il Paese è attraversato da lotte e movimenti che, come le doglie di un parto, accompagnano la nascita della democrazia, i partiti vanno a congresso. Ad aprire la stagione è il Pci. Alla fine di dicembre '45 il "partito nuovo" voluto da Togliatti si presenta nel V Congresso a Roma. È un partito di massa, 1 milione e ottocentomila iscritti, giovane, dove si ritrovano i vecchi militanti rivoluzionari del carcere e dell'esilio insieme ai ragazzi forgiati dalla lotta partigiana. Gli obiettivi sono chiari, li esplicita Togliatti: «Una repubblica democratica dei lavoratori [...] una repubblica cioè che rimanga nell'ambito della democrazia in cui tutte le riforme di contenuto sociale siano realizzate col rispetto del metodo democratico». A supporto di ciò il "partito nuovo" come strumento di partecipazione e mobilitazione popolare in grado di aderire a tutte le "pieghe della società" e di fare politica a tutti i livelli. Inoltre, unità a sinistra con il Psiup e intesa con il partito moderato della Dc per rinnovare l'Italia. Il tutto, nel quadro del mantenimento dell'alleanza antinazista fra angloamericani e sovietici che, però, già scricchiola da tutte le parti. Ma anche nel quadro del legame di ferro con l'Urss di Stalin e con il suo "mito" rivoluzionario come scelta di campo. Seguono, a febbraio, gli azionisti che subito si dividono e si scindono. Parri e La Malfa escono creando un altro partito chiamato "Concentrazione democratica repubblicana". Il loro dibattito congressuale è incentrato sulla propria identità. Solo che d'identità gli azionisti ne hanno almeno due: liberalsocialista e liberaldemocratica. E non riescono a farle amalgamare. Poi c'è una pausa elettorale da marzo ad aprile con la prima tornata di elezioni amministrative nei comuni. I risultati già delineano un primo quadro dei rapporti di forza fra i partiti. Su 5.722 comuni, prevalentemente del Centro-nord, la Dc ne conquista 2.534, comunisti e socialisti 2.289, i liberali un centinaio, demolaburisti 69, repubblicani 38, qualunquisti 23 e solo 9 gli azionisti. Ad aprile riprendono i congressi. Il Psiup lo apre l'11. Sono 840.000 gli iscritti che si dividono su diverse mozioni, diverse anime, diverse personalità. Figlie delle vecchie e storiche tendenze del massimalismo e del riformismo. A divaricarle è il rapporto con i comunisti. Unitari con il Pci, anche se non fusionisti, quelli guidati da Nenni [9]; autonomisti e riformisti quelli guidati da Saragat. L'obiettivo che li unisce è la Repubblica e una Costituzione democratica avanzata. La Dc svolge il suo primo congresso dal 24. È un partito in pieno sviluppo. Il suo programma raccoglie istanze sociali progressiste e riformatrici che unisce a quelle moderate e conservatrici. Il Vaticano di Pio XII, che è per la monarchia, ha provveduto a togliere di torno a De Gasperi il vecchio don Sturzo di sentimenti repubblicani, vietandogli di rientrare in Italia dagli Usa. E poi la "sinistra cristiana", figliata dai "comunisti cattolici" di Adriano Ossicini e Franco Rodano. La Santa Sede ha eletto la Dc a unico partito dei cattolici. Anche se lo tiene sub iudice. Quello di De Gasperi è il più grande fra i partiti di massa con un solido retroterra nelle parrocchie. Si presenta già come l'antemurale dei "socialcomunisti". In quanto tale, raccoglie un fronte amplissimo di elettorato moderato e conservatore, di ceto medio piccolo borghese, che fu base di massa del fascismo, e di coltivatori diretti delle campagne. Senza alienarsi, per altro, consistenti porzioni di classe operaia. Un interclassismo cementato da un cattolicesimo variamente vissuto: da una parte come impegno sociale e, dall'altra, come integralismo clericale con sfumature sanfediste di derivazione vaticana. Tuttavia, in quel tornante politico il partito cattolico vive una contraddizione. Gli iscritti sono a maggioranza per la repubblica, l'elettorato è a maggioranza per la monarchia. L'ha certificato un referendum tra gli iscritti: su 836.812 votanti, il 60% ha scelto la repubblica, il 17% la monarchia, il 23% non si è espresso. La decisione del referendum è una manna per De Gasperi. Gli consente di tenere unito il partito con l'elettorato e con il Vaticano scegliendo una posizione agnostica. Il Pli chiude la serie dei congressi dei partiti del Cln. Sono monarchici a maggioranza [10], conservatori tutti. Il loro modello è lo Stato liberale prefascista. Guardano al passato. Cercano di inseguire, senza successo, i qualunquisti di Giannini, ma perdono la loro ala sinistra più aperta e moderna: Antonio Calvi, Franco Antonicelli, Gabriele Pepe e altri.

