
ALESSANDRO IOVINELLI,
MAGIC MOUNTAIN
Torino, Robin Edizioni, 2020
di Gualberto Alvino

Che il tavolo del critico militante rischi perennemente di cedere sotto il peso di vient-de-paraître di vario calibro e natura è nozione volgare, appena venata di leggenda; ma pochi sanno che i brividi più forti, le vere sorprese giungono ora non dai massimi marchi (come accadeva decennî or sono, quando prosperava una cosa chiamata editoria italiana), sì dai minori e minimi: gli unici, ormai, provvisti di fiuto e audacia d'impresa.
Ed ecco planare su quel tavolo Magic mountain di Alessandro Iovinelli (ma il titolo originario, prima del nefasto consiglio anglofiliaco d'un'amica, era semplicemente Montagne russe, e ancor prima La bella estate, «per omaggiare l'insuperabile trilogia di Cesare Pavese», autore col quale il Nostro, sia chiaro, ha ben poco da spartire).
Poeta (Premio Gozzano per la poesia 2001 con Il porto delle navi che volano), narratore (Premio speciale Cesare Pavese 2012 con L'uomo che amava Kirsten Dunst), saggista (Attraverso Tabucchi, 2018), Iovinelli costruisce una trilogia di racconti (ma avverte in Prefazione che sarebbe più corretto definirli romanzi brevi o novelle: noi diremmo racconti lunghi) robusta e assai ben congegnata, sorretta da una lingua veicolare, concreta, arcirealistica, a tratti ampollosa («Lei non ha mai smarrito le chiavi del mio desiderio», p. 119) e laccata da dotte citazioni letterarie e musicali:
Devo essere ancora sincero: non m'importa nient'altro che della musica. Sono consapevole dei limiti della mia scrittura, anzi sono certo che niente di quel che ho scritto sarà letto di qui a cent'anni. Ciò nondimeno scambierei volentieri la migliore delle glorie con uno solo dei Notturni di Chopin o almeno con le prime battute delle Gymnopedies di Satie. Non mi importa più tanto, se non sono stato io a scrivere i versi del Sogno del prigioniero o di Tabaquería, che pure considero dei capolavori in assoluto, ma la mia massima aspirazione resterà sempre quella di emulare Glenn Gould che suona Bach. (p. 133)
o eccessivamente rilasciata, specie nel dialogato, trascrizione fin troppo fedele del parlato spontaneo, ai limiti (mai per fortuna varcati) dell'insoffribile noia:
Dopo una lunga pausa mi disse:
«È proprio sprecata con uno come te...»
«Che vuoi farci? Così va il mondo.»
«Parlo seriamente.»
«Anch'io.» (p. 152)
ma sempre limpida e godibile. Una lingua distante mille miglia dall'idea di letteratura di chi scrive (antagonista e di ricerca, irremissibilmente sperimentale), tuttavia prodiga d'un piacere cui è arduo resistere: non già, beninteso, il piacere del come va a finire, bensì del come si muove. Perché la lingua di Iovinelli (discendente del fondatore del mitico teatro Ambra Jovinelli di Roma: ciò vorrà pur significare qualcosa) è un animale da palcoscenico selvaggio e ingovernato che procede a balzi, finte, scatti, spietate escavazioni nella condition humaine, deviamenti repentini e inopinati, catturando il lettore e perfino stregandolo con la sua avvolgente spettacolarità. Il pregio dell'operazione è qui, non certo nei plot, intenzionalmente privi o deboli d'arco drammatico. E soprattutto nella struttura, una originale variante del manoscritto ritrovato, nella quale «chi firma l'opera è solo l'ultimo anello della catena, al massimo il rifacitore del manoscritto originale» (p. 211): il narratore viene casualmente in possesso di tre "vere" vite e ne fa altrettanti racconti, conservandone la "verità" e premettendo a ciascuno di essi un'Avvertenza che svela l'antefatto:
Qualche tempo fa mi venne a trovare a casa un mio vecchio collega del Ministero degli esteri. Portò in dono una busta A4 contenente alcuni fogli stampati, cui aggiunse una spiegazione preliminare: «È un racconto. Leggilo. Potrebbe interessarti. Lo scrisse una mia amica alcuni anni fa. Nel frattempo, la poverina è venuta a mancare. Prima però mi ha spedito il suo testo con la preghiera di pubblicarglielo un giorno, anche se anonimo o apocrifo. (Cacciatori di polvere di stelle, p. 11)
Massimo ritornò a Roma raccontandomi una singolare storia che gli era accaduta. Nella sala di attesa della casa editrice aveva conosciuto un celebre scrittore di cui non farò il nome. Per ragioni tutte sue, questi aveva simpatizzato con l'esordiente, tanto da entrarne in corrispondenza per posta elettronica e poi inviargli una mail con un file in allegato: si trattava di un testo autobiografico in regalo, ovvero con l'autorizzazione di farne ciò che gli piaceva, perfino pubblicarlo come proprio. (Come l'amore perduto, p. 118).
È probabile che gli accennassi le trame di Cacciatori di polvere di stelle e di Come l'amore perduto. Lui [il mio vecchio compagno di scuola] se ne mostrò entusiasta, tanto da aggiungere subito in segno di proposta: «Perché non prendi anche il mio vecchio racconto? Sarebbe perfetto in una trilogia». [...] ho rivisto il testo, munendomi di bisturi, pialla e lima. (Un cuore da ragazzo, p. 211).
Questo è il lato Poe di Iovinelli: inoculare
il mistero nel futile, nel basso quotidiano, nell'autentico simulato, trasformando
il le