Il re di maggio.

I risultati delle elezioni amministrative e il pronunciamento per la repubblica degli iscritti della Dc, hanno gettato nello sconforto il luogotenente e gli ambienti della Corte. I monarchici non trovano gli appigli politici necessari per allontanare quello che considerano l'amaro calice della sconfitta. Hanno puntato sulla crisi di governo, ma le sinistre non ci sono cascate preferendo ingoiare molti rospi. Umberto dice in giro, anche al ministro liberale Cattani, che il referendum non si può

fare senza il ritorno di tutti i prigionieri e senza che le popolazioni della Venezia Giulia occupata da Tito e dagli angloamericani possano votare. Con sua sorpresa, Cattani gli risponde che invece bisogna votare al più presto per non lasciare il Paese nell'"incertezza giuridica". I Savoia non hanno di queste preoccupazioni patriottiche. Per loro l'importante è continuare a rimanere in sella, anche in condominio col Cln. Per aumentare le chance elettorali e anche come ultimo tentativo di mettere in crisi il governo, i Savoia, padre e figlio, rompono unilateralmente la tregua istituzionale. Il 9 maggio Vittorio Emanuele abdica in favore di Umberto che diviene re. È l'ennesima, ma non ultima, fellonia dei Savoia. La reazione e lo sdegno delle sinistre e di tutti i repubblicani sono fortissimi. In tutta Italia, nelle città come nei paesi, si svolgono grandi manifestazioni popolari che danno la spinta finale alla campagna elettorale per cacciare la monarchia. De Gasperi, dal canto suo, cerca di attutire il colpo monarchico sminuendone il significato. Il suo obiettivo, in previsione di una possibile vittoria repubblicana, è che tutto si svolga con un passaggio di poteri tranquillo e con i crismi della continuità statale. Quattro giorni dopo, un gruppo di esponenti monarchici si rivolge all'ammiraglio Stone per chiedergli ufficialmente il rinvio della consultazione popolare. Ma anche lui risponde picche. Iniziano a circolare voci su possibili colpi di Stato di militari fedelissimi dei Savoia. Ma non si concretizza nulla. Non c'è niente da fare, la monarchia sabauda deve presentarsi al giudizio popolare che lei stessa ha richiesto e di cui ora ha paura. La campagna elettorale prosegue appassionata, ma senza incidenti fino a venerdì 31 maggio. Umberto lancia un estremo appello agli italiani in cui gioca una carta disperata: promette, se la monarchia vincerà, di ripetere il referendum a conclusione dei lavori dell'Assemblea

costituente quando ci sarà la Costituzione. Sabato 1° giugno sarebbe giornata di silenzio elettorale, a romperlo è Pio XII che approfittando del suo onomastico, e non soggiacendo alla legge italiana, interviene abbastanza esplicitamente a favore della monarchia e della Dc. Con toni da Torquemada dice agli elettori che la scelta dell'indomani è fra la «salda rocca del cristianesimo, sul riconoscimento di un Dio personale» e la «onnipotenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio». È solo l'antipasto del '48. Ma moltissimi cattolici che hanno visto all'opera i Savoia, prima con Mussolini e poi con la fuga dell'8 settembre, si regoleranno diversamente. Almeno nel referendum.

È Repubblica

Il 2 giugno il meteo dice che l'Italia è divisa. Tempo incerto con temporali al Centro-nord e primo caldo africano nel Sud. Anche le urne riveleranno un paese diviso lungo la stessa linea di demarcazione. Fin dal primo mattino la rivoluzione democratica prende forma davanti ai seggi. Lunghe file di uomini e di donne aspettano pazienti di dire la loro sul futuro dell'Italia. Per le donne, che fra gli aventi diritto al voto sopravanzano gli uomini di un milione, è la prima volta in una votazione politica nazionale. La partecipazione è enorme; quasi il 90% dei cittadini va alle urne. Lo scrutinio inizia il pomeriggio del 3, perché si è votato anche il lunedì mattina. I primi risultati referendari arrivano dal Sud e dicono monarchia. Al Viminale c'è il ministro dell'Interno, il socialista Romita, a dirigere la macchina elettorale. Nella notte la monarchia è avanti, tanto che la mattina presto del 4 De Gasperi comunica al ministro della Real casa Falcone Lucifero che si prospetta una loro vittoria. Poi l'andamento si rovescia, arriva la valanga repubblicana del Centro-nord e nel pomeriggio del giorno successivo Romita annuncia il risultato: è Repubblica. Ma l'Italia è spaccata. Da metà Lazio in su la vittoria repubblicana è schiacciante. Viceversa, nel Sud e nelle isole, è la monarchia a prevalere nettamente.

L'ultima fellonia

Il re sembra accogliere il verdetto come aveva promesso e si prepara a partire per l'esilio. Sennonché ci ripensa. Un gruppo di giuristi padovani ha fatto osservare che il decreto elettorale luogotenenziale n. 98 assegna la vittoria all'opzione espressa dalla «maggioranza degli elettori votanti». Perciò i monarchici vogliono far entrare nel conto anche le schede nulle e bianche di cui ancora non c'è un dato definitivo. Alla fine saranno un milione e mezzo e anche volendole surrettiziamente conteggiare nel quorum, non muterebbero il risultato finale [11]. Lo renderebbero solo più risicato e soggetto a richieste di riconteggi con querelle e recriminazioni infinite da parte monarchica. A dar man forte alla resistenza savoiarda ci si mette anche la Corte di cassazione chiamata a proclamare il risultato definitivo. Il 10 giugno il presidente Pagano legge i voti che hanno preso repubblica e monarchia, non dà il numero di quelli non validi e rimette a un'udienza successiva il giudizio finale[12]12. L'ostinato e capzioso rifiuto di Umberto di prendere atto del risultato, scatena nel Paese manifestazioni contrapposte: antimonarchiche e antirepubblicane. A Roma, il pomeriggio dell'11, Romita celebra la vittoria della Repubblica con un grandioso comizio a piazza del Popolo. A Napoli, invece, si contano sette morti e molti feriti tra la folla di monarchici che assalta la federazione del Pci in via Medina, colpevole di aver esposto il tricolore senza la "ranocchia", come viene sprezzantemente chiamato dai repubblicani lo stemma sabaudo. La Cgil mobilita i lavoratori a sostegno del governo. De Gasperi, intanto, fa la spola con il Quirinale cercando di convincere con le buone il re ad accettare il responso delle urne. È un lavoro estenuante, con momenti drammatici. In uno di questi, a Falcone Lucifero che inveisce contro di lui, De Gasperi risponde irato: «E sta bene: domattina o verrà lei a trovare me a Regina Coeli o verrò io a trovare lei». Alla fine, di fronte a un rifiuto che si fa via via più pervicace, cui si aggiunge l'intenzione di volere la ripetizione del referendum, [13] nella notte fra il 12 e 13 il governo decide di far assumere a De Gasperi le funzioni di capo dello Stato ope legis, riducendo il re a semplice cittadino. A far decidere anche i titubanti è un "tintinnar di sciabole" golpista che si sente in alcuni ambienti militari monarchici, avvisaglia della guerra civile. Il governo è compatto nel fronteggiare il monarca. Le posizioni più lucide e intransigenti le ha Togliatti, ma anche il liberale Cattani, pur sostenendo le ragioni del re, non si oppone alle prese di posizione e alle decisioni governative. A propendere, invece, per le ragioni della Corona sono, in via personale, l'ammiraglio Stone e l'ambasciatore inglese Noel Charles. Il 13 Umberto II cede e nel pomeriggio vola da Ciampino verso Cascais in Portogallo. Se ne va irato, lanciando un proclama incendiario al Paese in cui accusa il governo di avere «in spregio alle leggi [...] compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano». De Gasperi, a nome del governo, respinge nella ricostruzione umbertina «quanto di fazioso e mendace» c'è, affermando che il regno dei Savoia «si

conclude con una pagina indegna». La fellonia di Umberto l'ha privato del cordiale scambio di saluti che, all'atto della partenza, aveva immaginato di fare con il monarca.

La Costituente.

Ad aiutare l'isolamento della monarchia nelle sue velleità golpiste, è anche il risultato del voto per l'Assemblea costituente [14]. Per le sinistre è una mezza delusione. I comunisti avevano due obiettivi: diventare primo partito a sinistra e ottenere insieme ai socialisti il 50% dei seggi. Invece, arrivano terzi, dopo il Psiup, e, insieme, non superano il 40%. [15] Sempre a sinistra, chi esce distrutto dal voto è il Partito d'Azione che rimane sotto l'1,5% con due seggi, nonostante sia stato la seconda forza partigiana nella Resistenza. Prevedibilmente, invece, spariscono i demolaburisti, mentre riappare la tradizione storica del Partito repubblicano che conquista 23 seggi. A vincere è, indiscutibilmente, la Dc moderata con il 35% dei voti. Insieme ai liberali supera di poco il blocco socialcomunista. Ma a destra deve fare i conti con la presenza dell'Uomo qualunque che, essenzialmente nel Meridione, ha preso il 5,7% e i monarchici con il loro, più che deludente, 2,3% circa. Appare evidente che l'elettorato cattolico ha votato a maggioranza per la monarchia, in sintonia con il Vaticano che spinge a destra, in senso intransigentemente anticomunista, il partito di De Gasperi. Il panorama politico subisce qualche modificazione che mette irrevocabilmente da parte la vecchia "esarchia" del Cln e riassesta al centro la geografia politica del Paese rispetto al Centro-nord resistenziale. Tramontano, definitivamente, le vecchie personalità liberali prefasciste. Subito dopo i risultati, De Gasperi forma il suo secondo governo. È un quadripartito Dc-Pci-Psiup-Pri. Senza il Pli, che però lascia il ministro Corbino, trasformato in indipendente per l'occasione, a far da sentinella liberista al Tesoro e all'Economia. De Gasperi tiene anche gli Interni e, ad interim, gli Esteri. A capo provvisorio dello Stato15 i costituenti eleggono Enrico De Nicola,[16] meridionale e monarchico. Lo propone Togliatti e ottiene rapidamente l'accordo unanime. È una figura perfetta per conquistare alla nascente Repubblica il consenso del Sud monarchico e isolare il revanscismo sabaudo.


[1] "Baffone" era il nomignolo affettuoso che il popolo di sinistra, comunisti e socialisti, aveva affibbiato a Stalin. Qui è declinato in dialetto romanesco, in altre parti d'Italia l'espressione era declinata nei dialetti locali.

[2]United Nations Relief and Rehabilitation Administration. Amministrazione delle Nazioni Unite per l'assistenza e la ricostruzione

[3]Parri ricorderà: "I funzionari, come d'altra parte la magistratura, mi guardavano con sospetto, anche se ci sono volute parecchie settimane perché mi rendessi conto del punto a cui la loro ostilità e la loro resistenza passiva potevano giungere". A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla

Liberazione al potere Dc, Laterza, Roma-Bari, 1988 p. 100.

[4] Il 25 agosto De Gasperi incontra Kirk e lo invita ad appoggiare la precedenza delle elezioni amministrative su quelle per l'Assemblea costituente. Il 6 settembre l'ambasciatore presenterà al governo Parri questa richiesta a nome del governo statunitense.

[5]Vezzeggiativo di Winston.

[6]La conferenza terminò il 2 agosto. Gli accordi finali prevedevano: a) istituzione di un Consiglio dei ministri degli Esteri (Usa, GB, Urss, Francia e Cina) per i trattati di pace con i Paesi vinti; b) disarmo e denazificazione della Germania, punizione dei criminali di guerra e smembramento dei grandi complessi industriali sostenitori del nazismo; c) frontiere della Polonia a est sulla linea Curzon e a ovest sull'Oder-Neisse occidentale; d) ammissione dei Paesi vinti e neutrali all'Onu esclusa la Spagna franchista. Per il Giappone fu fatta una dichiarazione da Truman, Churchill e Chiang Kai-shek che stabiliva le condizioni della resa.

[7] Squadre di azione Mussolini (Sam), Fasci di azione rivoluzionaria (Far), Partito democratico fascista, Armata italiana di liberazione (Ail) finanziata dai servizi segreti statunitensi. In campo monarchico agirono i Reparti antitotalitari antimarxisti.

[8]Il 21 ottobre 1945 Pio XII, parlando alle donne cattoliche, affermò: «Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione [..] per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione». È da notare che fra i leader dei partiti antifascisti l'unico che pose il problema dell'emancipazione femminile come grande questione nazionale e democratica fu Togliatti.

[9] Fusionisti nel senso della creazione di un partito unico con i comunisti. Un tema che aveva impegnato durante la Resistenza sia il Pci sia il Psiup. Non se ne fece niente di più del patto d'unità d'azione che già li univa.

[10] La segreteria che propone la scelta dell'agnosticismo, calorosamente appoggiata anche da Benedetto Croce, è messa in minoranza: 309 voti contro 412. La mozione di Edgardo Sogno e Manlio Lupinacci che schiera il partito con la monarchia ottiene 412 voti, la mozione per la repubblica 261 e 121 le schede bianche.

[11]Repubblica voti 12.717.923, (54,3 %); monarchia 10.719.284, (46,7%). Schede nulle 1.498.136.

[12] La proclamazione ufficiale avverrà il 18 giugno.

[13] Nel decreto luogotenenziale del 23 aprile che regola lo svolgimento del voto e degli scrutini, agli art. 16 e 17 si prescrive la presa in considerazione ai fini del risultato finale dei soli voti attribuiti alla repubblica e alla monarchia.

[14]Risultati dei principali partiti. Dc: 8.101.004, 35,21% seggi 207; Psiup: 4.758,129, 20,68%, seggi 115; Pci: 4.356,686, 18,93%, seggi 104; liberali (Udn): 1.560.638, 6,79%, seggi 41; qualunquisti (Fuq): 1.211.956, 5,27%, seggi 30; repubblicani (Pri): 1.003,007, 4,36%, seggi 23; monarchici (Bnl): 637.328, 2,77%, seggi 16; azionisti (P.d'Az) 334.748, 1,48%, seggi 7; Indipendentisti siciliani 4; Parri (Cdr) 2; sardisti (PsdA) 2; demolaburisti (Pdl) 1; cristiano sociali (Pcs) 1.

[15]Subito dopo la vittoria del 2 giugno a riassumere bene gli obiettivi dei socialisti per l'immediato futuro è Nenni. Il 27 giugno dice ai microfoni del cinegiornale Incom: «Si apre una nuova fase della nostra attività che sarà caratterizzata da quattro esigenze fondamentali: la pace, nei giusti confini d'Italia, la pacificazione interna, di cui il primo atto sarà l'amnistia, pane e lavoro per 45 milioni di italiani, una moderna Costituzione che ci ponga all'avanguardia del progresso». Non sono solo gli obiettivi del Psiup ma anche di Togliatti e del Pci.

[16]Al varo della Costituzione il primo gennaio 1948 divenne presidente della Repubblica.

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